LEngelberta (Zeno e Pariati), Milano, Ghisolfi, 1708
L’ENGELBERTA | |
Drama per musica da rappresentarsi nel Regio teatro di Milano l’anno 1708, alla presenza della sacra real maestà di Elisabetta Christina, regina di Spagna, eccetera, eccetera, e consagrato alla medema. | |
In Milano, per gli eredi Ghisolfi. | |
Sacra, cattolica maestà, | |
L’Engelberta, che compare in questo teatro nel tempo che la maestà vostra felicita con la sua real presenza e questi sudditi e questa città, sospira il patrocinio della maestà vostra. Io prendo l’animo di umiliarla al real trono e di fregiarla col augustissimo nome della maestà vostra, da cui aspetta ogni suo pregio, intanto che a me si dà l’alto vantaggio di prostrarmi al real piede della sacra, reale maestà vostra, umilissimo, ossequiosissimo e devotissimo servo e suddito. | |
Gioanni Martinazzi | |
Milano, 19 giugno 1708 | |
ARGOMENTO | |
Lodovico II imperadore sposò Engelberta, figlia di un duca di Spoleti e che prima era stata maritata ad un altro principe, di cui aveva una figlia per nome Metilde. Dispiacque a’ grandi dell’impero un matrimonio, creduto troppo diseguale, ma principalmente ad Ernesto, che Lodovico aveva lasciato vicario imperiale nel tempo che si portò a domare li Saraceni, e ad Ottone, capitano delle guardie cesaree; onde come amici ed egualmente interessati a perder quella sfortunata principessa, quegli perché, avendola ricercata amorosamente, n’ebbe un virtuoso rifiuto e questi perché, nella pretensione di certa carica, supponeva d’aver avuta contraria l’imperadrice, machinarono la di lei caduta, accusandola all’imperadore marito, nel suo ritorno, come rea di adulterio. Non contenti di questa trama o temendo che non bastasse a farla perire, impercioché sapevano quanto l’imperadore l’amasse teneramente, trovarono il modo di fargli credere ch’essa pensase di avvelenarlo, con un artificio di Ottone, del quale troppo si fidò la semplice ed innocente Engelberta; siché, commosso dall’orrore di questo secondo delitto, l’imperadore pensò di farla morire, commettendone l’esecuzione a Bonoso, duca di Arles, che si trovava nella corte imperiale ed amava appassionatamente Metilde, ancorché promessa da Engelberta ad Arrigo, principe reale di Norvegia. Nell’atto di eseguire tal colpo, del quale il saggio duca si era caricato per salvar Engelberta, la quale egli si figurava esser innocente, si accertò della calunnia e, sebbene raccontò all’imperadore d’averla uccisa quando infatti non avea, per un giusto gastigo del cielo contro di Ottone, ucciso che il medemo, protestò però altamente ch’Ernesto era calunniatore e produsse con una lettera, a lui consegnata da Engelberta, le chiare prove che veramente esso Ernesto l’aveva falsamente accusata per timore di perdere la propria vita. Ma perché, se bene manifestamente convinto, sosteneva il traditore d’essere innocente, ordinò Lodovico che in un singolare cimento egli sostenesse, conforme l’uso di que’ tempi, la vantata innocenza a fronte del valoroso Bonoso. Comparsi nello steccato ed agitato dall’interne smanie del suo rimorso, l’iniquo Ernesto cadde in un delirio così frenetico che manifestò tutte le trame con sommo dolore dell’imperadore, credendo morta la sua Engelberta, la quale opportunamente era stata già preservata e poi gli fu restituita da Bonoso, riportandone esso in ricompensa le nozze con Metilde e la dichiarazione della ducea d’Arles in regno. L’artificio, con il quale Ottone somministrò alla credula Engelberta un veleno, supponendo alla medesima che quello fosse una bevanda amatoria, da lei ricercata per ricuperar l’amore di Lodovico, di cui era gelosa e dal quale si vedeva freddamente accolta, è un fatto susseguentemente accaduto sotto un altro imperadore e che si fa servire all’intreccio del drama presente, conforme la lodevole libertà di farlo che ne dano gli esempi d’altri autori. | |
SCENE | |
Campagna ingombrata da folti alberi, i quali, abbattuti da una truppa di guastatori, dano luogo alla vista di una città da una parte e di un palazzo delicioso in campagna dall’altra; salone imperiale, in cui sono dipinte le vittorie di cesare. | |
Cortile interno di palazzo suburbano. | |
Giardino contiguo agli appartamenti imperiali. | |
Principio di foltissimo bosco; gabinetto imperiale. | |
Luogo di sepolcri imperiali che tramutandosi figureranno un’imagine de’ Campi Elisi con la loro lucida trasparenza; luogo magnifico a foggia di vasto amfiteatro, nell’alto una continua nuvolosa sempre in giro con dentro diversi orridi mostri che poscia si tramuta nella reggia dell’Innocenza. | |
Le scene sono del signor Ferdinando Galli Bibiena, ingegnere ed architetto di sua altezza serenissima di Parma. | |
ATTORI | |
LODOVICO imperadore | |
ENGELBERTA sua moglie | |
METILDE figlia di Engelberta ma d’altro marito | |
BONOSO duca di Arles | |
ERNESTO vicario imperiale | |
ARRIGO principe di Norveggia | |
OTTONE capitano delle guardie | |
VENERE nel prologo | |
LIDO e DORISBE per gl’intermezzi | |
La musica è del signor Andrea Fiorè, maestro di capella di sua altezza reale di Savoia. | |
Gl’intermezzi sono rappresentati dal signor Antonio Pedrieri, virtuoso del serenissimo principe di Toscana, e dal signor Pietro Paolo Pizzone piacentino. | |
IL RITRATTO DELL’AUGUSTISSIMO CARLO TERZO, MONARCA DELLE SPAGNE, ECCETERA | |
Presentato alla sacra, real, cattolica maestà d’Elisabetta Christina, sua sposa, dal genio dell’Insubria nel presente sonetto. | |
Ecco, Talestri augusta, ecco del vostro | |
Alessandro immortal l’eccelsa imago. | |
Quanto egli sia gentil, quanto sia vago, | |
lo dica i vostro cor, lo dica il nostro. | |
Non può quivi il color, come l’inchiostro, | |
nel fingerne l’idea restar mai pago. | |
A valor, che di palme ognora è vago, | |
ciò che renda men lume alfine è l’ostro. | |
Qui clemenza al poter s’unisce e regna; | |
forman merto e destin scettri e ghirlande; | |
né, per ridervi Amor, Marte si sdegna. | |
Quivi la maestà si chiude e spande; | |
se chiusa in questo lin sembra men degna, | |
accolta in vostra man fassi più grande. | |
PROLOGO | |
VENERE sopra un globbo di nuvole con due amorini | |
Scesa dal terzo cielo | |
son l’amorosa stella, | |
quella che per gl’amanti | |
con benefici rai propizia splende | |
e i più bei cor di più bel foco accende; | |
e scelgo in questo giorno | |
ove regna Christina il mio soggiorno. | |
In quel ciglio maestoso | |
più bel regno ha il dio d’amor. | |
Di sua imago un dolce sguardo | |
fu quell’arco, fu quel dardo | |
che ferì di Carlo il cor. | |
Or voi, più fidi ed innocenti amori, | |
al regio piè volate | |
e le saette ai lumi suoi temprate. | |
Indi movete il volo al soglio ibero, | |
ove l’austriaco sposo ha la sua stanza, | |
gl’induggi a consolar con la speranza. | |
Dite al mar ove passate | |
che silenzio imponga ai venti | |
e tranquilli i flutti e l’onde | |
e prepari ubbidienti | |
a bacciar le prore aurate | |
coi sospir l’aure feconde. | |