Scipione nelle Spagne, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA VII
 
 SCIPIONE con seguito e i detti
 
 SCIPIONE
 Principessa, a’ tuoi lumi
170sì odioso son io che men ti sembra
 grave il morir? Con qual oltraggio un tanto
 dolore io meritai nel tuo periglio?
 Perdona, o Sofonisba;
 se in me temi un nemico, hai cor che è ingiusto.
175Se in me abborri un amante, hai cor che è ingrato.
 Son Scipio; e benché cinto
 di usbergo il sen, benché di allor la chioma,
 sento che posso amarti
 senza oltraggiare o Sofonisba o Roma.
 
180   Se la fiamma del cor mio
 fosse impura e fosse abbietta,
 nel mio sen la estinguerei.
 
    E se il cor fosse restio,
 in mia pena e in tua vendetta
185anche il cor mi strapperei.
 
 SOFONISBA
 Signor, perdita lieve era a’ tuoi fasti
 quella di una infelice.
 Volli morir; ma il mio destin ne incolpa;
 e fra le mie sciagure
190io non conto, o Scipion, l’esser tua schiava.
 Pur vedi a quali estremi
 mi ha ridotto il rigor di un’empia sorte,
 che di fierezza accuso
 sin la pietà di chi mi tolse a morte.
 SCIPIONE
195Ma l’amor mio nol lasci
 senza mercé né senza gloria. Vieni,
 qualunque sii, fra queste braccia, amico.
 LUCEIO
 Gli amici di Scipione (Si ritira indietro)
 sono gli eroi; né di quel sen gli amplessi,
200ove palpita un cor tutto grandezza,
 merta uom di sangue e più di fama oscuro.
 All’opra mia premio non devi. Io tutto
 feci per Sofonisba,
 nulla per te. Lei salva,
205trovo la gloria mia, la mia mercede.
 Chi per te nulla oprò, nulla ti chiede.
 SCIPIONE
 Sensi sì generosi
 non lo additano uom vil. Qual sia, ti è noto,
 il tuo liberator?
 SOFONISBA
                                Guerriero ispano,
210nulla di più.
 LUCEIO
                          Nacqui fra’ boschi. Il mio
 nome è Tersandro; e il primo
 ufficio della destra
 fu romper glebe e maneggiar vincastri.
 Quindi in usbergo e scudo
215cangio marra ed aratro; e di Luceio
 sotto l’insegne a militar mi spinge
 disio di gloria. Il veggo
 cader sul campo e trionfar del nostro
 il destino di Roma.
220Sopravviver mi sembra
 pena e viltà. Volgo a Cartago il piede
 e cerco i tuoi, sol per morir da forte.
 Salvo qui Sofonisba;
 ma la salvo a Luceio. In quel bel core
225vive ancora di lui
 e la parte più cara e la migliore.
 SCIPIONE
 Quel magnanimo ardir che sulle labbra
 ti favella, o Tersandro,
 e quel nobile aspetto, in cui ti ammiro,
230smentisce i tuoi natali o gli condanna.
 Qualunque sii, t’apro il mio core. In prezzo
 della vita servata a Sofonisba
 la nimistà di Roma io ti perdono;
 ti voglio amico e libertà ti dono.
 SOFONISBA
235(Salvo è Luceio e fortunata io sono).
 LUCEIO
 I doni di Scipione
 son grandi, è ver; ma di Tersandro il core
 è di loro maggiore.
 Il perdono tu m’offri e non lo voglio.
240Volerlo è un atto vile
 e viltà mai non cape in petto ispano.
 La libertà mi rendi e non l’apprezzo.
 Non è mai di conforto,
 a chi oppresso è da mali, un mal di meno.
245L’amistà mi offerisci e non l’accetto.
 Ella non è mai frutto
 di volgar prezzo e di sì pochi instanti.
 So qual tu sei; ma sappi
 che di Luceio un suddito leale
250esser non puote amico al suo rivale.
 SCIPIONE
 (Ardir che m’innamora
 sin con l’offese). Orsù, Tersandro, vieni
 meco in Cartago. In testimon ti voglio
 dell’opre mie per meritarti amico.
 LUCEIO
255Seguirò il mio destin, più che i tuoi passi.
 (Così sarò di Sofonisba al fianco).
 SCIPIONE
 Non difficile impresa
 mi fia quel cor, benché nimico e rio;
 la fierezza del tuo più mi spaventa,
260ingiusta Sofonisba.
 SOFONISBA
                                      Odimi, o duce.
 Quando fia che Tersandro
 mi dica: «Ama Scipione, io tel comando»
 il mio cor cesserà d’esserti ingrato.
 Nel suo volere il mio voler rimetto.
 SCIPIONE
265Tu mio giudice il rendi ed io l’accetto.
 SOFONISBA
 
    Mai non dirà quel labbro
 ch’io serva al tuo disio
 e manchi al dover mio
 l’alta mia fede.
 
270   Se mi fia legge e gloria
 dell’idol mio diletto
 l’affetto e la memoria
 egli ben vede.