Merope, Venezia, Pasquali, 1744

 ARGOMENTO
 
    Volendo Aristotile, nel capo 15 della sua Poetica, dare un esempio della più perfetta riconoscenza nelle azioni tragiche, la quale avviene allorché le persone non conoscono l’atrocità dell’azione che son per commettere, se non dopo averla commessa e dopo il pericolo in cui sono state di commetterla, ne reca l’esempio d’Euripide, il quale, nella sua tragedia intitolata Cresfonte, fa che Merope riconosca il figliuolo nel momento medesimo in cui ella sta per ucciderlo. Siccome questa tragedia d’Euripide non ci è stata conservata dal tempo, così è difficile l’indovinare l’artifizio, con cui egli avesse condotta la favola, e il sapere tutto l’argomento su cui l’avesse distesa. Quanto all’artifizio, se n’ha un piccolo barlume in Plutarco, il quale nel suo trattato dell’Uso de’ cibi riferisce che Merope, nell’atto di svenare il figliuolo non conosciuto da lei, se non come assassino del suo figliuolo medesimo, vien trattenuta opportunamente dall’arrivo d’un vecchio, da cui le vien fatto conoscere che quegli era il suo proprio figliuolo. Quanto poi all’argomento, io ho creduto d’averne trovate tutte le possibili circostanze non meno appresso Pausania, nel libro 4, che appresso Apollodoro, nel libro 2 della sua Biblioteca. Ed ecco in ristretto quel tanto che ho giudicato più acconcio alla condotta del mio disegno.
    Cresfonte, uno della famosa prosapia degli Eraclidi, cioè a dire dei discendenti da Ercole, fu re di Messenia e marito di Merope, figliuola di Cipselo, re di Arcadia. Per suggestione di Polifonte, che pur era degli Eraclidi, egli proditoriamente fu ucciso da Anassandro, servo confidente della regina, insieme con due teneri figliuolini che presso di lui si trovavano. Epito, che da me nel dramma vien nominato anche Epitide, suo terzo figliuolo, non soggiacque all’istessa disavventura, perché allora, in età ancor tenera, trovavasi ostaggio appresso Tideo, re d’Etolia. Morto Cresfonte, non si poté venir in chiaro dell’autore di tal misfatto, perché Anassandro fu tenuto occulto gelosamente da Polifonte. Il sospetto cadé sopra la regina, per essere stato l’uccisore suo confidente e suo servo; e questa voce fu avvalorata con arte anche da Polifonte. Ciò la escluse dalla reggenza e Polifonte fu dichiarato re, con obbligo di dover render lo scettro ad Epitide, ogni qual volta questi capitasse in Messenia e fosse in età di governar da sé stesso. Il tiranno, in tal mentre invaghitosi di Merope, procurò d’averla in moglie; ma questa chiese dieci anni di tempo, sperando che in tal tempo si scoprisse il vero autore del commesso misfatto o che il figliuolo, già fatto adulto, venisse a prendere il possesso della sua eredità e del suo regno.
    In tale stato di cose passarono i dieci anni. Il re Tideo guardò in Etolia Epitide con tal diligenza che, quantunque Polifonte tentasse più d’una volta, per mezzo d’Anassandro spedito occultamente in Etolia, di farlo perire, non poté mai venirne a capo. Simulando di voler restituire il regno al suo vero erede, più volte fe’ ricercare Tideo che dovesse mandare alla Messenia il suo principe; ma non potendo né meno con quest’arte trarre quel re nelle insidie, gli fece violentemente rapire Argia, sua figliuola amata da Epitide e a lui promessa, a fine di obbligarlo in tal guisa a dargli in mano quel principe; e ciò fu cagione che il re d’Etolia gli mandasse per suo ambasciadore Licisco, amico d’Epitide, e che Epitide entrasse non conosciuto in Messenia, per intendere se Polifonte o Merope fosse colpevole della morte del padre e de’ fratelli. Vi giunse appunto in tempo che la Messenia era gravemente molestata da un mostruoso cinghiale. Spirava inoltre quel giorno prefisso da Merope per far le sue nozze con Polifonte. Il rimanente s’intende dal dramma, il cui vero fine si è che Epitide racquistò la corona, Merope fu conosciuta innocente e Polifonte, per aver ciecamente e per divino giudizio commessa altrui la morte d’Anassandro, quando egli stesso dovea farla eseguire alla sua presenza, perdé la corona e la vita.
    Per maggiore intelligenza si dovrà avvertire che Messene era la capitale del regno, posta alle falde d’un monte, sopra la cui sommità era la fortezza d’Itome, e che non lontano da essa corre il fiume Pamiso.
    La devastazione, fatta dal cinghiale, del regno non dee parere inverisimile, sapendosi che tal fu quello ucciso da Ercole e l’altro, pure ucciso da Meleagro, e che il cavalier Guarini ne ha pur un altro, introdotto con poco diverso fine nel suo incomparabile Pastor fido. Stimerei felice questo mio peraltro imperfettissimo componimento, s’egli non patisse altra opposizione che questa.