Alessandro in Sidone (Zeno e Pariati), Vienna, van Ghelen, 1721

 SCENA V
 
 ARGENE e i suddetti
 
 ARGENE
 Germana, a questa parte
130tosto verrà Alessandro. Ei te non vegga (Ad Addolonimo)
 con Fenicia parlar. Sospetta o rea
 la vostra intelligenza a lui può farsi.
 ADDOLONIMO
 Ben mi consigli. Addio. M’è grato il zelo
 che veggio in te; ma in te l’ascondi; e intanto
135del mio regno e di me disponga il cielo. (Addolonimo parte)
 ARGENE
 Fenicia, e che ti affanna?
 Il regno che perdiam? Virtù a noi resta.
 Il padre prigionier? Speriamlo sciolto.
 La patria oppressa? Altrove ella si cerchi.
 FENICIA
140Stupida, o cara Argene,
 in sì gravi sciagure è l’indolenza.
 ARGENE
 Gravi son; ma non ceda
 al vil peso di loro alma ch’è forte.
 FENICIA
 Qual fortezza, ove il duolo è grande e giusto?
 ARGENE
145Giusto e grande lo fan tema e fiacchezza.
 Ma qual duolo Aristippo a te permette?
 FENICIA
 Maggior di sua dottrina è il nostro frale.
 ARGENE
 Eh! Confessa ad Argene
 che piangi, più che i nostri, i mali tuoi
150e che il tuo duolo è amore. Io nol conosco;
 ma parmi di vederne
 la fiamma in que’ sospiri; e giurerei
 che Addolonimo solo è il tuo tormento.
 FENICIA
 È ver, germana. Io l’amo.
 ARGENE
155(Misera!) E tanto costa a te l’amarlo?
 FENICIA
 Me non cruccia il mio affetto
 ma il mio dover che il bel disio ne cela.
 ARGENE
 Affetto che disia, dover che tace,
 ecco un doppio languir. Pietà mi fai.
160Grazie al destin ch’è mio natio costume,
 senza maestro, odiar ciò ch’è dolore;
 e grazie al ciel ch’io non conosco amore.
 
    Se amore io mai vedrò
 volermi entrar nel sen,
165ciò che risponderò più sempre imparo.
 
    «Vattene» a lui dirò.
 «Non sei che un rio velen;
 e ’l dolce, che prometti, è troppo amaro».