Euristeo, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA X
 
 GLAUCIA, poi CLEARCO, che tiene in mano la spada di Ormonte, e i suddetti
 
 GLAUCIA
                              Domo è il superbo e freme,
 quale avvinto leon, chiuso in sua stanza.
 CISSEO
 Né recasti il suo ferro?
 CLEARCO
                                            Eccolo, o sire.
 Senza me non l’avresti. In man di amico
1130ei lo cedé. Lo disarmò il tuo cenno.
 Quello è il brando, o signor, che in man di lui (Cisseo ed Ismene lo stanno considerando)
 il terrore e il sostegno
 fu già de’ tuoi nimici e del tuo regno.
 ISMENE
 Egli è desso. Egli è desso.
1135Più non resta a temer. Vedi le ziffre
 del caro nome. O numi
 veridici! In custodia
 voi l’aveste dal dì che nel toglieste,
 crudelmente pietosi. O qual del padre
1140fia il piacer! Quale il mio!
 Quale il tuo, mia Aglatida! Or sol v’intendo,
 moti interni del sangue, in me costanti.
 Caro Euristeo! Non più sospiri e pianti.
 GLAUCIA
 Che sento?
 CLEARCO
                        Il degno amico è d’Argo il prence?
 CISSEO
1145Più non si tardi. A me Aglatida e Ormonte.
 ISMENE
 Tutto dobbiamo, Erginda, al tuo dolore.
 GLAUCIA
 Dall’alto della speme, ah, qual cadei!
 ERGINDA
 Del mio ben venni in traccia e lo perdei.
 
    Già m’accheto. Già conosco
1150il tenor della mia stella.
 
    Già mi attende il natio bosco.
 Non è nata a regio sposo
 sventurata pastorella.