che a l’Armenia diè leggi, inclita figlia,
bella Artenice, il lieto giorno è questo
che por ti dee l’aurea corona in fronte
e darti al popol tuo sposa e regina.
Te a l’amor mio commise il re tuo padre
a l’onor del tuo letto, è suo volere.
di te, vergine illustre, il cenno altero
sul perso insieme e su l’armeno impero.
espor liberi sensi? E que’ diritti,
il nome di regina, usar poss’io?
(Da quel labbro dipende il viver mio).
Non hai di che temer. Parla e ’l tuo regno
Ma ti sovvenga (Piano ad Artenice)
e che Arsace è mio figlio e ch’ei ti adora,
Ah! Di parlar, re, non è tempo ancora.
Qual rispetto ti affrena?
gli svelerò. Qui non si scordi il grado.
arbitra di me stessa, e salgo il trono. (Al suono delle trombe ascende Artenice sul trono, servita da Arsace, e dall’altro canto vi ascendono Ormisda e Palmira. Esce poi Mitrane con gli altri ambasciadori armeni, i quali portano omaggio ad Artenice, ed uno in particolare di loro sostenta sopra un bacino d’oro la corona e lo scettro)
Te a noi dieder gli dii, regina eccelsa.
Te a noi serbin gli dii. Duri il tuo regno
Ogni consiglio tuo regga virtude,
e de’ regi avi tuoi vinci le glorie.
Questi forma per te prieghi sinceri
la tua suddita Armenia; e noi, cui tocca
l’alto onor di offerirti i primi omaggi,
per lei giuriamo ossequio, amore e fede. (Nuovamente al suono delle trombe s’inginocchia Mitrane al secondo dei gradini del trono e, preso dal bacino lo scettro, lo porge ad Artenice).
Me attenta avrete a custodir le leggi,
più che a imporle sovrana. A voi miei fidi,
arra sien del mio amor l’auree maniglie,
fregio al braccio guerriero; e tu, Mitrane,
ricco lucente acciaro al fianco appendi
e mio campion, più la grand’alma accendi. (Artenice trattasi dal seno una picciol’arma dorata ed ingioiellata, detta dagli orientali acinace, solita portarsi dai re e dai maggiori personaggi, la porge a Mitrane che in ricevendola gliene bacia la mano. Escono nello stesso tempo quattro nobili armeni, i quali portano in quattro bacini dorati sedici maniglie d’oro, dette armille, e le distribuiscono agli ambasciadori armeni, i quali se le pongono al braccio destro)
Domi i ribelli e soggiogato il Ponto,
dal campo vincitor viene a’ tuoi piedi
Senza aspettar ch’io lo richiami? E prima
del mio comando abbandonar le schiere?
di que’ guerrieri eroi, di que’ gran cori
e da l’armi protetti e dal lor fasto,
non conoscon dover, non re, non padre.
Venga ed in me ritroverà il superbo,
(Cosroe è in periglio). (Parte)
ma Cosroe è base al regno ed è tuo figlio.
Quando chiaro è l’error, vano è ’l consiglio.
Dove è giudice il padre, il figlio tace.
Bella virtù che m’innamora e piace. (Tutti scendono dal trono)
se interrompo il tuo dir. Parli Artenice
ed intrepida parli, orché è difesa (Ad Ormisda)
e tu, regina, il sai, feci a’ miei voti (Verso Palmira)
forza sinora; al mio dover compiacqui;
non era ancor regina; attesi; e tacqui.
(Taccio a gran pena e l’ire mie sospendo).
uscì, me ancor fanciulla. Il terzo lustro
compie oggi appunto. Ei ti commise, o sire,
cui sul crin splenderà la tua corona.
che tuo erede sarà. Non basta a lui
Ci vuol quello di re. Cosroe ed Arsace
Hanno merto, han virtù, m’amano entrambi.
Se dovesse il cor mio sceglier lo sposo,
il ver dirò, tu lo saresti, Arsace.
la ragion de l’età. Tu, che sei padre,
del tuo scettro disponi. A me non lice.
il re, che tu farai, sarà mio sposo.
Mio consorte, mio re, da te dipende
E di Arsace in favor vuoi da me infranta
Serva dunque alla legge il re che è giusto.
Cosroe è reo di gran colpa e dei punirlo.
(Arsace, ho core, ho ingegno;
son madre; e tua sarà la sposa e ’l regno).
L’armi di Ormisda han vinto.
Il Ponto è tua provincia e domi i Medi,
quanto oprar potea Cosroe, ha tutto oprato.
disio mi allontanò di porti a’ piedi
e di aver la mercé di mie fatiche
In ogni altro che in Cosroe, un tanto eccesso
In te a virtude, in te a natura il dono.
Figlio, vieni al mio amplesso e ti perdono. (Lo abbraccia)
Ma dopo il mio perdon, Cosroe, paventa
di provocar con altra colpa a l’ire
un amor che ti assolve. Il nuovo giorno
fuor di Tauri ti vegga. Ozio può solo
al corso di tue glorie esser d’inciampo.
ma i miei comandi attenderai nel campo.
Ubbidirò. Tornerò al campo, o sire,
ma non senza Artenice. Ella è mia sposa.
Tu sei sedotto da un amore ingiusto.
son del regno l’erede; e non degg’io
ciò che per legge e che per sangue è mio.
ma generoso il cor, l’animo eccelso.
Scusalo pur. Ten pentirai ma tardi.
Nulla, o signor, lasciarlo
ove alterezza, ove furor lo spinge.
Povero Arsace! Misera Palmira!
Sarete ancor sue vittime innocenti.
Palmira, anima mia, di che paventi?
non son più per Palmira. Il primo letto
degno è sol del tuo amor. N’ebbe il secondo
Cosroe, che nacque al trono, è sol tuo sangue.
Nacque il povero Arsace a la sfortuna
e gran colpa è per lui l’esser mio figlio.
Con sì ingiuste querele il cor trafigi.
Cosroe è forse tuo re? Suo forse è ’l trono?
Ma lo sarà. Lascia ch’io salvi Arsace
contra un figlio crudel s’armi il tuo braccio.
trarre i miei giorni in sicurtà di vita
col caro Arsace. Un angolo di terra
a me basta per regno. Oh! Là talvolta
di te, Ormisda, mi giunga il dolce nome!
Questo sia tutto il fasto mio; e se questo
a me rammenterò, mirando Arsace.
Tu partir? Tu lasciarmi? È troppo ingiusto,
mia cara, il tuo dolor. Serena il ciglio.
Son re. Palmira è moglie. Arsace è figlio.
se guerra più crudel mi fanno i miei?
tutti oggetti di amor, tutti di affanno,
Ah! Che se re non fossi, io non sarei
sposo infelice e genitor dolente.
seme è degli odi. Ambizione in armi
mette il mio sangue e uccide la mia pace.
O corona! O Palmira! O Cosroe! O Arsace!
Quando l’ama Artenice, Arsace piange?
Che mi giova il tuo amor, quando ti perdo?
Ti consoli il piacer di mia grandezza.
Mi duol la mia, non la tua sorte, o cara.
più lieta regnerei. Ma come il posso?
Comanda il genitor che sia mio sposo
di Ormisda il regio erede.
L’esser nato più tardi è mia sventura.
nel mio avverso destin, lagrime amare,
A te tutte le spreme il mio dolore,
a te, mio solo fasto e sol mio amore.
questa introdusse empia ragion di stato,
Anime in libertà di amar chi piace,
e lasciarmi il mio cor? Sarei di Arsace.
Basti, basti l’Armenia ad Artenice,
la Persia a Cosroe. Arsace, a un dolce affetto
mi val più de la Persia e più del mondo.
Generosa Artenice, a sì gran prezzo
avrà forse rimorso, avrà rossore
di scior nodo sì bel, sì forte amore.
di aver turbati i vostri lieti amori.
tenero, sì, ma forse ultimo addio.
Ultimo? Non mi offende; e ne ho pietade;
e non senza dolor sciolgo il bel nodo.
che comune al mio sangue è in te dal padre.
da le vene materne, è mia nemica.
La matrigna m’insidia. Ella mi ha fatto
è colpa del mio cor, non de la madre.
Artenice l’ha accesa. E chi mirarla
Non amarla potea chi in Artenice
vedea la sua regina e la mia sposa.
né tua regina ancora (Ad Arsace)
Artenice non è. Rabbia ed orgoglio
no ti spaventi. Amala, o figlio, e avrai
quel diadema e quel cor ch’ei ti contende.
Tel promette Palmira e tel difende.
In te, regina, il grado eccelso onoro,
interpreti a viltà. Tenti sedurre
l’amor del padre e la virtù del figlio.
che tu cerchi innalzar sovra il mio soglio...
Ha troppa virtù, tu troppo orgoglio.
Ira il fratel trasporta, odio la madre.
regnerà Arsace o morirà Palmira.
questo cor, questo braccio e questa spada. (Mettendo la mano su la spada e mezzo sfoderandola )
Cosroe, qual turbamento? E qual furore?
La man sui brando e la regina è teco?
Sol per lasciarlo immerso entro il mio seno.
peria la madre e la uccideva il figlio. (Ad Ormisda)
O matrigna crudel! La mia innocenza,
Cosroe volea... (Ma accuserò la madre?)
Tu taci? Amor fraterno a che ti arresta?
Il fratel non mi scolpa. Io son tradito.
nel silenzio de l’altro un giusto padre
Cosroe, deh! più di freno al fasto, a l’ ira.
In questi di mia vita ultimi giorni
Palmira è ingiusta. Ella ama troppo Arsace.
Ma l’amor di Palmira in che ti nuoce?
Ella m’insidia il regno, ella Artenice.
Sa Ormisda giudicar tra moglie e figlio.
Giusto mi troverai. Cosroe, abbi fede.
Tu l’amor sei del padre e tu l’erede.
Ma sappi ancor ne la real tua sorte,
Palmira è tua regina e mia consorte.
insultarmi? Accusarmi? Ed io soffrirlo?
No. Mi si oppone invano amor paterno.
Mia è la ragion. Voglio Artenice e ’l trono.
principe, ti togliea sposa e corona.
Caro Mitrane, al primo, e da te l’ebbi,
nuncio de’ rischi miei, volai dal campo
e mi seguì de’ miei soldati il fiore.
E ben d’uopo ne avrai. Sola Artenice,
malgrado a l’amor suo, finor sostenne
Lo so; né in quel gran core
mi fu debol soccorso il tuo consiglio.
Dissi e feci il dover. Ma contro forza
ragion che può? Qui non Ormisda, sola
dà Palmira le leggi; e il re avvilito
Cosroe lontan potea temer. Vicino
Non basta il minacciar. L’opra si chiede,
Regnar convien. Se nol rapisci,
La regina ha sedotti e grandi e plebe,
duci e soldati, e vuol che regni Arsace.
Non osa il re. Fremono i buoni; e basta
Lasciar rapirti un trono è debolezza.
Ed è impietà voler cacciarne un padre.
Egli scender ne vuol, per darlo a un altro.
sacri nomi, io vi sento, io vi rispetto.
Si attenda ancor. Tengansi pronte a l’uopo
Facciam tremar chi ne minaccia. Voglio
salvar, se posso, ed innocenza e soglio.
Quando può prevenir, vile è chi attende.
de’ regnanti il destin, siate a le leggi
e vindici e custodi; e non lasciate
che un figlio erede ingiustamente or cada;
ed al vostro poter, ministro e servo,
per lui v’offro il mio braccio e la mia spada.
ti sarà testimon de la mia fede.
non ti senti ben forte a l’ardua impresa,
non ti espor con tuo rischio e con mio scorno.
già prendo da l’onor de la tua scelta.
senza l’orror di una gran colpa.
il comando real nome a la colpa.
di te, donna real, Cosroe è già reo.
O di quante ha la Persia anime invitte
specchio ed onor, già tutta in te ripongo
la mia vita, il mio onor, la mia vendetta;
è stimolo il dover, non la speranza.
D’arte più che d’ardir qui mi fa d’uopo).
(Stringe un acciar. Fissi or tien gli occhi a terra.
Or li gira d’intorno. Or ferma il passo.
un certo che di orribile e di atroce.
Ubbidir qui convien. Vano è ’l rimorso.
Da un odio femminil tutto si tema).
Dove, dove, Erismeno? (Erismeno alla voce di Cosroe mostra di rimaner soprafatto e di voler nasconder lo stilo)
perché ripor? Poc’anzi a che snudarlo?
Confonder ti dovea quel di Palmira.
potrai? Qui seco fosti. Ella qui a lungo
ti favellò. Che ti commise? Il ferro
Scoprimi il vero e in mia bontà confida.
indegno di perdono. O sorte infida!
No no, signor. Voglio a tue piante
più sostenermi. Io respirar più l’aure
e ascondilo in quel cor che un sol momento
nudrir poté l’idea de la tua morte.
De la mia morte? O numi! Ed era questo
Al suo furore io la promisi. Alora
non ripiombò la voce al core iniquo?
È più fier del tuo braccio il mio tormento.
se non che in faccia al re, che in faccia al mondo
parli su le tue labbra il reo disegno.
Ritogliti il tuo ferro; e fa’ ch’ei sia (Gli rende lo stilo)
prova de l’altrui colpa. Altra vendetta
da te non voglio e ’l mio perdono accetta.
O perdono! O pietà! Quanto m’imponi
di Palmira nel seno il ferro istesso...
un eccesso crudel con altro eccesso. (Parte)
regina, amici, popoli, soldati,
il re Ormisda vi parla e qui vi parla
(Taci, Palmira, e ascolta).
Nume, che sei di Ormisda e sei de’ Persi
deità tutelar, genio sovrano,
cinsi al crine real, cerchio gemmato
ecco depongo a l’ara tua. Natura
mel diè. Virtù me lo difese. Or temo
che in discordie sì rie mel serbi o tolga
Dio, che l’atto magnanimo m’inspiri,
reggi la mente tu, reggi la voce
sceglier dovrà l’erede; e fa’ ch’ei sia
oracolo di pace, onde sia spenta
nel mio cor, nel mio sangue e nel mio regno. (Si accosta all’ara e vi depone la corona)
sarà da me l’alta ragion del trono.
Ei cede il regno e per Arsace io sono. (Verso Cosroe)
Ella da te lo attende. Un voto istesso
a la Persia il monarca, a me la pace.
Scegli qual più vorrai, Cosroe od Arsace.
Arsace, il re tu sei. T’ama Artenice. (Ad Arsace)
né lusinga né tema amore o fasto.
Virtù mi regge; e a te mi volgo, o sire.
fremon nel sangue tuo. Solo il rispetto
li contiene in dover. Sciorranno il freno,
abbia il suo re, Cosroe ed Arsace il padre;
più Artenice non sia né metta in armi
il fratel col fratel, col padre il figlio,
ver l’Armenia il cammino. Ivi le leggi
darò al popol vassallo; e là in riposo
nel figlio erede attenderò Io sposo.
Crudel ma necessario a la mia gloria.
Signor, parte Artenice; e s’io la perdo,
scettro e Artenice. O miei saranno entrambi
o entrambi tuoi; ma per averli è forza
che di Cosroe non viva altro che il nome.
Vedi, o signor, qual implacabil core!
La bontà del fratello il fa più audace.
Cosroe è crudele e sfortunato Arsace.
arbitro ma custode, aurea corona.
Sinché Ormisda è monarca, io son vassallo;
ma se il regno abbandoni, il re son io. (Ormisda ritorna a l’ara e ne ripiglia la corona)
in avvenir non più marito e padre
ma sol giudice e re, nulla più curi
Sì. Giudice t’imploro e re ti voglio.
qui ti accingi a punir. Resta, o regina,
e mi faccia ragione anche il tuo aspetto.
Io tacerò; ma parlerà Erismeno.
Erismeno? Dal campo ei teco venne.
E a lui poc’anzi favellò Palmira.
Venga, venga Erismeno. Udrò sin dove
giunga l’altrui perfidia.
È rea la moglie od impostore il figlio).
Taccia ogni altro. Erismeno, a me rispondi.
Non mentir. Non temer. Libero parla;
e qualunque egli sia, che a trama iniqua
Qual fier comando? Ah! Resti,
resti, o sire, un arcano in me sepolto
Lo so; ma parlò Cosroe; e non v’ha scampo.
O dio! Perché parlar? Perché a sì dura
necessità costringer la mia fede? (Verso Cosroe)
Ossequio e non pietà qui ti si chiede.
Tanto di mia reità dura il sospetto,
e in un sol v’è la colpa. Odila, o sire,
Risparmiati un orror. Conosci il reo;
e poscia a tuo voler punisci o assolvi.
Seguimi. Ognun qui attenda. O re infelice! (Si ritira con Erismeno nel fondo della scena)
Tal ne esulta in sembianza e in cor ne trema.
Vedi. Parla Erismeno. Il re lo ascolta.
Parli. È ’l dover. Sol per sì illustre impresa
fino dal Ponto ei t’ha seguito in Tauri.
chi ne avrà il dispiacer, chi la vergogna.
Se tradito io non son, tu l’uno e l’altra.
Qual delitto? Qual reo punir convienmi?
Oh non padre, oh non sposo, oh re non fossi!
né riguardo né fren, con chi non l’ ebbe
del mio pianto anche a costo e del mio sangue.
l’esser femmina e madre...
Accresce l’ire mie la tua impudenza.
Chiedi grazia per te. Contra il tuo voto
Innocente è Palmira. Il tuo furore
Il perfido tu sei, tu il traditore.
Tradito io son. Re, sei deluso. Iniquo,
lo tacer lo volea. Tu m’hai costretto.
da l’ire tue. Prendila e questo acciaro
ne fia ministro. Il riconosci? Io l’ebbi
stupida l’alma. Il ricusai. Tu alora
la regal donna ad accusar m’hai spinto
del non suo fallo. Inevitabil morte
Promise il mio timor, con qual de’ miei
pensieri orror, voi lo scorgeste, o dei.
Perfido! Che dir puoi? Già sei convinto.
Signor, tutto è bugia, tutto impostura.
La sua sincerità sarà sua colpa?
Sì tosto vieni in sua difesa? E tanto
temi che in morte parli il suo rimorso?
Mi si vuol reo. Prenditi il ferro. Oscura (Gitta la spada a’ piè di Ormisda)
Colà, regina, attenderò quel fato
che uscirà dal tuo labbro a condannarmi.
con l’odio tuo. Serve il suo amor; ma temi
che Cosroe in libertà non torni ancora.
Forse da quel furor, che m’arde in seno,
nulla te salveria né il tuo Erismeno.
Invan minacci. Ostane, a te il consegno. (Partono le guardie di Ormisda)
Fosti fedel. Colpa fuggisti ed onta.
Dei mali, infamia e colpa è sol l’estremo.
L’innocenza ho difesa e nulla temo, (Parte)
E tu più non lagnarti, o mia diletta.
Giusti forse non sono i miei sospiri?
Confusa è la calunnia e tu n’hai gloria.
Un momento fui rea nel cor di Ormisda.
Dopo il trionfo tuo più t’amo, o cara.
tra una moglie innocente e un empio figlio.
Io più Cosroe amerei? Lui che mi offese
ne la parte miglior de l’alma mia?
Ei le schiere lasciò; n’ebbe perdono.
In me strinse l’acciar; tu noi credesti.
M’insidiò, mi accusò; ne andrà impunito.
de’ suoi falli il minor. Non troverei
sì buon marito in te, com’ei buon padre.
Prigionier tu ’l vedesti e cieca torre
Eh! Dove un padre è re, non teme un figlio.
fin nel seno di lui ferro omicida?
Così ingiusta non son. Rispetto i sacri
Ma di natura è sacra legge ancora
cercar di non perir. Piacesse al cielo
io la darei contenta al ben di Ormisda.
meco cadrebbe il caro figlio. È questo,
questo il mio gran timor. Salvami Arsace,
dolci viscere mie. Salvami Arsace
che è pur viscere tue, padre e consorte;
e se il prezzo io ne son, dammi anche morte.
Mitrane a me. Vanne e sii lieta. In breve
vedrai se a cor mi sien Palmira e Arsace.
Artenice lo sposo. Il lieto avviso
ne l’amante assicuri i dubbi affetti.
Persi ed Armeni indi nel campo aduna,
ove a l’atto solenne ognun presente
giuri l’omaggio e a la mia scelta applauda.
Signor, del zelo mio scusa l’ardire.
Son più padre al mio regno ed io gli deggio
in erede un buon re, non un malvagio.
Prove hai di sua virtù; né d’impostori
Da quest’occhi convinto, io non m’inganno.
soffrir vorrà de le sue leggi il torto?
Se scorger vuoi tutto in tumulto e in armi...
quando astretto io vi sia, del reo la testa.
Vanne. De’ tuoi consigli or non ho d’uopo.
o faccia che sien vani i miei presagi. (Parte)
Fingo costanza; uso rigor; ma sento,
or regnante, or marito, or genitore,
da mille affanni lacerato il core.
Affetti del cor mio, siete infelici,
Abbandonar conviene il caro Arsace.
Entrar può pentimento in sen di amante,
nuovi rimedi. Il tuo partir da questo
torbido infausto cielo era poc’anzi
necessario consiglio a la tua gloria.
de l’oppressa innocenza or qui ti arresta.
L’odio de la matrigna e la perfidia
colpevole lo fanno appresso il padre.
a danno di Palmira. Ad Erismeno,
suo accusator, crede l’accuse il padre;
soverchio amor tanto il trasporta e accieca.
gli usan satrapi e duci. Ognun ne freme;
Cosroe è in periglio, Ormisda in ira; ed oggi
vuol che il regno in Arsace abbia l’erede,
Artenice lo sposo; e per sua legge
ne reco a te l’avviso, al campo il cenno.
oggi al trono paterno? Oggi al mio letto?
Sì, qualor tua virtù non vi si opponga.
Dura impresa al tuo amor; ma se lo ascolti,
di te che si diria? Che fosti il prezzo
de l’altrui tradimento e ch’ei ti piacque.
n’è creduto l’autor. Con sì rea fama
qual dai sudditi amor? Qual dagli estrani
lode a te ne verria? Qual sovra il trono
sicurezza per te? Qual per Arsace?
è ugualmente a temer. Soldati e plebe
coronato il vorranno o vendicato.
Cosroe vuoi salvo? Io pur lo bramo. A l’opra
moverò Arsace e tu disponi il campo.
si adopri alor che più non giovi ingegno.
Nata a regnar, tal ben cominci il regno.
Viene Arsace. Sostengami virtude.
di fortuna e di amor, non so, Artenice,
che sperar, che temer. L’altrui sciagura
non ch’io fugga quel ben che mi si appresta
la man che mel presenta, empia e tiranna.
gli faresti ragion, se non mi amassi.
di cotesta pietà con cui l’assolvi?
di cotesta viltà con cui ’l condanni?
Più tosto un re marito. Odimi, Arsace.
può farti re ma non mio sposo. Io t’amo
Segui l’esempio mio. Trono, cui base
sia la ruina altrui, più che lusinga,
ti faccia orror. Cosroe difendi e in lui
E comunque di noi disponga il fato,
io di te, tu di me. Soffriam miseria
ma non rossor. Vero e durevol bene
la colpa no, sol la virtù l’ottiene.
che una donna t’insegni ad esser forte.
Qui vien la madre ed Erismeno è seco.
Si ascoltino in disparte. Io temo inganni.
Altri ne udii poc’anzi, alor che tacqui,
e n’ebbi orror. Sol per soffrire io nacqui. (Nascondesi dietro le colonnate dei portici)
ma il più resta a compir. Cosroe ancor vive.
Ei può sortirne e sue minacce udisti.
Troverà Arsace e coronato e sposo.
non lo creder ben fermo in sua grandezza,
Dammi il tuo voto; e ’l prigionier nemico
ucciderò. Lo custodisce Ostane
e di Ostane dispor posso a mio grado.
in luogo di sanar, nuoce ed uccide.
Il colpo n’esporrebbe al comun odio
e a quel del re. Ma il re dee farlo; e ’l faccia.
Lasciane a me il pensier.
e forza nol potria, che, se il tentasse,
lui troverebbe entro il suo sangue involto.
Tanto imposi ad Ostane e ne ho la fede.
Per te Arsace sarà sposo ed erede.
(Quanto è fido Erismeno!)
Povero Cosroe! Empio Erismeno!
Ahi! Che facesti, o madre? Ahi! Che far tenti?
E tanto orror mi si svegliò ne l’alma
che quasi m’increscea d’esser tuo figlio.
travaglio e in tua grandezza; e te ne incresce?
O più tosto ti adopri in mia ruina.
Sì non dirai, sovra del trono assiso
No no, quello rifiuto e a questa in odio
sarò, se l’empie trame io non recido. (Furioso e in atto di partire)
a punir con la morte il tradimento.
vattene ancora ad accusare al padre
e in salvando il fratel, perdi la madre.
Eh! Di far non è tempo il generoso.
di nulla osar contra Erismeno.
giovane ancora sei, sei poco esperto.
Chetati e a l’amor mio lascia guidarti.
Salverò Cosroe iniquamente oppresso.
Vincerò il padre e tradirò me stesso.
A me Cosroe si guidi. In quanti affanni
l’anima ondeggia! Al fianco di Palmira
non so d’esser che sposo; e lei lontana,
O re nato a servir! Tiranni tuoi...
Sì, re nato a servir, poiché lo vuoi.
Nol diss’io che al figlio iniquo
Eh! Son tuoi sdegni, Ormisda,
senz’ardor, senza possa e che si volge
dovunque ogni aura lo sospinge e ’l preme.
Non temer da pietade ira in me vinta,
Implorando al tuo piè grazia e perdono.
Pentito del suo error, Cosroe al mio piede?
timor di suo periglio, amor di regno
Lo fingeria, per poi tradirne entrambi.
Ceda in prova Artenice; e con lei regga
gli Armeni Arsace e con me Cosroe i Persi.
per non parer troppo ostinata e ria;
ma ’l credi a me, nulla otterrai.
sarà alor la sua pena e l’ira mia.
Palmira qui? Solo ingiustizia attendo.
Cosroe, tempo non è di usar fierezza.
esser brama ancor padre. Ei sa tue colpe
e ’l far ch’egli le obblii da te dipende.
Orgoglio in te ne fremerà; ma sappi
che chi sprezza bontà provoca a sdegno,
che il gastigo è in mia man, che tuo re sono
porrà te ne la tomba e Arsace in trono.
In tua mano, o signor, stan vita e morte,
trionfa la calunnia, io piego il capo
che il chiaror del mio nome adombri e cuopra,
viver non sa a l’infamia e che la morte
fa meno orror che la viltade al forte.
e non nel pentimento. A chi oltraggiasti,
chiedi perdon de l’impostura atroce.
Sua bontà ne fia paga; ed io ti assolvo.
Cosroe vorria? Ch’ei confessasse il fallo,
Uom, qual io, non ha colpa o l’ha da grande.
Entrar ne’ regni tuoi, del mio retaggio
sostenere i diritti e da le braccia
trarre Artenice, esser potean mie colpe,
se mia fede e rispetto eran men forti.
Sol per l’anime basse è l’impostura;
e dove abbondan le querele e gli odi, (Guardando verso Palmira)
di femmina è costume usar le frodi.
Giusto non è che mi si vegga al piede
un vincitor de l’Asia, un regio erede.
me di obbrobrio coprir, scusane l’odio
e scusane l’amor. Rival gli è Arsace
e matrigna Palmira; e tu ben sai
quanto feroce tiranneggi un core
instinto d’odio e gelosia di amore.
mai non parlò, qual tu, regina, in mio.
una via per salvarti e sia l’estrema.
regna sui Persi; e sposo ad Artenice
dia le leggi a l’Armenia il tuo germano.
tu non m’offri, o signor, che un ben già mio.
nacqui al regno e a la vita. Ambo mi desti,
E li torrò. De la real possanza
oggi vestirò Arsace. A lui mio erede
e dei pubblici «viva» il lieto suono
ci vuole il sangue mio, per compir l’opra.
tu immortal non nascesti; e s’ami Arsace,
te lo consiglio, o non alzarlo al trono
o colla morte mia glielo assicura.
e un figlio salverai, perdendo un figlio.
di un amor moribondo. Andiam, Palmira,
di Cosroe in onta a coronare Arsace;
sul destino di Cosroe arbitrio intero.
Figlio, avrai de la Persia anche l’impero.
Signore, al vicin mal pronto riparo.
Mitrane ebbe il mio cenno...
Lasciar, per esser re, d’esser più padre.
Solo in udirlo raccapriccio. Un figlio?
Un reo figlio non è che un reo vassallo.
Colpo sì atroce irriteria il tumulto.
Di’ che lo arresteria. Toltone il capo,
muor negli altri l’ardir, manca il pretesto.
Palmira, non ho cor; dammi consiglio.
Veggo il tuo danno e piango il tuo periglio.
O punire o servir. Cosroe anche lungi
meditò tua ruina. Il fier disegno
qui lo trasse dal Ponto e vel seguiro
duci e soldati; e se più tardi ancora...
Rubello e traditor? Convien ch’ei mora.
Ei fu il primo a oltraggiarla. O figlio! O figlio!
pria che quel debol cor tremi e si penta.
Partì Erismeno. Or tu sarai contenta.
Ormisda, al tuo dolor non darti in preda.
più di quel che dovea. De la cittade
provvedi e de la reggia a la difesa.
L’angoscia mia senno mi toglie e core.
Veglieranno per te fede e valore.
Colpe di figlio reo, protervia, orgoglio,
venite in mio soccorso e sostenete
le ragioni di un re che lo condanna.
Condannato da te Cosroe avrà morte?
Sì, morte avrà; già la sentenza è data.
Può rivocarla il re, la deve il padre.
Il padre e ’l re sono egualmente offesi.
Quanto Cosroe è infelice!
La tua pietà non ha per lui discolpe.
Parlar potessi! (O madre! O giuramento!)
Figlio, il vorrei; ma data è la sentenza.
lagrime al regal piè, deh! se pur m’ami,
a me rendi il fratel, rendi a te ’l figlio.
Tardo poi lo vorrebbe il tuo dolore.
Non più, già cede l’ira e piange amore.
Vanne. Sospendi... Ma il real decoro?... (Arsace si leva)
Qual decoro ti fingi in crudeltade?
Deggio al campo rubel tronco quel capo.
Furor vi crescerebbe in tuo periglio.
I rimproveri udrei d’irata moglie.
La madre placheran pianti di figlio.
Salvando lui, perdi Artenice e ’l trono.
In odio a me, se lui non salvo, io sono.
Artenice vi guida; e fa’ che Cosroe
ti ceda in lei le sue ragioni. Espugna
quel fiero cor. Piangi. Minaccia. Prega.
Abbia vita, se il fa, morte, se il niega.
O due volte a me padre! A Cosroe io vado.
Prendi il mio regio anello. (Gli dà l’anello reale)
E vengan teco i miei custodi.
Ah! Tu nol sai. Tentar l’ingresso a Cosroe
Sempre novelli arcani in mio tormento?
Parlar potessi! (O madre! O giuramento!)
Qui attendi. A quai vicende un re soggiace! (Parte)
Oh! Per me spunti alfin, raggio di pace.
sicuro avrai ne la prigion l’ingresso.
La via ti è nota e ne sai l’uscio e ’l varco.
Oh! Si plachi al tuo dir l’alma orgogliosa.
Oprerò quanto deggio; in me riposa.
di re ingiusto talvolta e di re iniquo,
mirate il mio destin. Principe e figlio,
trovo un padre crudel, trovo un re ingrato.
colse lauri e trofei. Sostenne il regno.
A l’oppressa virtù diede soccorso,
ai miseri rifugio, ai rei spavento.
Eccolo in ferrei ceppi; e tal riporta,
tanto può iniquità! grazia e mercede.
perfidia e crudeltà con Erismeno. (Apresi la porta della prigione. Cosroe siede sul sasso)
orché mostro letal mi veggo a fronte.
Soffrilo. Io reco morte. Il re l’impone.
Troppo è buon, troppo è giusto il re mio padre
né da lui puote uscir l’empia sentenza.
Scegli ferro o velen. Questo è suo impero.
Dei malvagi, qual tu, questa è sol trama.
Venga il padre e comandi ed io ubbidisco.
Egli è un esser rubel fargli contrasto,
colpa aggiugner a colpa. Io ti consiglio... (Cosroe improvviso e impetuosamente si leva per avventarsi alla vita di Erismeno ma non può arrivarlo, impeditone dalla catena del braccio)
Traditor, questo braccio... Empia catena
che mi togli il poter de la vendetta!
Previdi il tuo furor; ma su la punta
sta di que’ strali il tuo destin. Soldati. (Gli arcieri prendono in mano i loro archi e gli armano delle lor frecce)
per avermi a tradir sì iniquamente?
di benefici in te profusi.
le scrive in marmo e chi le fa in arena.
Il governo del Ponto a me negato (Si apre intanto nel muro una porta segreta della prigione e ne calano Artenice ed Arsace)
io meritava. In cor ne chiusi il torto
per vendicarlo. Eccone il tempo. Arcieri,
per molte vie fate là entrar la morte.
Fermate. Ecco, Erismeno, il regio impronto. (Gli mostra l’anello reale)
Rechiam novi comandi; e poi se Cosroe
Vanne, amor mio. Da te pendon due vite. (Ad Artenice. Arsace si ferma in lontano, a’ piè della scaletta dell’uscio segreto, e Artenice si avanza)
Qual fortuna per me, bella Artenice,
Di morir non si parli. Hai grazia e vita.
Chi non sa d’esser reo, grazia ricusa;
e vita meritar può chi è innocente.
Innocente ti abbraccia il re tuo padre.
Torna al regno la calma, a me la gioia.
tuo magnanimo sforzo in mio riposo.
per te astrinsi a languir. Amando Arsace,
con qual forza, tu ’l sai, lo sa il mio core.
sia di virtù, sia di dover. Te stesso
salva. Salva il mio amor, la gloria mia.
Col tuo voto Artenice abbia il suo sposo,
l’Armenia il suo regnante; e Arsace il sia. (Cosroe sta alquanto pensoso)
(Fate, o dei, che quell’alma alfin si renda).
Regina, a te più deggio in ciò che oprasti,
quanto meno mi amasti. Amarmi e farlo
saria stato di amore util consiglio.
generosa virtù ne ha tutto il merto.
Or questa avria ragion di abbandonarmi,
s’io ti cedessi per campar di rischio.
Di Arsace sii. Mia morte a te il concede;
Lasciami al mio destin. Così mi resta
in morendo un gran ben, che di Artenice,
non potendo l’affetto, avrò la stima;
e talvolta anche a me, sposa di Arsace,
darai lode e dirai: «Riposa in pace».
Già rispose il feroce. Al re si serva. (Ad Artenice)
Attendi; e più rispetto ad Artenice. (Ad Erismeno)
(Ciel, qui proteggi amore ed innocenza).
Cosroe, con la tua morte al caro Arsace
La gloria mia, che de la tua sciagura
esser non voglio il prezzo.
Tu m’insegni la via di vendicarmi.
Son io degna, o crudel, di tal mercede?
Me ancor confondi ne la tua vendetta?
Mi amasti sol per mia miseria? O Cosroe,
a me sempre fatal, vivo ed estinto.
I rimproveri tuoi quasi m’han vinto.
Ma vedi. In questi ceppi, in quegli strali,
più che la pena mia, sta la mia fama.
Se tal ti cedo, si dirà che astretto
vi fui, non da pietà ma da timore.
Nol farò. Morir deggio. Il vuole onore.
E vel comanda il re. Non più dimore. (Agli arcieri)
il tuo dovere. Il suo pur faccia Arsace.
o cadrà chi di voi primo le tenda.
Prence, vorrai disubbidire al padre?
Perché padre egli sia, difendo il figlio.
Me punirà, se in lui salvar la offendo.
non è facil campar Cosroe da morte. (Prende di mano ad una guardia un arco con freccia)
Tu insolente l’avrai. (In atto di avventarsi con uno stilo alla vita di Erismeno)
(Ah! Mi sovvieni, (Si ferma e sta sospeso)
o fatal giuramento, e l’ire affreni).
Ora è ’l tempo, ire mie. (Tende l’arco per ferir Cosroe)
Non si passa a quel sen per altra via.
(Chi sì bella virtù non ameria?)
Stelle! Tu in lui proteggi un parricida.
Cosroe conosco ed Erismeno ancora.
E troverà morto al suo fianco Arsace.
Trema la man sul ferro. Ire infelici! (Si lascia cader l’arco di mano)
Ella al figlio dia leggi e ’l reo poi cada.
Tu figlio di Palmira, in mia difesa?
Io fratello di Cosroe, in sua salvezza.
È ver. Sol riconosco in te il mio sangue.
La mia regina in me svegliò fortezza.
Nobil cor, quale il tuo, cote è a sé stesso.
Ah! Nulla ancor fec’io, se resti avvinto. (Snuda il suo stilo)
Con questo aprir tuoi ceppi.
da l’ire di un fellon. Forse da quelle
e perderei di sì bell’opra il frutto. (Arsace va aprendo col ferro le manette, a cui sta inchiavato il braccio di Cosroe)
Tua pietà sia più cauta. Io son del regno
Ne la mia libertà, ne la mia vita
dispera di ottener scettro e Artenice.
Il duol ne soffrirò senza rimorso.
E purché generoso, ei sia infelice.
Sciolto, o Cosroe, già sei. Fuor de l’infausto
Seguanti questi arcieri, onde in lor danno
non torni la pietà che li rattenne.
il tumulto che v’arde; o se ti spinge
rimembranza di torto a la vendetta,
sovvengati che Arsace, quell’Arsace
sì, quell’Arsace è di Palmira il figlio.
Del dono, che ricevo, il dover mio
farà buon uso. Amanti cori, addio. (Parte per la scaletta seguito dagli arcieri)
Giovi seguirlo. Tu sospiri, Arsace?
ed or più del tuo volto amo il tuo core.
Ma di un altro io ti fei regina e sposa.
Premio vien da virtù. Spera in tuo merto.
La beltà di Artenice ha troppo prezzo
e gli affetti di Cosroe han troppo ardore.
Anche nel tuo timor veggo il tuo amore.
È giusto il ciel, se sarà Cosroe ingrato.
Ma qual rumor, misto di trombe e grida?
Veggo la soglia abbandonata, in fuga
Non ritorna Erismen; non vien la madre.
non bastano, e son tanti, i mali miei.
Non credibile sembra un cangiamento
Facili eventi, ove conformi i voti.
Raro esempio saran Palmira e Ormisda
corte fan, più che guardia, armati e servi.
Quegli, ch’util ritien, sono i codardi.
Quei, che forza e timor, sono i nemici.
Loro forte custodia è amor sincero
che nasca da giustizia o da bontade.
mi giugnea, senz’Arsace, il vostro amore.
Palmira in tuo poter si custodisce
ne la sciagura sua si usò rispetto
e verrà in breve al tuo giudicio anch’esso.
Guardati che pietà te non rispinga
in più profondo di miseria abisso.
Chi una volta al suo re può far timore
sempre è fellon. Gran colpa è un gran potere.
Lodo il tuo zel. Vo’ vendicarmi. Incontro
va’ al genitor; ma d’ogni oltraggio il serba.
scorgo un ardor che ti assicura il trono.
Adempiasi vendetta e re poi sono.
Vedrem come ben soffra il fato avverso
chi sì mal seppe sostener l’amico.
Son io regina o prigioniera? E dove
Tu mio re? Qui non regna altri che Ormisda.
Ma por tentasti in su quel trono Arsace.
Gli dii talvolta esaltano i malvagi
e giustizia non è rapina e forza.
Ciò che festi in mio danno, or ti sovvenga.
ma sai perché? Perché lo feci e vivi.
e di Ormisda e di Arsace e di Palmira.
Crudel, non aspettar ch’io qui ti preghi
che ben d’uopo ne avrai, la tua fierezza.
Unirò al tuo destino Arsace e Ormisda.
E Ormisda vien. Fagli apprestar le scuri.
che traesti dal Ponto in reo disegno.
Vedi. Tuo soglio è quel. Su, colà ascendi;
e fa’ con scelleraggine inudita
che si vegga un ribello iniquo figlio
seder giudice e re de la mia vita.
Da le accuse d’iniquo e di ribello
facile a me, o signor, fia la discolpa.
Ma quella, onde tentò l’empio Erismeno
più mi punge e mi fiede. Ella si levi
dal tuo cor, dal mio nome.
morto Erismeno e per tuo cenno ucciso?
È vero. In lui l’irata plebe,
che autor già lo sapea del tuo periglio,
si avventò nel tumulto e con più colpi
gli fe’ uscire del sen l’alma esecranda.
Pena a lui ben dovuta e pur ne piango,
altrui render ragion di mia innocenza.
ella avrà più di fede. Io ritrovai,
ne l’ultime agonie de la sua vita,
steso Erismeno. Alma a spirar vicina
quai rimorsi non soffre! In fiochi accenti
confessò l’error suo, la sua impostura,
l’innocenza di Cosroe e che sedotto...
sia l’altrui gloria, orché la mia va illesa.
(Tutto in mio male e in onta mia congiura).
ora venga al tuo piè. Torni ne’ ceppi,
Rendimi l’amor tuo. Perdona a questi
duci e soldati tuoi quella pietade
che lor desta ha nel sen la mia sciagura;
se colpevol lo trovi, il sangue mio...
Non più, figlio, non più, che il reo son io.
sui Persi e sugli Armeni. Ecco il mio erede,
o popoli. Il tuo sposo ecco, Artenice;
e fine abbiano gli odi. (Verso Palmira)
No, per me nol sarete, o generosi.
Sappialo ognun. Di morte e di catena
senza voi non uscia. Premio chiedeste.
Fra ceppi io nol potea, senza esser vile;
ma più vile or sarei, se lo negassi.
Che farà? (Verso Artenice)
Di buon’opra ecco il buon frutto. (Verso Arsace)
Il tuo materno amor volea sul crine
che da la man di Cosroe egli il riceva.
a lui cedo l’Armenia; e se in mercede
luogo avrò nel tuo cor, son lieto e pago.
Prence, a qual segno porti i tuoi trionfi?
Signor de la mia vita e del mio onore,
già divien tua conquista anche il mio core.
diasi a le andate cose eterno esiglio;
e avrò in Cosroe, tel giuro, un altro figlio.
Madre, sposa, fratel, quai gioie e quante!
Or sono in libertà gli affetti miei
e tu mio sposo e tu mio re già sei.
Venga e chiuda i miei dì sonno di pace;
amore il premio affretti. Oggi al mio impero
Cosroe sottentri con sì lieti auspici;
ed Ormisda sia ’l primo a dargli onore.
Son paga. Arsace è re. Cosroe anche regni.
Sarò in qualunque sorte e servo e figlio.
Figlio sì degno è la maggior mia gloria.
Tu vincitor de l’odio e de l’amore
avesti da virtù regno migliore.
Avesti da virtù regno migliore.
taccia musa bugiarda. Ella un re finse,
non qual ei fu ma quale esser dovea.
Che se un’eccelsa idea d’alto regnante
ove l’augusto impera ottimo Carlo,
il cui gran nome oggi si onora e cole,
il piè non volga e non richiami il guardo.
di ritrarne col canto il pregio e ’l merto.
Troppo è sopra al poter l’oggetto e ’l vero,
tanto maggior degli altrui plausi, quanto
vincon le sue virtù la sua fortuna.
mai non si può. Ciò che fe’ Carlo avanza
le glorie altrui, ciò ch’egli fa, le sue;
e sovra le presenti avran la palma
paga non è. Cresce di pregio in pregio
e riposo non ha, giunta anche al sommo.
Tu che m’ascolti, alma di Carlo augusta,
ben senti e sai che in darti lode io parlo
non al romano Cesare ma a Carlo.