Meride e Selinunte, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA V
 
 MERIDE
 
 MERIDE
 Vanne, Ericlea. Seguir tuoi passi è rischio.
1250Arrestarli è delitto.
 Se tanto non ti amassi,
 meno ti temerei. Sacra amistade,
 i più teneri affetti ecco a te sveno;
 e ciò che il nume tuo da me richiede,
1255tutto core or mi trovi e tutto fede. (Incamminandosi per entrare nella città, vede alzarsi il ponte e chiuderglisi in essa l’entrata)
 Che veggio? Il ponte alzarsi...
 Al piè chiudersi il varco... Oimè! Fermate.
 A me tocca morir. Ma qual dall’alto
 stral mi si getta e di quai note impresso
1260foglio?... Che sarà mai? Sciagure e mali. (Vedesi cadere al piede una freccia lanciata fuor delle mura, alla quale sta legata una lettera che vien raccolta e letta da lui)
 «Meride, in Siracusa entrar ti è tolto. (Legge)
 Morir deve in tal giorno
 Selinunte di ferro e tu di scorno». (Dopo letto sta alquanto sospeso)
 Tradimento esecrabile! Non uomo,
1265demone o furia il concepì. L’amico
 non potea dell’amico
 carnefice mai farsi.
 Si è trovata la via. Di Selinunte
 cade reciso il capo
1270e Meride il recide. Il re, le genti
 che ne diran? Che Selinunte? O dio!
 Qui potessi morir!... Morir qui posso;
 ma non salvo l’amico.
 Nol salvo? No. Già piega il giorno. A morte
1275forse or vien tratto. Or forse
 al feral palco... Oimè! Febo, il tuo corso
 non affrettar. Da me difese in guerra,
 mura, apritemi un varco.
 Re, tu sospendi il cenno,
1280tu la scure, o ministro. Ecco, già vengo.
 A me quel ferro. A me quel colpo. Io porgo
 il collo. Io piego il capo.
 E col nome sul labbro
 di Selinunte... Ah! Ch’io vaneggio; e intanto
1285vola il tempo; il mal preme; il rischio cresce;
 e nuoce il disperar. Deh! Che far deggio?
 Degno ne son, se col mio duol vaneggio.
 
    Nel grave periglio
 fermezza e consiglio,
1290non ira e dolor.
 
    Lo so, iniqua sorte,
 l’amico va a morte,
 la fede è tradita,
 perduto è l’onor.
 
1295   Ma tutto salvarmi
 può ingegno e valor.
 
 Il fine dell’atto quarto