vuoi tu, signor, che resti
Giovane è ancor la figlia;
e qual del sesso è l’uso,
perché tu l’abbia a vile.
rischio di chi ’l possiede,
diè natura il suo pregio,
a l’uom senno e fortezza;
Folle! E tu l’esser bella,
No no, son tutti, o padre,
Solo a te stessa, o figlia,
tu non sei nata. Al padre
vedrai ben tosto. Un troppo
egli è un voler che tutta
dare a’ tuoi preghi, almeno
sposa mi vuoi? Si faccia.
Principi, udiste. Un guardo
Può stare arcano in corte?
Qual gittato in gran fiamma
È ver; né ha forza in lei
la tua per l’altrui vita.
sia d’amor, sia di sdegno,
Non più. Cauto gli agguati
disponi e l’armi. In breve
Sol mai non cadde, in cui
di strali armate e d’arco,
Ma donde un tal consiglio?
Ottaro, il cui bel volto (Accennando il ritratto di lui)
che tu con l’inconstanza.
gli affetti a te promessi.
non seguir ch’io ti diedi?
Rimprovero che è giusto. (Ad Iroldo)
Anche lo scherno al torto? (Sta come in disparte pensosa)
a la briglia ed al morso,
E là s’indrizzi il passo.
e l’altre aduna... Ah, quella
negli atti e nel sembiante!
Altro è ’l labbro, altro il core.
Vedi là quel che d’elmo (Mostrando il ritratto di Ottaro, appeso tra gli altri nella galleria)
(Con piacer lo riguarda).
Lo sprezzator di Alinda...
Ottaro che il re Sveco...
grazia, fortezza e gloria,
qual toglie ad aurea vesta
più t’ama e più del regno...
l’arte ha vinta sé stessa.
Stupido il grande osservo...
Vedi gli aurati strali (Prende da un altro un fascio di dardi)
Ma più gloria è de l’alme
Lusinghiero ed audace. (A Romilda)
son le sembianze? O quelle
l’amante e i doni. Ei vada.
e che è più lieve impresa
Ite; il bosco cingete; (Ad una parte delle sue guardie, la quale dipoi se ne va)
che quai piacciono a l’occhio
di gridi, urli e latrati,
fulmineo dente e gli occhi
drizzagli in fronte e ’l ferro,
Ma che? Di sangue asciutto
cimento; e stassi in atto,
Oh! Se a lui spazio alora
fra loro, io ne son certa,
e dal cielo e dal padre».
Donde fu al grave eccesso
qual se stretto in sue braccia
Taci. È vero. In quest’alma,
e, s’or vi assente il core,
dagli occhi e da le labbra.
in cui mi entrò ne l’alma
Signor, ciò che in Iroldo
chiami colpa, è già colpa.
Uom non v’ha più perverso
Questa sia del tuo ardire
(Cor mio, siamo al cimento.
Non, se cento in battaglia
Ei più vegga il suo torto;
più fidi o noi più forti.
Quanto fiera, sei giusta.
Sinché spirto v’ha in uomo,
Volgiti ed a’ tuoi sguardi
Ma se il guardo non regge (Snuda la spada)
Stringilo e fa’ ch’ei perda (Gliela presenta)
(O dio! Qual non più inteso
Stimo al par del tuo merto
la tua virtù. Se il cielo
Più dir non posso. Troppo
e ch’io ti offenda, ingrata.
Risparmia a la mia gloria
Col tuo bel nome in bocca,
Sirita, ecco mi uccido. (In atto di volersi ferire)
sviene. Già cade. O cieli! (Corre a sostenerla e le lascia cadere a’ piedi la spada)
O in fosco orror sepolti,
mi appresti il vicin rio... (Si allontana alquanto e Sirita allora si leva e con prestezza raccoglie di terra la spada caduta)
Qual pro? Stima e pietade
(Vien la serpe a l’incanto).
di sua grandezza, un guardo
del tuo l’esempio e sprezzo...
No no, che a sì gran prezzo
anch’io io tua fede assolvo.
(Cieli!) Ma che far deggio?
di aver volti gli affetti
Tue nozze a lei prometti,
tal fissa e assorta anch’io
esce or sugli occhi e passa
Né questo è ’l primo giorno,
né ’l primo, in cui mi accendi
quanto sostenni. È stanca
Chiusa a la tua speranza,
Vanne e le pompe appresta.
fingi e ’l mio dir seconda.
No no, la tua costanza, (Alzando la voce)
Il mio amor la fa iniqua,
(Si duol de’ miei rigori). (A parte)
Al mio dir non si scuote. (Piano a Romilda)
Qual pietà chi mi uccide?
Tolga il ciel ch’io più voglia
Questo del tuo consiglio (Piano a Romilda)
(Alma, sii più tranquilla. (Da sé)
Fu mio primo e sol voto (Accostandosi a Sirita)
Sì bell’ira sostieni. (Piano ad Ottaro)
Spietata, addio puoi dirmi
Il padre? Io lo sostenni.
È deluso il mio sdegno, (Piano a Romilda)
Di ben, che non mi aspetta,
Lieta oltre l’uso e adorna
qual affanno! Qual morte!
Che non corro a stracciarle
diverranno i miei sdegni;
Ma nol diranno. Al guardo
De la figlia che arrechi!
qual ben per me ne speri?
Sul labbro di un regnante,
che dolce incanto è amore!
Ecco Alinda. Ecco Alinda.
Mira il mio scoglio. (Mostrandogli Sirita)
hai rossor, me ne avveggo,
ma perdono al tuo inganno
non è amor che m’invogli.
Poco resta a la fiamma (A Romilda)
non costanza il lasciarla.
altrui la chieggo invano. (Sta alquanto pensosa)
(Palpita l’alma in seno).
E in sì grave mio affanno
Più a l’ardor non resisto
e meno a gelosia. (Alzando gli occhi s’incontra in quelli di Ottaro che mai non la lasciava di vista e, appressandosele velocemente, le getta di mano la facella)
pensar puoi la mia gioia;
e tanto ella è più grande,
quanto quel ti scegliesti
Terra e cielo n’eccheggia
tal sei che, senza ancora
Ma a te, del gran monarca,