Metrica: interrogazione
1098 endecasillabi (recitativo) in Nitocri Venezia, Pasquali, 1744 
Mercé al vostro valor, tolgasi, o prodi,
Emirena da morte. Il sol vicino
Ah! Dall’orror di così rio delitto
si liberi per noi Menfi e l’Egitto. (S’incammina per salire sopra le scalinate. In questo, tutto ad un tratto resta illuminato il cortile e il palazzo, la cui porta, onde vi si entra al di sopra, apresi d’improvviso e ne scendono dall’una e dall’altra parte le guardie reali, precedute da Micerino, tutti con ferro in mano)
e dell’audace assalitor sugli occhi,
sfavilli omai de’ nostri acciari il lampo. (Scende dalle scalinate col suo seguito, il quale però si ferma appiè delle stesse)
Siam traditi. Al grand’uopo il cor stia forte.
(Cielo, salva Emirena o a me da’ morte). (Appiè della scala s’incontra con Micerino)
Mirteo,.. Che veggio? Dell’egizio regno
tu ornamento e sostegno, il ferro impugni
contra la regal donna? E tu tradisci?...
Io traditor? Regni Nitocri. A lei,
infin che spirto reggerà quest’ossa,
Ma qual altro ti spinge impeto ed ira?
il tuo al mio brando. Un disperato amore
per compagno ti accetta; e purché viva
di sua salvezza e al mio rival l’affido.
Emirena morir? Credi Nitocri
ch’ella impor possa il colpo? Io tollerarlo?
Spesso è fallace popolar credenza.
Priva di libertà, sei lune e sei,
Emirena languì lunge da Menfi.
dissipò sua virtù. Certa è Nitocri
di sua fede e innocenza; e al nuovo sole
vuol che in Tebe ella regni e vuol che sposa...
Sposa? Di chi? Vorrà Nitocri ancora
tiranneggiar gli affetti? A noi rapirla?
il felice destin dell’amor nostro
dal voler di Emirena. Ovunque ei pieghi,
                            Spinto da cieco affetto,
a perdermi io correa. La tua virtute
si fa mio disinganno e mia salute.
Oh! A te potessi esser più grato e il core
                                      Io non dimando
uno sforzo al tuo cor, di cui non sento
capace il mio. Siam generosi amando.
Torno a Nitocri. A lei dirò che sonni
dorma tranquilli, or che Mirteo pur veglia
e del tuo inganno tacerò gli sdegni.
può l’ombra ancora di delitto incerto
far rea la fede e scellerato il merto.
genio conforme in mal oprar. Gli abborro
nemici per dover, rei per costume.
Se il rendo amico, è mia Nitocri e il regno. (Piano a Manete)
Nulla otterrai. Conosco il cor feroce. (Piano a Ratese)
Mirteo, piacciati alfin che ad alma aperta
Sei vicino a ottener la mano e il letto
della bella Emirena. Il nodo illustre
che un sol grado a salir. Ragion ti fanno
con la pubblica gioia anche i miei voti.
Se la vergine eccelsa aure or respira
di libertà, se in sua balia sta il fato
e qual consiglio e qual ci diedi impulso.
della regina irresoluta io vinsi,
omai sperar che tu ’l gradisca e m’ami?
Prence, tanta bontà più mi sorprende,
quanto men la sperai. Sinora avversi
l’un fummo all’altro. Odio, livor, sospetto
regnò ne’ nostri cori. Or come affetti
taccion nel tuo? Da qual rimorso estinti?
Da qual forza abbattuti? Ad imitarti
valor mi manca; e ne ho rossor. Mi rende
la mia viltà de’ tuoi favori indegno;
e ricusando amor, provoco sdegno.
Mirteo, tu opponi orgoglio a gentilezza.
Non è un esser superbo esser sincero.
L’arte del simular mal si conviene
L’usi uom plebeo. Noi conserviam la nostra
dignità fin negli odi; e siam nemici,
senza mostrar vario dall’alma il volto.
Siamlo; ma tu tropp’alto ergendo il volo,
                              Non ha la fiamma, ond’ardo,
di che farmi arrossir nel mio dovere.
Ma senza l’amor mio tu forse avresti
Emirena ti toglie un periglioso
rival. Basta. M’intendi; e sa Nitocri
fra noi pesar con giusta lance il merto.
Tu meco in paragon? Tu ch’altro appoggio
non hai che di fortuna un favor cieco?
Quale è tua stirpe? I titoli? I maggiori?
mi scorre, è regal sangue; e gli avi miei
scettro allora trattar, che a’ tuoi la destra
forse incallia sul rastro o sull’incude.
Ad uom chiaro per sangue e d’opre oscuro
la nobiltà serve di face ardente
onde meglio altri scopra i suoi difetti.
ma non giovano al re, quand’uopo il chiede,
titoli e fasti ma valore e fede.
Manete, udisti a qual eccesso ei porti
l’insolenza e l’orgoglio?
                                            Ai miei consigli
creder dovevi e non esporti all’onta
                                  Erano il luogo e il tempo
poco opportuni. Io frenai l’ire appena.
Ira, che incauta sia, rado è felice.
In mio danno i disegni il fato iniquo.
Fa’ che sien giusti e poi ne accusa il fato.
Giusto non è che sovra un trono io salga
che per legge e per sangue è mio retaggio?
Ove il popolo vuole, il re si onora.
Popolo vile! Il re son io. La morte
Ma dal colpo infelice a te qual frutto?
fra le due dell’estinto inclite suore,
scorgesti i voti, indi in Nitocri unirsi,
maggior di etade; e tu ne fosti escluso.
Ove s’udì donna dar leggi? Al sesso
minor serve il più forte. O infamia! O scorno!
O viltà non più intesa! Io generoso
questa notte volea romper l’indegno
giogo e a natura riparar l’oltraggio.
Chi poi sul ferro ti ritenne il braccio?
Oltre l’uso vid’io di armati ed armi
la reggia ingombra. Osar l’assalto, egli era
manifesta ruina, inutil morte.
Saria tradito il tuo disegno? Io temo...
No, pochi il san, tutti a me fidi; e colpa
non ha di mia sciagura altro che il caso.
                                  Simular. Le fiamme
coperte un giorno più alzeran la vampa.
Perché tanto ostinarti in tuo periglio?
O regno o morte. Il mio destino è questo.
Tu alfin tieni in Egitto i primi onori.
Per essere il primier, son io degli altri
meno suddito e schiavo? O morte o regno.
Ah suocero! Ah signor! Meglio non fora
che di corona a te cingesse il crine
regio imeneo che abbominevol frode?
È ver; l’ingrata amai; forse ancor l’amo;
e dovea la superba averlo a gloria.
Ma che? Femmina amante, ad altro amore
mal porge orecchio e peggio al suo dovere.
il felice rival. Ma s’egli ottiene
di Emirena la destra, eccoti al core
della donna real libero il varco.
Lascia i fieri disegni; i più soavi
posson giovar; nuocer almen non ponno.
Piacemi. Alfin, Manete, amore o forza
il regno o mio compenso o mio trofeo;
prima vittima mia sarà Mirteo.
insana ambizione occupa un’alma,
addio pace, addio onore, addio ragione.
Non fé, non legge, non dover. Le sembra
e dei non crede o suoi li crede, e iniqui.
Da questa furia ecco invasato, ahi quanto!
il misero Ratese. In lui mi è forza
della dolce mia sposa amare il padre.
Ma nell’abisso, ove sen corre, invano
trarmi ei vorria, che l’anima il rifugge.
Così il morto buon re potuto avessi
togliere a morte. Io ravvisai la mano
sol dopo il colpo. Egual destin poc’anzi
Lo seppi e il riparai. L’autor ne tacqui;
né danno fece alla pietà la fede.
Piaccia agli dii che a più crudel dovere
un dì non mi costringa il mio rimorso.
Parlasti, Imofi, ad Emirena ancora?
Che fe’? Che disse? Con qual gioia in volto
ricevé il dono mio? Vuol ella in sposo
Micerino o Mirteo? Per qual di loro,
tanti d’Africa e d’Asia alti monarchi
divenner suo rifiuto? Il ver mi esponi.
Peggior del male mi saria l’inganno;
ed io cerco rimedi e non lusinghe.
Per pietà non saprei tradir la fede
gli eccelsi doni tuoi; ma tal gli accolse
che né più mesta né più lieta apparve.
Sta sempre in guardia alma in sospetto e s’arma
del suo stesso timor. Ma che rispose?
Che per ambo gli offerti incliti duci
ha stima eguale e che Nitocri io preghi
e in libertà di non amar che lei.
di due sudditi miei, di due più cari
lo troncherò. Protervia ed accortezza
poco le gioveran. Son donna anch’io;
e regno e autorità mi fan più scaltra.
                Tanto insistei, tanto usai d’arte
«Suddita io sono. La regina elegga;
e il mio sacrificando al suo riposo,
dal suo volere attenderò lo sposo».
Dal mio? L’arte conosco. Invan l’attende.
tu sai la mia sciagura e il mio rossore,
il dirò pur, non mel consente amore.
Perdona. O mal d’amor gli arcani intendo
o di Emirena il tuo si lagna a torto.
                 Mirteo non ami?
                                                  E che Emirena
quel cor mi usurpi, io n’ho dispetto e pena.
Or ecco in tua balia l’esser felice.
Micerin scegli a lei, l’altro a te serba.
Occhio hai di corta vista. Assai più lunge
Dimmi. Il piacere dell’oggetto amato
studio esser dee di chi ben ama?
                                                             Il dee.
E ciò sfuggir che a lui dia noia?
                                                          È vero.
E far, se cosa gli avvien trista e acerba,
che il suo rival n’abbia la colpa?
                                                           Assento.
Dunque a Mirteo, cui di piacer sol bramo,
perch’io recar sì grave torto e farmi
rea del suo danno con iniqua legge?
Eh! L’escludea Emirena; e in lui l’oltraggio
spegna gli antichi ardori e i nuovi accenda.
per lui; tremi per sé. Fu in me pietoso
tal non sarebbe gelosia di amore.
Fa’ ch’ella il tuo desir sappia e ’l rispetti.
Qual consiglio? Io sì vil? Regina amante,
che da amor custodir non puote il seno,
                                 O dio!... Nol so... Vorrei...
                                    Da chi ubbidisce,
s’interpreti, si adempia e non si attenda.
Si fan guerra i tuoi voti. O quel che piace
                                          Come il poss’io?
Va’. Salva il mio decoro e l’amor mio.
Molto all’amor si è dato. Omai succeda
la regina all’amante. A tanti colpi
d’ira, di amor, di gelosia, di regno,
deve un sol core esser bersaglio e segno.
(Sì per tempo Nitocri a che mi chiede?)
E trovansi, Ratese, alme in Egitto
che senza onor, senza rispetto, tutte
calchin le umane e le divine leggi?
E faccian sì che Menfi omai diventi
orror de’ numi, obbrobrio delle genti?
Quel buon saggio governo, onde ne reggi,
tor dovrebbe alle colpe ogni ardimento.
Bontà le irrita. In chi miglior fu il core
pur trucidato il vide; ed impunito
n’esulta il parricida; e non gli basta.
Regio sangue v’è ancor, v’è ancora il mio,
                             (Ah! Temo esser tradito).
Trofeo già ne sarei; né più questi occhi
veduto avrien del sol nascente i rai,
se il cielo, che de’ re veglia in difesa,
a vassallo fedel la mia salvezza.
diedi opportuni e spaventai la colpa,
onde pena sfuggir, che starsi occulta.
le sta infamia e vendetta; e tu, Ratese...
Ma attonito rassembri e non rispondi.
Sono da orror sì sopraffatto e vinto
ch’uso di senso e di ragion mi è tolto.
Prendi, o fedel. Con questa guida esplora (Lo dà a Ratese)
l’assassin di Amenofi e di Nitocri.
L’un né l’altro conosci. A te ne affido
e la traccia e l’esame. Avrà ministri,
avrà complici al fallo. Un sol non puote
tanto osar da sé stesso; e sparso in molti,
Nulla sfugga al tuo zelo. In simil caso
anche il superfluo è necessario e giusto;
e nella scuola di geloso impero,
sovente dall’error si apprende il vero.
(Respiro). Al grand’onor l’opra risponda.
Ma donde il foglio? E chi lo scrisse?
                                                                  Ei volle
con quel del reo tener suo nome occulto,
perché non so. Che rara è quella fede,
in cui con libertà parli l’amore,
lontano da interesse o da riguardo.
core avesser, qual io, sincero e fido,
solo intesi a piacerti e non distratti
che sì rara ti sembra, in lor vedresti;
                   Basta, o Ratese. Assai dicesti.
Soffrirlo a me convien, finché in più aperto
ardir... Viene Emirena e vien pensosa.
Qui d’esser sola io mi credea. Perdona...
Germana, a che discolpe? In questo amplesso
di quelle, che soffristi, assai men grevi.
Fosti e sei mia regina; e ne’ miei mali
di te non mai, del fier destin mi dolsi.
Di te a torto temei. Co’ benefici
compenserò gli oltraggi; e sol da quelli
conoscerai che tua regina io sono.
Anche tra’ ceppi miei l’onor mi offristi
                               Li ricusasti;
e il rifiuto io stimai che un’arte fosse
o d’altro amore o d’altro reo disegno.
E regno in Tebe e sposo in Menfi avrai.
Micerino e Mirteo sono a tua scelta.
Nel tuo arbitrio sta il mio. Tu quel mi porgi...
Sposo, che si riceva, è mal gradito.
Caro è quel che si elegge. Il mio comando
è alla tua libertà. Risolvi e, s’ombra
ti resta di timor, consigliar puoi
col tuo Imofi fedele i dubbi tuoi.
Venite, illustri amanti. Amor fra entrambi,
se il più degno non può, scelga il più caro.
Emirena lo dee. Piena i miei voti
sul destin vostro autorità le danno.
Non è così? (Verso Emirena)
                        Tua bontà giunse a tanto.
che dolermi con l’un, perché negletto,
e con l’altro goder, perché contento.
Ma tua guida sia Imofi. Io tel rammento. (Piano ad Emirena)
                                 Amabile Emirena.
Già sei felice. Ecco i tuoi ceppi a terra.
Eccoti in libertà. Tebe è tuo regno.
Per te in giubilo è Menfi.
                                               E noi fra tanti
siamo i soli infelici. Or tu consola...
Deh! Se mi amate, rattenete, o duci,
custodito con merto; e non vogliate,
più di quello ch’io sia, misera farmi.
E qual novo t’ingombra atro sospetto?
Temo la sorte iniqua e i doni suoi.
Frutto di lunghi affanni è diffidenza.
Nessun sa l’altrui mal più di chi ’l soffre.
Di’ che ai re aggiunger vuoi, da te negletti,
novo trofeo, due sfortunati amanti.
Io disprezzai d’Africa e d’Asia i regni,
perché lo sa quest’alma.
                                             A che tacerlo?
Giusto non fora, per dar vita all’uno,
di ferita mortal trafigger l’altro.
Alla nostra amistà non nuoce amore.
Deh! Ti muova pietade. Egro, che langue
tra la vita e la morte, è in pena estrema.
Crudei! Voi lo volete; astretta io sono.
Viene Imofi. Con lui, pria ch’io risolva,
Penoso indugio! (Si ritira da una parte)
                                 Oh! Se in te fosse amore,
or non avresti irresoluto il core. (Si ritira dall’altra)
Qual de’ due fidi amanti il lieto addio
Reggami tuo consiglio. Il vuol Nitocri.
di più asconder gli affetti alla mia fede.
Imofi, e che? Mi crederesti amante?
Gli affetti ho in libertà. La mia regina
sposa mi brama a Micerino? Il sono.
A nessun? Siasi. Indifferente ho l’alma.
Ma dal facile ossequio a te qual danno?
Eleggi amando e non amando eleggi.
Facciasi, a lei ritorna e dille... O dio!
conosci il cor. Forse amor v’arde. Io forse
e nulla più dal mio dovere attenda.
(Arte pugna con arte). Orsù, Emirena,
il nodo io scioglierò. Parto e in tuo sposo
                                  Chi?
                                              Micerino.
                        Ti turbi?
                                           E non potresti?...
            Di Mirteo?...
                                      Per lui ti punge amore?
No, ma giusta pietà del suo dolore.
Duol d’amante è duol breve. A lui compenso
non mancherà. Tu indifferente hai l’alma.
Tal ti giova e la serba. A Micerino
sposa sarai. Te ne consiglio anch’io.
Piaceranno a Nitocri i voti tuoi.
                                O dio! Fa’ ciò che vuoi. (Imofi si parte frettoloso)
Fa’ ciò che vuoi? Tu lo dicesti? E dirlo,
Emirena, potesti? E un punto istesso
Ma che far io dovea? Rival possente,
per alzarti al suo trono, a me t’invola.
a pianger rimarrò, col sol conforto,
che a costo del mio ben lieto tu sia.
Del lieto avviso, onde i languenti amori
ravvivò nel mio seno il fido Imofi,
dal tuo labbro a cercar vengo, o mia cara,
un miglior testimon. Mio del tuo nodo
sarà l’onor? La sorte? Il godimento?
Va’. Ti basti così. Sarai mio sposo.
Il dolor di Mirteo forse ti accora?
                                Io n’ho pietade ancora.
partir vidi il rival. Dimmi, Emirena,
Di tante doglie e tante furie e tante,
che si affollano al cor, barbare ambasce,
da qual comincerai, Mirteo tradito?
Ah! Che voi siete quale in colmo vaso
racchiuso umor, cui fuor del collo angusto
via si cerchi, e non l’ha, che vi ringorga.
Indietro, tutte, e solo aprasi il varco
Chi l’oggetto ne fia? Mancan nimici,
ove tutto cospira in mia ruina?
V’è il felice rival... Taci; egli è amico.
V’è l’amante infedel... No, che l’adoro.
V’è l’ingiusta Nitocri... È mia regina.
Amicizia, dovere, amor son tutti
nomi sacri per me. Torna, o furore,
Fallo a brani, lo lacera, il conquidi;
amor di morte ed odio di me stesso.
se delitto dir puoi colpa felice,
eccomi giunto a giudicare in altri
e, ciò che è più, nel mio nimico istesso.
Io trafissi Amenofi. Oggi ne paghi
Mirteo le pene e la sua tronca testa.
Ei la reggia assalì. Questo è il suo fallo.
E del vero convinto e suo misfatto,
fatto è reo del non suo. Muover fra l’ombre
alla reggia dovea nimici assalti
l’uccisor di Amenofi. Ove un si scorga,
l’altro è palese. Il foglio parla. Io siedo
Trovo ragion di colpa e la punisco.
Debolezza di un cor sono i rimorsi.
                                           Me volle estinto.
vien dalla sua perfidia; e col suo braccio
(Nuove per me punture e nuove angosce).
raccolti e chiusi. Ei la pietà di pochi
Così il regio favor serve di spinta
Tu sai quanto a Nitocri egli sia caro.
Sì, ma d’esser amante ella ha rossore;
in popol fiero, a rispettarle avvezzo. (Entra nel portico destro, ad incontrar la regina)
Pace, o spirti agitati. Avanti il tempo
affliggersi sconvien. La mia regina
Pago è l’onore; è soddisfatto il zelo;
e di Mirteo, colpevole o innocente,
prendasi amor, prendasi cura il cielo.
Nel tuo nimico alfin, regina, abbiamo
Vi son complici e prove; e pria che scenda
sul collo all’empio il punitore acciaro,
con sacro inviolabil giuramento,
le difese obbligar, tolto a te stessa
l’arbitrio del perdono. Ove si debba
il sangue vendicar di un re trafitto,
regnan le leggi e la pietà è delitto.
che a questa tomba, monumento illustre
dell’amor mio, mesta ti aggiri intorno
e da vendetta il tuo riposo attendi,
sul tronco busto. Alla sentenza il voto
giuro sovra il mio capo; e s’io spergiura
fiedan le corna, in me del fiero Anubi
latrino l’ire, in me d’Iside gli aspi
versino il tosco e, invan pregato, il Nilo
da’ patrii campi si ritiri e fugga
e fame ne divori, ardor ne strugga.
stanno satrapi e duci, il giuramento
                                           Andiam, Ratese.
Si affretti al traditor supplizio e morte. (Parte Nitocri, seguita dagli altri, ed entra nel portico sinistro)
Del dolente Mirteo fuggo la vista. (Volendo partire, Emirena vien fermata da Mirteo)
Fermati e non fuggir da un infelice
(Oimè!) Parti, o Mirteo...
                                                No. Di Emirena
parlo al cor, non al grado. Io vo’ saperlo.
Qual demerito avean gli affetti miei?
Amavi Micerin? Non te ne accuso.
Ma perché simularlo? A che di vane
speranze lusingarmi? A che di sguardi
che al mio rival tremar faceano il core?
Mirteo, di noi così dispose amore.
Ubbidir ne convien. Dir più non posso.
Intendo. Ubbidirò. Non ti dia tema
che i tuoi lieti imenei venga a turbarti
Il mio duolo, quant’è, non ha, non vuole
                   Crudele!
                                      In te quel bene,
esser sol mi potea, tutto perdei.
Morte, morte dia fine a’ mali miei.
D’altri sarò. Diedi la fede. Il dissi;
e all’ara infausta porterò tremante
la destra, sposa sì ma non amante.
                     Il ciel lo vede. Eri tu solo
mio dolce oggetto. Io mi facea in amarti
                             Spergiura.
                                                   Oh! Di me stessa
fosse stato in poter! Mio già saresti.
Tua sorte e mio dover. T’ama Nitocri.
Miseri noi, se al suo geloso amore
vicendevole amor qualche scintilla!
Tacqui. M’infinsi. Ogn’arte oprai. Non valse.
Vinse la dura legge. A quel destino,
sacrificar fu forza il mio riposo.
Per troppo amarti io ti tradii. Mirteo,
di accuse o pianti la miseria mia.
Vedrai da me come in amar si vinca.
E se in te fosse stato amor verace,
tu mia saresti, altri sarebbe in lutto.
O viver per chi s’ama o perder tutto.
Mirteo, vien la regina e di te chiede.
Emirena, qual pianto? Ella nol vegga.
Pietà lo sparge a sfortunato amante.
Tu di amico fedel gli uffici adempi
e fa’ ch’ei segua del suo fato il corso.
Chi ’l crederebbe? Io, ch’esser lieto appieno
Invidia non fu mai per gl’infelici.
Emirena è tuo acquisto, angoscia il mio.
E di Emirena a me la man che giova,
                                               Il credo al fiero
duol che l’ingombra; il credo al labbro, agli occhi.
Nulla in essa vegg’io di sposa amante;
e per te tutto leggo in quel sembiante.
Ma presto ella verrà tua sposa all’ara.
Qual vittima... Si taccia. Ecco Nitocri.
Si allontani ciascun. Mirteo mi attenda. (Micerino e gli altri si ritirano)
(Nitocri è mia regina. Anche fra l’ire,
ossequio mio, non obbliar te stesso).
Mirteo, so la tua pena e n’ho pietade.
per cui tanto soffristi e tanto oprasti,
e forse anche più degno e più sublime,
alfin ben meritava altra mercede.
Emirena fu ingiusta. Un comun vizio
e far torto al miglior. Ma un ben perduto
spesso è di grado a un maggior bene. Io t’offro
compenso al danno. Ove il desire in altri
tu a sperarlo hai ragion, merto a ottenerlo.
Tua bontà mi ritrova, o regal donna,
I tuoi doni altrui serba; in me li perdi,
qual verde innesto in nudo arido tronco.
cui torrente allagò, s’altro non rende
n’è rea la torbid’onda. Il fier dolore,
toglie luogo a conforto, il toglie a speme.
Piaga, che stilli ancor, fa troppo senso.
farà il tempo, o Mirteo. Sue forze perde
l’onda che allaga e il buon terren rinverde.
qual fiero colpo? È noto il delinquente.
                Nel tuo più caro e l’hai presente.
                                           E in lui conosci
                                            O dei! Mirteo?...
Nera calunnia in me quai trame ordisce?
Sì. Da furia egli spinto a te nemica,
Se il può, lo neghi; e Micerino il dica.
che error rassembra, error non è.
                                                              Dell’opra
non la ragion, l’opra e l’autor ricerco.
Sì. Venni armato, è vero...
                                                 Or che più chiedi?
Eccoti di Amenofi il traditore.
Mio giudice Ratese e i miei nemici?
Regina, a te mi appello, a te rivolto...
Un empio fratricida io non ascolto.
Del ferro iniquo ei si disarmi. Imofi,
                                          Anche l’oltraggio
Ma comanda Nitocri. Eccoti un ferro
fu del regno la speme e la salvezza.
(O vicende!) (Prendendo la spada dalle mani di Mirteo)
                           (O rimorsi!) (Si parte)
                                                    (Il cor si spezza).
Regina, io parlo ancora alla tua gloria.
Un folle orgoglio, un odio furibondo..,
A un fellon traditore io non rispondo.
Venga a’ giudici suoi; ne udrà la legge.
                                 Regina, a troppo
spesso succede e pentimento e danno.
Micerino, abbastanza il tuo silenzio
fu contumace in pro del reo.
                                                     Se cosa
trovata avessi in suo disegno iniqua,
avea zelo, avea braccio, onde punirlo.
Chi protegge i malvaggi, è tal con loro.
L’amistà non perverte in me il dovere,
come in altri il livor. Tu, lo san tutti,
Il son de’ traditori e tuo, se gli ami.
Non più. Vanne. Si affretti la sentenza. (In atto di partire)
Ma non pria che la segni il mio consenso.
Togliesti a te l’arbitrio del perdono.
Regnan le leggi; ma regina io sono. (Nitocri e Ratese sen vanno da varie parti)
Altro scampo non resta all’infelice
difenderlo in quel cor da un’empia accusa?
Innocente è l’amico e par fellone;
non basta a preservar fama e innocenza.
recò discolpe? Sua ragion sostenne?
Non guardò. Non rispose. Udì sua morte
senza furor, senza spavento; e in alta
voce allor protestò che di Mirteo
Dirlo e uscir fu un sol punto. In sua prigione
stassi or tranquillo e te di sua innocenza
e te di sua perfidia arbitra implora.
Me un fratricida? Ei non mi vegga e mora.
Al pubblico giudizio egli il sostenga.
Tu siedi alla custodia delle leggi.
E con le leggi mie giudican gli altri.
Forse in quegli v’ha inganno. Egli a te vuole..,
Imofi, ah! che il mio sdegno a quell’iniquo
sembra un facil trofeo. Sa qual potere
tenne in quest’alma e se ne affida ancora.
Perfido! Io l’odio. Ei non mi vegga e mora.
Col decreto fatal viene, o regina,
Nitocri il segnerà. Vendicar deggio
Parlan troppo per lui l’ombre e gli assalti
e il mio periglio e di Amenofi il sangue.
Son sue accuse finor; non son sue colpe.
Me con l’armi assalir fu zelo e fede?
Tutt’altro che perfidia. Anche quell’ire
in tua gloria servian, non in tua offesa.
Oscuro favellar cresce i sospetti.
Mirteo l’ombre dilegui. Almen si ascolti.
Sì, che ti nuoce udirlo? Hai forse tema
(Cor di regina, a vacillar cominci).
che il presente destin. Nel suo gran lume,
Un fratricida? Ei non mi vegga e mora. (Mostra di partire e poi si ferma in lontano ad ascoltar Micerino)
Sfortunato Mirteo! Giusta per tutti,
per te solo è crudel la tua regina.
Abbandonarti a vil supplizio è il frutto
Qual esempio alla fede? Un cieco foglio,
un indizio fallace, un odio atroce
tanti merti cancella. Ah! Per soffrirlo
O dio! Venga l’iniquo a’ piedi miei.
Opportuno fu il cenno. Ecco Ratese. (Si parte)
Nemico di Mirteo, morte gli affretta.
Ecco, o donna real, degna d’impero, (Tiene in mano il decreto)
che mai sortisse, a gran terror degli empi,
da quelle leggi, a cui sei mente e braccio.
la dignità del reo, l’onor del regno,
la gloria tua tanto esigean dal nostro
zelo e dover. Complici, accuse e prove
si confrontar. Nulla di oscuro o incerto
restò. Tratto al giudizio, il reo si tacque
e col silenzio confessò i misfatti.
dolenti il condannar. Questo è il decreto.
Tu il soscrivi, o regina. Io qui l’attendo.
La plebe impaziente oggi confida
cader quel traditor, quel parricida. (Lo dà alla regina)
Lodo il zelo, o Ratese, e lodo l’opra.
Ben le parti adempiste a voi commesse.
A me restan le mie. Vattene. In breve
saprai del voler mio l’ultima legge. (La quale lo depone sul tavolino)
è una grazia alla colpa. Il fratricida
una breve pietà. Scrivi. Il tuo regno
da te quest’atto di giustizia attende.
nella traccia del ver. Quel che si dona
                                             Saggia ragiona.
Ei colpevol si niega e a me si appella.
Chi colpevol fia mai, se negar basti?
E se basti accusar, chi fia innocente?
                         Sì, che giustizia il guardo
Difese avea? Perché tacerle a noi?
il giudice è sospetto, ella ammutisce.
delle leggi i migliori e in lor riposa.
Ma se giungono a lui strida e querele,
scuotasi, orecchio porga, annulli, approvi;
e a norma di equità, sia re di tutti.
                     E vo’ punir ma il delinquente.
L’arbitrio del perdono a te togliesti.
Troppo zelo è furor. Chi in te lo accende?
E chi por meta al mio poter pretende?
Vanne. So il mio dover. Mirteo si ascolti.
ciò che il popol dirà? Ch’ei si lusinga
di sedurti a pietà, che il suo buon genio
più dirà ancor. Che non han freno o legge
le pubbliche censure. Il tuo buon nome
fu sprone al zelo e non furor. Ratese
sol non fu a giudicar; né a me s’aspetta
dell’estinto Amenofi il far vendetta.
Il seggio a me. (Ad una delle sue guardie)
                              Con le sue furie ei parta. (Entra Mirteo e Micerino gli va incontro)
Vieni, o Mirteo. Confondi i tuoi nemici.
Difendi la tua vita e la tua fama. (Si avanza verso Nitocri, la quale, postasi a sedere, non mai lo riguarda)
fosse stato in pensier solo assalirmi
in quella parte, che è caduca e frale,
sì misero è lo stato, in cui mi trovo,
che a mio gran bene ascriverei la morte.
nella vita miglior, che è la mia gloria,
son costretto a cercar riparo all’onta
un sì indegno trionfo al lor furore.
Due mi si oppongon gravi orridi eccessi,
L’un con l’altro sostiensi. Io l’un con l’altro
distruggerò. Me tua giustizia ascolti.
A lei parlo, o regina; a lei, che tutta
fa la felicità del tuo gran regno,
fido la mia speranza e il mio sostegno.
(Oh! Fosser l’opre al dir conformi!)
                                                                 Ucciso
fu in Menfi e nel suo letto il tuo germano.
Chi lui tra l’ombre di sua mano uccise,
te poc’anzi dovea, lo accusa il foglio,
assalir nella reggia. Altri non venne.
                                          E fosti l’empio.
Qual potea uscir da questa destra il colpo,
me allor lontano e di Cirene e Barce
inteso a debellar l’armi ribelle?
Quella del vasto Egitto ultima parte
forse a Menfi confina? O lasciai forse
Io seco era nel campo; e render posso
ragione alla sua fede e a’ suoi trionfi.
Al fianco del buon re, fra’ suoi più cari,
stavasi il suo omicida. A me sul trono
non dà un regio natal dritti o pretesti.
                                    Siimi più giusta.
L’infelice amor mio, dimmi, qual fece
ingiuria alla mia fede? A te dal campo
volai, morto Amenofi; e l’armi avverse,
io combattei, vinsi, dispersi. Tanto
fu del mio amore il mio dover più forte.
Ma poc’anzi ti armasti, empio, in mia morte. (Volgendosi verso lui)
In tua morte? Or si parli. Un falso grido,
Emirena a cader sotto una scure,
sveglia furie in Mirteo. S’arma in difesa
dell’amor suo. Tenta notturni assalti.
Io gli mostro il suo error. Cadongli tosto
l’ire dal cor, l’armi dal braccio...
                                                           Iniquo! (Verso Mirteo)
Se il grido non mentia, svenato avresti
di Emirena all’amor la tua regina?
Poi recando al tuo piè l’umil vassallo
chiesta pena ti avria di un sì bel fallo.
che su questo dettò foglio perverso
rabbia e livor. Tu in mia condanna omai
v’imprimi il regal nome. All’onor diedi,
e non al viver mio, le mie difese.
la cagion, non la pena. Io morir voglio. (Nitocri levasi d’improvviso dalla sua seggia e, strappando di mano a Mirteo la sentenza, la fa in più pezzi)
Non più, lacero vada un sì reo foglio.
Vivrai, caro Mirteo. Veggo il mio torto.
Ne ho rossor. Da me avrai...
                                                    Nulla, o regina,
nulla più che il morir. Mi è stato tolto
quanto avea di più caro, ogni mia spene,
ogni mia ricompensa, ogni mio bene.
Fellone al trono tuo morir non volli;
e misero al mio mal viver non voglio.
Che se pur ti dorrà, quando quest’alma
dal suo carcer mortal faccia partita,
più ti dorria, s’io rimanessi in vita.
Pietà mi stringe il core. Io lo compiango.
L’altrui perfidia è vinta. Io regno; io posso
da far tremar sino all’invidia il guardo.
Il suo più fier nimico è la sua pena.
Questa ancor vincerò. Sia tua Emirena.
Qui dolor, qui timor guida i miei passi.
                                          Io mai non feci
oltraggio a sua virtù col dubitarne.
pronte stan le discolpe. Egli è protetto...
                                        E di Emirena.
Fanno il suo gran periglio i suoi nimici.
Freme Ratese, il popol corre e grida
e si affolla e minaccia e vuol sua morte.
Diasi pace il tuo duol. Vivrà il tuo amante.
Sposo ma non di amor, sposo di nome,
mi ti diede, lo so, forza e timore.
Nol nego. A lor piacer corser gli affetti
sinora in libertà. Ma non sì tosto
del talamo arderan le caste faci
che di un sacro dover mi farò legge.
Estinguerò le fiamme anche innocenti.
a perder in Mirteo tutto il mio bene,
crescer per nuovi colpi il dolor mio;
ne’ perigli di lui più acerbo e rio!
Signor, dove ti trae l’alma feroce?
A regnar, o Manete, o a vendicarmi.
Menfi in tumulto, all’ombra di Amenofi
grida estinto Mirteo. Freme per onta
e il giudizio sostien. La reggia è cinta
e al fier nimico mio chiuso ogni scampo.
Sinché vuoi la sua morte, abbian tuoi sdegni,
col difender Mirteo, sé stessa offende.
Tal lo finge il suo amor. S’altra in lui colpa
non fosse, ha quella del tentato assalto
l’han condannato e si fa ingiuria a tutti
con assolver un solo. Or tu, se tanto
vil pietà per colei t’occupa e stringe,
vanne, dille il suo rischio; e non si ostini
Io darle il reo consiglio? A lei tu stesso...
No. La vegga Ratese, allor che possa
e l’ire affreno; e s’ella ancor si abusa
di questo di pietade atto e d’amore,
riposo armi più forti il mio furore.
o rende o fa parer quel che si tiene
commercio con gl’iniqui! In qual son posto
voragine ed abisso! E non ritrovo
via, che sia onesta o non gravosa, a uscirne.
dopo tant’altri, a me sen viene il degno
                                   Ah! Mia regina,
scorgimi il core in volto. Il popol chiede
Da Nitocri difesa, invan la chiede.
tumulto popolar. Salva te stessa.
far mi può scellerata. Io qui le veci
sostengo degli dii. Finché sul trono
sta giustizia con me, regina io sono.
permetter o soffrir la rea condanna,
di regina, qual son, mi fo tiranna.
È questo il mio voler. Tu lo riporta
al mio popolo ingrato e al tuo Ratese,
dietro il cui piè tu ti smarrisci e perdi.
Misero son più che non pensi. Oh! Fede
si porgesse al mio dir! Tu più quiete
ne avresti, altri men colpa, io men rimorso.
Indole retta era in Manete un tempo.
che di sangue e di amor lo strinse a un empio.
Ma ti sovvenga. Altro dover più forte
tutto al pubblico ben. La legge è questa
di natura più sacra e la più onesta.
vieni al mio cor, vieni a Mirteo. Difeso
In dubbi affetti anche quest’alma ondeggia.
Spaventa la pietà. Nuoce la forza.
                            Costante ad ogni evento,
                                   S’io l’assolvei, chi diede
l’iniqua legge? E in onta mia?
                                                        Sua fede.
ricusò libertà. Tornò a’ suoi ceppi
Pietà crudel che a me fa torto e i mali
al misero non toglie. In tal naufragio...
la virtù di Mirteo. Leggi, o regina.
Dai mio carcer, regina, odo le strida,
Corre la immensa turba e preme e grida
e vuol mia morte e peggio anche minaccia».
Empi! Il difenderò dall’odio vostro
con quanto ha di poter la mia corona.
tuo vassallo fedel pon nulla i preghi,
lasciami al mio destin. Troppo ascoltasti
una pietà che mi spaventa. All’odio
e tu, cara agli dii, serbati al regno
e serbati, se lice, al mio riposo».
«Mancava al morir mio la gloria e il pregio
di morire in tuo pro. Questo gran bene
Morendo salverò la mia regina.
La tua bontà non me ne invidi e privi.
Mirteo mora per te. Tu regna e vivi».
Oh! Non fosser sì rare alme sì fide!
Ed io lo perderò? Dite. A Nitocri
consigliar voi potreste atto sì vile?
                              Il mio dover...
                                                          V’intendo.
Tutti uniti in mio mal. Per l’infelice
                                           Val molto, è vero,
la vita di Mirteo; la tua val tutto.
                                    Come salvarlo?
apriragli lo scampo. Ei qui si guidi
(Cieco è l’amore). Ubbidirò.
                                                     Custodi
stien sempre al fianco suo. Temo Ratese
ma assai più la virtù di quel gran core;
                                           Intesi e parto. (Si parte)
sé stesso, utile al regno e caro a noi.
All’armato livor non ceda il fiero
Per me non tema. Gli animi feroci
Il campo troverà fido al suo cenno.
Poi lo veggano in Menfi i suoi nimici
tornare a loro scorno, a lor terrore;
e allor saprà ciò che far voglia amore.
                               In tua grandezza e gloria.
Necessaria a Nitocri è la mia morte,
Ella in te conservar vuol la più cara
Come? Al palco letal non mi fan guida
Se il vuoi, faranla al trono. Uscir di Menfi
con lor dovrai pel sotterraneo calle
che l’amante regina apre in tuo scampo.
Qual amor? Qual pietà? Fuggir Mirteo?
E da morte fuggir, quando può averne
riposo e lode? E per viltà cangiarla
in una vita di miseria e d’onta?
Fa spavento a Nitocri il tuo destino.
Soffrirlo è minor mal che meritarlo.
Temo che al tuo cader la uccida il duolo.
Il popolo in furor più è da temersi.
Riporrallo in dover grado e rispetto.
Dover contra perfidia è debol freno.
Saranno al regal fianco i suoi più fidi...
E Mirteo fuggirebbe. Ah! Micerino,
siimi amico miglior. Piaccion gli onesti,
non gli utili consigli, a vero amore.
Me ne applaude il tuo core; e s’io ricuso
di espor la mia regina e fuggir morte,
un’eguale fermezza in egual sorte.
Mirteo corre a perir. Preghi, consigli
non ode. Invan l’amico, invan Nitocri,
nulla il puote arrestar. Tu, primo oggetto
vincalo il tuo bel pianto. Oh! Più potessi!
qui mi trasse, o Mirteo. Cred’ella, e un tempo
anch’io il credei, che su quel cor ritenga
qualche poter la misera Emirena.
pietà. Prego per lei, sommersa in pianto.
e il merito han perduto i pianti miei.
la tua, la mia regina. A lei mia morte
util sarà. La vendichi; la soffra;
e di qualche sua lagrima la onori.
Tanto non chieggo a te. Tu prima in seno
m’hai spinto il mortal colpo. Era vicino
Ma grazie a’ miei nimici, or suo mi vuole
Chiuderò i giorni miei con più virtude;
e fedele a Nitocri e ad Emirena,
finirò la mia vita e la mia pena.
Vanne, o crudel; ma non ti segua almeno
pria tua vendetta adempi; o se pur vuoi
al mio fiero martir lasciarmi in preda,
vattene. A’ regni dell’eterna notte
verrò in breve a seguirti, ombra dolente.
E verresti più ingiusta e più nocente.
Addio, Emirena. Al mio fedele amico,
tutti rivolgi. Amami in lui. Sol questa
l’oltraggiata mia fede. Addio, Emirena.
Da un’ingiusta pietà salviam la nostra
virtude. Addio. Guidatemi a Ratese.
Quei che seguon tuoi passi hanno il comando
di trarti in libertà, di custodirti
da’ tuoi nimici e da te stesso ancora,
                                   Barbare stelle!
Traetemi a Nitocri. A me vuol torsi
perché duri il mio mal, fino la morte. (Si parte con le guardie)
                                      No, principessa,
non disperarti. In sua salute armato
sta l’amor di Nitocri. Ella il difende.
E un raggio di speranza in me si accende.
di virtù con amor. Ma chi la gloria,
chi alfine avrà della fatal vittoria?
ti assicura, o signor, la regal fede.
E senza lei di che temer Ratese?
Il popolo è per me. Poche difese
rimangono alla reggia; e de’ custodi,
altri è vinto dall’oro, altri atterrito
                      Ah! Lungi stien l’ire perverse.
Or l’altera e mi tema e mi gradisca.
Ti gradirà, se generoso alfine
darai vita a Mirteo, calma all’Egitto.
Pusillanimo cor, sì indegni sensi
scaccia. Voglio vendetta e voglio regno.
                    Oh quanto m’hai stordito e stanco!
Vedimi a’ piedi tuoi. Tu in farmi sposo (S’inginocchia)
me qual figlio abbracciasti; io te qual padre
a perderti. Io lo so. Stan le ruine
dove sogni grandezze. Il ciel, che è giusto,
ti ha sofferto all’emenda o riserbato,
io farò ciò che deggio. E tu lontano
Del mio amor, del mio sangue indegno sei.
Piansi. Pregai. Vuoi tu perir? Perisci. (Levandosi)
(A qual dover son io costretto, o dei?)
sa l’opre e le condanna, ha una gran colpa.
Prevenirò chi può tradirmi un giorno.
Non conosco altro amor che l’util mio;
e la pietà, che nuocer puote, è iniqua.
Serbin modo e decoro i regi affetti. (Piano a Nitocri)
dato avessi al mio dir, meno al tuo core,
di queste mura, mal difese, i fieri
mia bontà che il rattenne, e ferro e foco
corse avria queste soglie. Or che far posso?
Sdegna indugi la turba. A lei per poco
ne vorrà mille; e sì potria del sangue
crescer la sete... Ah! Dir non l’oso. Lungi
la dannosa pietà. Già condannato,
al carnefice suo diasi Mirteo,
dal tuo periglio ancor fatto più reo.
Chi mosso e chi sospeso abbia il tumulto,
or di cercar non è, Ratese, il tempo.
Mi si minaccia; mi s’insulta; e imporre
mi si vuol legge, ond’io consenta a un atto
eterna del mio nome e del mio grado.
Nol farò mai. Vivrà Mirteo. Se ingiusto,
a chi lo condannò, sembra il mio voto,
si pesi il mio giudizio e qual si trovi,
retto si lodi, iniquo si riprovi.
(O di bontade e di giustizia esempio!)
Regina, arte non giova. In mar fremente
gitta le care merci il buon nocchiero
e salva il legno. Di Mirteo la testa
                                  Di pugno al mio
popolo le trarrà fede e rispetto.
per l’estinto suo re; ma quando ei sappia
Egli or ne sa l’accusa e la sentenza...
Sol dall’odio dettata e dal livore...
Ma che giusta saria, senza il tuo amore.
Lascia alfine un amor, per cui ti perdi.
Mal lo impiegasti in chi nol cura ingrato,
in chi vile nol merta. I miei natali...
Non più. Ringrazia la già data fede,
se impunito or n’andrai. Vattene e sappi
che distinguer Mirteo so da Ratese
con tutto il vanto de’ natali tui,
da te a Mirteo che da Nitocri a lui.
sarà per me l’ultimo tuo comando;
e sarà il vile tuo svenato amante
Venga alla scure; o ferro e foco aspetta.
Lodo la sofferenza. Il vendicarsi
e in tuo periglio esacerbar gli sdegni.
l’ostinato Mirteo mi fa più tema.
E ne temi a ragion. Doglia e furore
spirano gli atti suoi, spiran suoi detti.
                           Per me, Emirena? Eh! Ch’egli
del suo perduto amor. Per te vuol morte.
Ma tu l’amavi ancor. Dillo.
                                                  Ah! Regina...
Basta così. La mia rival conosco.
Che più darti potea l’ossequio mio? (Nitocri sta pensosa)
Altri è mio sposo; e misera son io.
a me con Micerin, tu con Mirteo. (Ad Imofi)
sovra di te. Tu mi facesti ingiusta.
Tu mi fai vile. Usi sua possa amore;
voglio punirti; ubbidir devi, o core.
Ardua è l’impresa, il sento. Esser convienmi
a me stessa crudel. Ma non importa.
Virtù, gloria, ragion, delle grand’alme
sostenete i miei sforzi; e di sì fiera
lutta fatemi uscir, benché infelice,
di me stessa regina e vincitrice.
                                                      A me fa d’uopo,
Tutto può il tuo gran cor, tutto il mio zelo.
                                              La sua potessi
                                          Ah! Quando s’ama,
altro v’ha della vita a noi più caro.
                                           O generoso!
L’accetto; e già m’insegni ad esser forte.
(Ei vien... Ti sento, amor... Tu prendi orgoglio...
Nulla farai... La mia vittoria io voglio).
E sino a quando la pietade istessa
Siam qui tutti, o Mirteo, per tua salute.
La mia salute è il disperarla.
                                                     Al regno
vivi, alla tua regina, alla tua gloria.
Alla gloria, alla patria, a te, regina,
già vissi assai; ma in fuggir morte onesta,
tutte vi tradirei. Voglio anche questa.
                               Anima invitta!
tuo disio la cagion. Vivi e ti segua
(o dio!) colei ti segua, onde cotanto
disperi. Ecco Emirena. Ella n’è lieta.
Micerin te la cede; e da me stessa
(e il potrò dir?) sì, da me accetta in dono
Vanne in Tebe a regnar. Gradisci i miei...
degli uomini il più perfido e il più vile.
                                     In questo odio di vita,
l’amante or non cercar; cerca il vassallo.
Ognuno ha il suo dover. Nasce il re a tutti
chieggalo il comun bene, il re si esponga.
Ma se può riparar danno e ruina
con la vita di un sol, lasci dell’opra
il merito alla fede e alla costanza.
Tu perdi con quel cor scherma e speranza.
Che più si bada? All’alto della reggia
o la ruina si minaccia o il foco.
Meglio chiuder non posso il viver mio. (S’incammina a gran passi verso la porta della sala)
Lasciami al mio dovere o qui mi sveno.
Moriam da generosi o spaventiamo (Facendo lo stesso)
con la nostra virtù perfidia e rabbia.
                                         Andiam. Precedo.
Disperato consiglio! Incontro a tanti,
alla vostra regina; e tu, regina,
vivi alla mia vendetta; infausta sia
a’ tuoi nimici e miei la morte mia.
Inutile dolor qui non mi arresti.
Seguiamlo. O giusti dei, come il soffrite? (Si parte)
con libertà, mio core, andiamo a piangere. (Si parte)
di mostrar tua virtù nel caso acerbo.
virtù sovra il mio cor? Mirteo va a morte;
e forse in questo punto... Oimè!... Sostienmi.
                               A tanta fede, a tanto
Una scure, un carnefice. O crudele!
O perfida ch’io fui, che nol difesi!
regina amante e che più far potea?
Nulla, nulla fec’io; se a torlo all’ira
del suo fiero destin non fui bastante,
la regina che fe’? Che fe’ l’amante?
Tregua al dolor. Te la vendetta or chiede;
                                   Sì, e nel più iniquo
de’ suoi fieri nimici e nel più reo
                                    Viva Mirteo.
«Viva Mirteo» suona la reggia; udisti?
Degli eroi questo è il fato, esiger vivi
invidia, estinti applauso. Ah! Ch’egli è morto.
Io di sua vita il grato annunzio apporto.
Vive Mirteo? Qual dio?... Come?... Il vedesti?...
Passa per ogni bocca il lieto avviso.
In ogni fronte il giubilo passeggia.
Facil si crede il ben che più si brama.
Ecco a noi Micerino. Ei torrà i dubbi.
Prevengo il tuo desir. Vive Mirteo;
vive l’illustre amico. Odine il come.
Trasse appena egli il piè fuor della reggia
«Pur ten vieni» gli disse «al tuo supplizio».
Dal popolo fremente egli il difese
sino al palco feral. «Della tua morte
questo» soggiunse «è il nobil campo»; e al torvo
carnefice esclamò: «Tue parti adempi».
Iside certo o Anubi a lui diè scampo.
Manete, il crederesti? alla mannaia,
che già in aria pendea, sospese il colpo.
«Ferma» gridò. «Se infierir vuoi nell’empio
uccisor di Amenofi, io te l’addito»;
e Ratese accennò. «Colui, sì, Egizi,
colui fu il traditor. Colui poc’anzi
minacciava a Nitocri egual destino;
e senza un foglio mio, forse di Lete
calcherebbe le vie la regal donna».
Quel di Ratese genero Manete?
                    E quanto a noi pareva iniquo!
Vedi giudizio uman quanto spesso erra!
Allor quell’empio impallidì. Sul volto
gli si lesse l’orror de’ suoi delitti.
si udì, qual suol nel suo turbarsi il mare.
gridan: «Viva Mirteo, mora Ratese»;
e l’avrian morto; ma sé stesso oppone
Manete, or Mirteo prega or quello, or questo
e tanto fa che al tuo giudizio il serba.
Tutto ei speri da me, fuorché il perdono...
Non ti dar pena. Il suo furor l’ha ucciso.
volti in Mirteo, quando colui, di seno
due volte in sé lo ascose e cadde estinto,
non so quai susurrando orride note
Peran così quanti son empi al mondo.
Mirteo non ancor viene? Onde l’indugio?
Denso popolo intorno... Eccolo. Il vedi.
Mirteo, dono de’ numi, al nostro vieni,
                                                  E all’amor mio.
Mi tolse al rio naufragio il buon Manete;
ma l’onda procellosa ancor non cessa.
Due vite, o mio fedele, a me serbasti,
Regina, errai, lo so. Dell’infelice (S’inginocchia)
la figlia era mia sposa. Io tutto feci,
per non farlo perir. Pigro fu il zelo;
ma il rattenne pietà. Perdon ne imploro.
Lode meriti e premio. Or di Ratese (Rialzandolo)
e tue sien le ricchezze e tuoi gli onori;
e sì bella virtù segua il suo corso.
Mi sta doglia nel cor ma non rimorso.
Mirteo, l’alma non veggo in te tranquilla.
che in vassallo esser può dal comun bene.
che nascer può da un disperato amore.
Han la lor debolezza anche i più forti.
fui nel tuo duolo. A sì gran costo io fuggo
di bugiarda speranza i dolci inviti.
Sia tua sposa Emirena; e la ricevi,
più che da me, dal generoso amico.
Già la cedei. Qui ti confermo il dono.
A lei ti diede di Emirena il voto.
Quel voto non fu amor; fu ossequio e tema.
Non vuol dover che in tuo gran danno assenta.
In ceder una sposa, che non ami,
                            Regina, amico, è forza
ch’io dal vostro voler prenda le leggi.
O perduto mio ben, qual ti racquisto!
Vincer pur si lasciò l’alma ostinata.
Fausti sienvi gli dii, sposi felici.
Tebe sia vostro regno; e a me rimanga
la gloria di regnar sovra il mio core.
Quando vincer si vuol, si vince amore.
Quando vincer si vuol, si vince amore.
Ritor la palma a’ vincitori affetti
ma gloria è assai maggior d’anima eccelsa
non aver mai ceduto e starsi in guisa
contra ragion che li corregge e affrena.
Tal da quel dì, che d’onor colmo e gioia
con fausto giro oggi ricorre a noi,
il tuo si vide ad ogni scossa invitto
e magnanimo core, augusta Elisa,
non dar loco ad affetti o darlo a quelli
all’altrui colpa o alla miseria altrui.
L’altezza, in cui risiedi, a te fa senso,
non perché sei maggior ma perché puoi
usar beneficenze e, con l’esempio,
quei che tiene al tuo fianco ossequio e fede,
a te, ch’ottima sei, render simili.
Così dal giorno, in cui nascesti grande,
in tua virtù serbando egual tenore,
stesso in te fu l’impero e stesso il core.

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