Veggiam. Ti colsi pur col pane in bocca. (Trova il pane in mano a Nilo)
Iniquo! Un pane al sacco mio s’invola? (Crate batte Nilo)
Destin della mia fame è ch’io ti rubi.
E destin dei mio sdegno è ch’io ti batta. (Lo batte ancora)
Rubo al padron. L’uso comune è tale.
Contro di altr’uom l’ira del savio è breve.
Quegli un uomo? Un mio schiavo è una mia bestia.
Il lupo! Il parasito! (A Nilo) Or tu, che fai? (Ad Addolonimo)
di queste piante ore beate io traggo.
Né il regio cor ti punge amor di regno?
Nulla curo il regnar. Natura e grado
me ne dier la ragion. Straton caduto
la via me n’apre; e un vincitor, ch’è giusto,
render potrebbe a me degli avi ’l soglio;
ma ch’io lo cerchi? No. Sul mio volere
mi fa re la virtù. Su quel degli altri
re mi faccia il destin, s’ei re mi vuole.
Questo è saper. (Ad Addolonimo) Questa è filosofia. (A Nilo)
Buon pro. Questa mi sembra una pazzia.
Ben pensi e parli ben. Ma veggo in rischio
Una scaltra beltà... Basta... Tu parli
Carbon, che si maneggia, o scotta o tinge.
(Fenicia, l’idol mio). Scorta, non rischio
di mia innocenza è della bella il labbro.
La donna è un ben degli occhi e un mal del core.
(L’orso detesta il mel, la volpe i polli).
Amar nel frale anche il divin si puote.
Qual danno, ov’io la bella ascolti e vegga?
Quale? Guarda la paglia al foco unita.
è gloria o pur virtù? Veggiamlo un poco.
Guardati. Tu sei paglia; e quella è foco.
Foco, foco voi siete. Una scintilla,
che in cor d’uom troppo incauto abbia ricetto,
fa grande incendio. Al mio però non giunge
né giungerà l’ardor. Virtude è questa. (Ad Addolonimo. Volta con disprezzo le spalle a Fenicia)
Non farebbe così da testa a testa. (Ad Addolonimo)
Tanto è nociva all’uom nostra bellezza?
Quanto il vischio agli uccelli e l’amo a’ pesci.
rozza filosofia, che amor condanna,
di un uom fa un tronco, anzi che un savio. A’ cori
filosofo gentil, detta Aristippo.
Quegli è gentil. Lo so. Velen, che piace,
par grato cibo. Il tuo Aristippo insegna
ciò che a lui già insegnaro il lusso e il fasto.
Forse a que’ giorni era men vano il sesso.
che ancor da’ savi amar si debba il bello.
Io no. Per tutto il bel non spenderei
pur una sol filosofal parola.
Non ti diria così da solo a sola. (A Fenicia)
Crate, Alessandro a sé ti vuol. Mi segui.
Pian col voler. Questo Alessandro è Giove?
Per me Nilo e Alessandro, un re e un bifolco
sono le istesse cose. E tu chi sei?
Efestion che reca il regal cenno.
Non mi cale del cenno e non del messo.
Temi chi vincer sa provincie e regni.
Né regno né provincia io mai non fui.
Dirai ch’ov’io lui voglia andrò a trovarlo.
Addio. Guardati. (Ad Addolonimo) Andiamo. (A Nilo) Io non m’inchino,
e come tratto i re, tratto le belle.
Ah! Tu non sai quanto animale ei sia.
che a te parli ’l tuo cor. Tempo è che rieda
a quella man degli avi tuoi lo scettro.
La figlia di Straton, che lo reggea
e che reggerlo può, fa questi voti?
Donde, o bella, il pensier di mia grandezza?
(Sapesse almen che il mio dovere è amore).
fede miglior. Spera per lui. Chi seppe
usurpar la corona a un regio erede,
impetrarla saprà da un suo nimico.
men reo parmi Straton, se a te si rende.
Sprezza il regnar chi un maggior ben desia.
(Potessi dir ch’ella è il sol ben ch’io bramo).
(Quasi dissi Fenicia). Il mio riposo.
il tuo spirto regal. Togli alla sorte
ciò che al sangue si dee. Giusto è Alessandro.
Sol che tu voglia, il nostro re tu sei.
tosto verrà Alessandro. Ei te non vegga (Ad Addolonimo)
con Fenicia parlar. Sospetta o rea
la vostra intelligenza a lui può farsi.
Ben mi consigli. Addio. M’è grato il zelo
che veggio in te; ma in te l’ascondi; e intanto
del mio regno e di me disponga il cielo. (Addolonimo si parte)
Il regno che perdiam? Virtù a noi resta.
Il padre prigionier? Speriamlo sciolto.
La patria oppressa? Altrove ella si cerchi.
in sì gravi sciagure è l’indolenza.
al vil peso di loro alma ch’è forte.
Qual fortezza, ove il duolo è grande e giusto?
Giusto e grande lo fan tema e fiacchezza.
Ma qual duol Aristippo a te permette?
Maggior di sua dottrina è il nostro frale.
che piangi, più che i nostri, i mali tuoi
e che il tuo duolo è amore. Io nol conosco;
la fiamma in que’ sospiri; e giurerei
che Addolonimo solo è il tuo tormento.
(Misera!) E tanto costa a te l’amarlo?
ma il mio dover che il bel desio ne cela.
Affetto che desia, dover che tace,
ecco un doppio languir. Pietà mi fai.
Grazie al destin ch’è mio natio costume,
senza maestro, odiar ciò ch’è dolore;
e grazie al ciel ch’io non conosco amore.
Soffra Straton. M’oda Fenicia; e voi
Vincere i regni ad Alessandro è gloria;
Il vostro è mia conquista. A voi l’arbitrio
di un novo re già diedi. Una corona
pose in litigio i voti. In fra gli eguali
E vivente Stratone, in chi trovarlo?
perdonami, o signor, scema un gran fregio
saria gloria maggior ripor sul trono
A nimico sì altero e sì ostinato
lo scettro io renderei? Pospormi a Dario?
E distrutta dal ferro, arsa dal foco
voler Sidon, pria che Alessandro amico?
e sul trono altri sieda, ond’ei già cadde;
Deggia la figlia al mio favor...
Nulla a te vo’ dover. M’hai tolto il regno
non è in tua possa. Io ti son padre, o figlia;
io ti vieto accettar sposo e diadema.
I paterni comandi il tuo dovere,
in qualunque destin, rispetti e tema.
(Comando che al mio amore e giova e piace).
Troppo è ingiusto Straton, tu troppo saggia
Straton mi è padre. Il mio dover tu scorgi.
Sposo avrai che per senno ogni altro avanzi.
Dà e leva i regni a suo piacer fortuna;
né merita i miei voti un bene incerto.
Tien arbitrio sul vinto il vincitore.
Giuste leggi ei m’imponga e l’ubbidisco.
Saggio sposo e real, Fenicia, il credi,
non è facile ben né picciol dono.
Alessandro può offrirlo, io rifiutarlo.
Mal sopporta i rifiuti un re che impera.
che a te fia di grandezza e di riposo.
Tu puoi sceglier il re ma non lo sposo.
Si elegga il re, ch’è l’arduo impegno, e poi...
cinico fasto, a te venir ricusa.
E a lui vada Alessandro. Al grado mio
sa mentir, sa adular, fa lauta mensa,
veste porpora ed oro; e più civile
È fama che gran senno in lui si chiuda.
Fama spesso confonde il ver col falso.
saprai. Qui meco attendi. Ecco Aristippo.
Grande, invitto, magnanimo Alessandro,
di essergli figlio, al cui valore il mondo
che manchino più mondi a’ suoi trionfi,
che della scola cirenaica è padre.
ma quel volto in mirar, degno d’impero,
trovo or la fama assai minor del vero.
Mele ha sul labbro. (Ad Efestione)
grato giunge al mio aspetto; e a che sen viene?
Per dare a te ciò di che abbondo e insieme
per ricever da te ciò di che manco.
Che dar può a lui filosofo mendico?
Ciò che non può turba servile e ignara.
Ond’è che il saggio all’opulento, e questo
conosce l’uno e l’altro nol conosce.
Pochi cercan saper, molti ricchezza.
Pochi i medici son, molti gl’infermi.
Qual frutto a te recò studio e dottrina?
Trattar con tutti e non temer di alcuno.
Mostrami com’io possa esser beato.
Egualmente sopporta il bene e il male.
Vorrei, più che temuto, esser amato.
Esercita il favor, più che la forza.
Io non punisco alcun, se non irato.
Irato tu punisci; io non mi adiro.
ti caricasse di villane ingiurie?
In possanza di lui sarebbe il dirle
Qual divario è tra il dotto e l’ignorante?
Mandagli a estranea gente e lo vedrai.
Filosofia tu ostenti e non l’osservi.
Laide fu mia, non io di Laide; e a noi
Viver con tanto lusso a te sconviene.
Con più lusso del mio vive Alessandro.
Sii giusto; o lui condanna o me anco assolvi.
Orsù, nella mia corte abbi soggiorno;
e qual più t’è in piacer, grazia a me chiedi.
Nulla al saggio mancar più volte intesi.
S’uopo or n’hai tu, come sei saggio? E s’uopo
Ecco, o gran re, che nulla manca al saggio.
vedrai farmi, o signor, de’ doni tui.
L’oro a me serve; ed io non servo a lui.
suoi detti e non sue vesti. Andiamo a Crate.
Al più saggio di lor vo’ dare il regno
che allor sariano i popoli beati,
quando avesser filosofi regnanti
Ben può regger altrui chi sé ben regge.
e il più saggio a Sidon darà la legge.
Ciò che piace al mio re, piaccia a me ancora. (Vede Ipparchia venir di lontano)
Occhi miei, che scorgete? Ipparchia è quella,
di Marona in Sidon, di Tracia in Asia?
di terra in terra errar mi fa che amore.
de’ tuoi rigori e a me pietosa...
da speranza o desio, fosse il mio voto,
non avrei della patria, ove per sangue,
viver lieta io potea, lasciati gli agi.
Altro e più degno amore è sprone a’ passi.
Misero io non sapea tutti i miei mali.
Scoprimi ’l gran rival. Fa’ che il suo merto
spaventi le mie brame o le confonda.
(Del mio affetto una parte a lui si asconda).
Ei m’instruì sin da’ primi anni in Tebe.
Vaga di più saper, qui lo ricerco.
filosofia non ti conviene, o cara.
Mal giudica del lume occhio ch’è cieco.
Se offender non mi vuoi, Crate rispetta.
Soffri che del mio amore almen ti parli.
No, che dal ciel natio, sola ed errante,
dogmi di saggio e non follie di amante.
Amo in Crate ciò ch’altri abborre e sprezza.
Il sordido vestito, il genio austero;
e in quella sua rozza figura e vile,
Ben tosto il rivedrò. Fiero mi sgridi,
nulla mi staccherà più dal suo fianco.
Farà mia tolleranza in lui pietate.
Viver voglio e morir ma sol con Crate,
Dove mai?... Là star voglio. Apri quell’uscio.
Stanno anche gli orsi, ove star denno i saggi.
Picciola stanza! (Apre l’uscio del serraglio)
a Diogene una botte, ella a me basta.
(Egli così risparmierà l’affitto).
Antistene, hai ragion. Bacio i tuoi detti. (Crate legge)
Tal nome, qual mestier. Sempre mordete.
Ventre digiun poco il sapere apprezza.
«O di senno o di laccio uom si provegga. (Legge)
Meglio è un presto morir che un viver folle».
Se fosse ver, morir dovria gran gente.
«Faccia di un vil giumento un buon destriero,
chi grave peso ad uomo inetto appoggia».
Ed in camaleonte un bue trasformi,
chi vuol tener senza mangiar gli schiavi.
«Chi saggio esser desia, cerchi esser buono.
Mai con malvagità vi fu sapere».
E a chi cerca bontà, come la insegni?
«Imparar vuoi bontà? Quanto di male
entrò nell’alma tua, pria disimpara;
disponti a tollerar fatica e stento,
a fuggir della vita le lusinghe,
a nausear»... Ah, Nilo, ecco lo scoglio.
«A nausear piaceri effemminati».
Una femmina appunto a noi qui viene.
Una femmina? Nilo, serra, serra.
E che vuol? Dille che parta,
mi tolsi a Tracia e in Asia venni.
da Marona in Sidon per rivederti.
Orben. Vedimi e va’. Già m’hai veduto. (Si leva e si affaccia all’uscio e poi vuol serrarlo)
Ferma. Per rivederti e farti mio.
L’etiope imbianchi. Io tuo? Crate è di Crate. (Prende il libro)
«La bella è rischio e la deforme è pena».
Delle mogli ei favella. Udisti? Or vanne. (Esce dal serraglio per discacciarla)
Tu m’insegnasti a tollerar. Percuoti.
Tollera dunque il mio rifiuto e parti.
Posso tutto soffrir, fuorché il lasciarti.
Guardati Ipparchia. Al can si arriccia il pelo.
che, s’egli è un ben, comunicar mel dei.
Da me apprese a ben dir. Promisi a’ tuoi
di non udirti; e temo il mio malanno.
Di chi temi? De’ miei? Lontani sono.
Non lascio d’esser uom per esser saggio.
Sento anch’io... (Crate, a segno). O vanne o vado.
Ch’io vada? Vieni. Te n’andrai? Ti seguo.
Qui non mi seguirai. Questo è il mio albergo.
Io vi capisco appena. Entra, se puoi. (Entra nel serraglio e ne chiude l’uscio)
Crate, almeno... Oh fierezza! Almeno, o Crate...
Permetti... Andrò, crudel; ma poiché tutta (Va da una parte e dall’altra del serraglio e poi all’uscio e Crate lo serra ad essa in faccia)
di vincerti la speme a me vien tolta,
l’amor mio, che qui resta, almeno ascolta.
Veggiam. Lodato il ciel. Su questa soglia (Apre l’uscio ed esce del serraglio)
Quegli? Al mio posto e al libro mio ritorno. (Entra di novo)
lo può irritar. Dal rischio mio mi cavo.
Pazzo è padrone. Abbia cervel lo schiavo. (Si parte)
Alessandro a te viene, il tuo sovrano.
Con Antistene io sono, il mio maestro.
Non lo farei, se fossi un pesce; e meno
E chi sei tu che al giunger di Alessandro
Dimmi, sei cosa buona o sei malvagia?
Mi pregio di bontà, più che di grado.
E se buona sei tu, perché temerti?
Perché può a suo voler farti morire.
lieve morso, un aculeo, una cicuta
fece altrui, può a me far ciò che minacci.
E può darti ricchezze, onori e gradi.
Cercai d’esser qual son, per non averne.
Io patria più non ho. Tu l’hai distrutta.
Il tuo viver meschin mi fa pietade.
come n’ho la bevanda, averne il cibo.
Mira. Olive, lupini e questi tozzi
di muffo pan fan la mia mensa e lauta.
Orsù. Vo’ che per te sieno anche i vasti
son come i fichi di selvagge piante
che servono di pasto a’ corbi e a’ nibbi.
Di tanti, che ho d’intorno al regio fianco,
Oh, se per poco il tuo destin cangiasse!
molti ne conta il re, pochi Alessandro.
Cinica libertà nulla ti offenda. (Ad Efestione)
Il tuo è comando o prego?
Sì, resterò. Senza timor né spene
osserverò, quasi da rocca eccelsa,
le sirti ingorde, le nembose stelle,
i vortici, i naufragi e le procelle.
In vario genio, compiacente e altero,
Puoi farne anche il più pazzo.
Molti cangiar vid’io sorte e costumi,
acquistar dignitadi e perder senno.
la fama mi recò nuove sciagure.
Le nozze disuguali. Sposa
a filosofo vil figlia reale?
Vil chi ha saper? Vil chi Alessandro elegge?
Con tal legge al tuo sangue io rendo un soglio,
di cui indegno ti fece odio ed orgoglio.
Ben taceste, ire mie. Sul labbro uscendo,
potevate tradir la mia vendetta.
che diedi a te, quando occupasti ’l trono,
or non mi assolve il tuo destino avverso.
Il tuo re la tua patria a te confida
e da te spera libertà e salvezza.
Addolonimo, hai cor per sì grande opra?
Giusta ella sia, cor per trattarla io t’offro.
né la gloria minor né la mercede.
Se mi move ragion, premio non cerco.
due gran beni otterrai, Fenicia e il regno.
faria ad altri lusinga, a me fa tema.
La mia innocenza o la mia fé si tenta.
Rispetto entrambe. Al tuo valor sol mostro
Alessandro svenar. Nel tuo giardino
solo e sovente in sul meriggio ei viene
a cercar le fresch’ombre e i dolci sonni.
Là con man forte, inosservato, un colpo
osa a comun riposo, a tua grandezza.
Così misero io son, sì vil son io,
di sì orribil misfatto empio ministro?
Misfatto il tor di vita un rio tiranno?
Non del tuo re? Non di Fenicia? Attendi;
la misera vedrai sposa d’uom vile,
ma se a questi e più gravi orridi mali
non v’è, fuor che la colpa, altro riparo,
e del resto la cura al ciel si lasci.
No, si lasci a Straton. Tu ne sarai
Già sai solo il mio cor. Vanne. Tradisci
il padre di Fenicia; io vi consento.
Forse a chi par gran colpa una vendetta,
parrà nobile impresa un tradimento.
Quale strano imeneo da legge iniqua
Vedi chi può troncarne i lacci indegni.
le tue nozze e il mio regno.
Quando è virtude, anche il rifiuto è merto.
Seco resta. Il suo bene a lui consiglia.
O ceda e a me sia erede e a te sia sposo;
o nimica col padre abbia la figlia.
E fia vero, Addolonimo? Esser posso
E la man tu ritiri e mi rifiuti?
Che tu mi amassi invan mi lusingai;
ahi, quanto, il dirò pur, quanto ti amai!
Che? Mi vuoi tua nimica? Udisti ’l padre;
Vuoi che di Crate io sia? Che di Aristippo?
Tu per me nulla puoi? Qual dura legge
ti si prescrive? Ah, se mi amassi, ingrato...
Fenicia, non mi dir che sventurato.
non intende i miei mali o non gli crede.
Li credo e n’ho pietà, che se nel duolo
compagna non ti son, son tua germana.
Due pazzi in grado ugual, benché diversi.
E Addolonimo, oh dio! che al fatal rischio
involarmi potria, lo soffre e tace.
Sin qui del tuo sapere, ora in te lodo
(I filosofi ancor lodan le belle).
Eh, sii meco qual prima. In me dell’alma,
e non già del sembiante, i pregi onora.
che quanto per lei feci essa rammenti.
a’ tuoi lumi sol dessi e a’ tuoi precetti.
Grata quindi la spero all’opra mia.
(L’interesse studiò filosofia).
Ingrata ad Aristippo esser potrei?
la mia felicità, di’, la faresti?
In bocca di costui sta la lusinga. (A Fenicia)
render qualche mercé? Pronta son io.
Basta così. Me di Sidone al regno
chiama il grande Alessandro.
L’ascolta la virtù ma non il fasto.
Le grandezze detesti e poi le cerchi?
Non le cerco; ma offerte, io non le abborro.
Il saggio di Cirene aspira a un trono?
Bramo il ben de’ vassalli, anzi che il mio.
(Senti virtù mentita e falso zelo).
Del novo re la sposa in te si vuole.
d’imeneo non accende altri che amore.
E spesso anche ragion. Me tu non ami?
che di fuggire amor sempre mi disse.
Dissi di nol cercar, non di fuggirlo.
Non è amor che mi move; è sol desire
di far te meco in trono ancor più saggia.
Teco saggia nel trono? Un re marito
che amor per me non ha? Sarei ben folle.
Ma che? Dottrina ogni grandezza adegua.
Che barbaro son io ma il son di cielo,
non di costumi. Africa porta i mostri
ma i filosofi ancora; e in me tu il vedi.
con la filosofia te vuol la sorte,
io ne ho piacer. Così regnar potrai,
se con Fenicia, no, non regnerai.
non all’orgoglio suo grata mi dissi.
e avrò dal sua favor Fenicia e soglio,
Alessandro non temo; e te non voglio.
A richiesta sì ardita arsi di sdegno.
Quale mi udì Aristippo, ei pure udrammi.
E qual frutto ne speri? Io no. Se avessi
quello ch’hai tu nel cor...
Tu lo puoi far. Anzi che sdegno e pena,
Sì sì, lusinga entrambi, entrambi alletta,
tanto che in lor possa far breccia amore.
Questi saggi orgogliosi allor vedrai
languir peggio d’ogni altro; e perché poi
non han d’amor gentil l’arte maestra,
e il favor di Alessandro; e allor darassi
al trono altro regnante, a te altro sposo.
Gentil sagacità! Così far voglio.
se Addolonimo piace agli occhi tuoi,
d’esser lieta in amor sperar tu puoi.
la maggior di mie pene. Oh me felice,
se per conforto almen del dolor mio
potessi dir che son tua pena anch’io!
Vanne, Calandra, va’. Perduto io sono,
se avvien che il mio padron teco mi vegga.
Non già di lui, del legno suo pavento.
Per pratica fatal, so quanto ei pesa.
Il vederti con me saria tua colpa?
Vanne, ten prego. Ogni ombra a me par Crate.
Eh, non temer. S’anche giungesse, io credo
che al sesso di Calandra avria rispetto.
fa la sua antipatia, fa la sua bile.
Crate è un brutale, un indiscreto, un vile.
E che sa dire e che può dir di noi?
Dirle non vo’. Dice che siete
lusinghiere, mendaci e ingannatrici.
Se belle, vanità v’empie ed orgoglio;
se brutte... Quel ch’ei dice io dir non deggio.
che l’incostanza il vostro cor governa,
che guida l’interesse i vostri affetti.
Taci. Uom ciò dir puote? Or vanne.
Fidati di costoro. A certe occhiate
tenere ed infocate, onde mirarmi
spesso in giardino ei suole, io lo credea
del nostro sesso adorator gentile.
Crate gentile? Oibò. Le donne egli ama,
come le ama ogni altr’uom; ma in apparenza
ne parla mal. Chi vuol comprar disprezza.
Nilo, più che di Crate, è servo e schiavo.
innocenza, virtù, senno e modestia.
Senti, Crate è una bestia. Un uom tu sei.
E teco ho simpatia. Nilo, m’intendi?
E a genio tu mi vai ma...
di platonico amore, amar Calandra?
Potrei; ma dove è fame, amor non regna.
Avrai, se meco vieni, onde cibarti.
Verrei; ma Crate e il suo bastone io temo.
ha il suo debole anch’esso. In Aristippo
ciò che prevale è il fasto.
Vedi che volto, onde sien presi i cori!
Il primo io coglierò, qual pesce all’esca,
cinto in mirarlo di corona e di ostro.
E a te non mancheran vezzi e lusinghe
per trar l’altro alla rete.
Due soli di nostr’alma esser gli affetti,
aspro il secondo e da fuggirsi ognora.
A lei tu ciò insegnasti, a me quest’alma.
Per fuggir dunque il duol, tormi non deggio
del tuo disprezzo al torto?
All’ingiuria compenso, al duol riparo.
(Chi l’insidie non vede, in esse inciampa).
Di Alessandro al favor non fai ricorso?
No, che pria del suo voto il tuo vorrei.
negar, per ceder poi con più decoro.
Fan così le plebee. Del mio rifiuto
Onoro in Aristippo il mio maestro;
di uno sposo regal, quale a me dessi,
vorrei farmi un’idea. Saprebbe il core
allor, dagli occhi miei, se un sol l’oggetto
esser può del rispetto e dell’amore.
amar potrai lo sposo ed il regnante.
Ma per amarlo ei pria dee farmi amante.
Non intendo? Un filosofo? Io l’intendo,
Vuol dir che tu cotesti abiti spogli
Cerchi vero piacer da falso aspetto?
Senza di questa legge io non ti accetto.
Ma come farlo? Ov’è diadema e manto?
Rimembranze funeste! Ho quei del padre.
Ove ti piaccia, a un cenno mio fien pronti.
Sì, vanne, amata Argene; e tu gli attendi
nel vicino giardin. Poi verrò anch’io.
Colà gli avrai. (Questi è già colto). Addio. (Ad Aristippo)
Di Alessandro nel cor ma non nel mio.
Addio, can meliteo, can signorile.
Chi più cane è di te che sei mastino?
(Gentil scena ad udir qui m’apparecchio).
purpurea vesta, è di tua madre o tua?
Vai tu nudo o vestito? Hai tu su l’ossa
pelle? O non l’hai? Tanto sei straccio e smunto.
Vesta certo è di donna intorno ad uomo.
se t’esce la pazzia; ma l’hai nel capo.
(Questi son quei che saggi il mondo appella).
Se un caval ben bardato avvien ch’io miri,
un asino indiscreto, io penso a Crate.
Grasso abbastanza è l’animal. Ben tosto
Oh figura gentil! Tu star dovresti
ne’ seminati a spaventar gli uccelli.
Cibo appunto da cane o da giumento.
S’io volessi adular, come Aristippo,
oro in tasca anch’io avrei, fagiani a mensa.
Nero avvoltor, ti pasci in sucidume.
Peggior dell’avvoltore è il lusinghiero;
quello i morti sol rode e questo i vivi.
altercando così. Vergogna, o saggi.
Saggio colui? Secondo i pazzi.
Chi ottien biasmo da’ tristi, è in lode a’ buoni.
Uomo ancor non intesi a te dar lode.
praticar non sapesti un uom da bene.
che buon boccon saria per li tuoi denti!
che gran pasto saria per la tua fame!
ma non entri in pollaio questa volta.
(Mai non la finirian). Parti, Aristippo.
Ma co’ pazzi a garrir non ci è vantaggio;
e chi è il primo a tacer, sempre è il più saggio.
di Aristippo le ingiurie ascolti e soffri?
Ciò che il foco al metal, fan l’onte al saggio.
Euticrate, Nicodromo e tanti altri
mi fecer peggio. E Crate ognor fu Crate.
con usura ben grande a lui rendesti.
perché fu punto il tuo gentil maestro.
in pro del suo saper la sua bellezza.
quella filosofia ch’entra per gli occhi.
e in Aristippo i suoi difetti io veggo.
chi la luce del sole ancor non vide.
(Bella è Fenicia). E quando il sol poi vede?
Più la stella non guarda e lui sol mira.
(Bel colpo! se al nimico e a sue dottrine
(Già cade). Povertà meglio che lusso,
modestia più che fasto amo nel saggio.
Oh fosse Crate il mio maestro! Oh il fosse!
(Colpo più bel, se l’innamoro!) In Crate,
che di amabil ritrovi e che di buono?
aria grave, cor grande e ciò che degno
di Fenicia può farlo e più del regno.
Di regno non parliam. Fenicia sola
vincer mi può. Sì, o bella. In certi istanti
a’ filosofi ancora amor comanda.
rozza filosofia gentil si rende.
Crate, se vuoi, fia tuo maestro. (È bella).
E se vuol compiacermi, ei fia mio sposo.
Compiacerti? (Oh begli occhi!) Or di’, che vuoi?
Cotesti tuoi laceri ammanti e troppo
di Fenicia all’amor fann’onta e scorno.
Veder vorresti un Ganimede in Crate?
No; ma più colto agli occhi altrui lo bramo
Io questo pallio e questo sacco apprezzo...
No, cara. (È bella assai!) No, ma conviene
alla cinica setta il vestir mio.
Non parlo più. Cinica setta, addio. (In atto di partire)
Ferma. (Avvampo d’amor). Di me, che il mondo,
Dove Diogene parla, io non rispondo. (Di novo in atto di partire)
Deh, non partir. (Son colto). Onde poss’io
altri abiti trovar? Povero sono.
Qui trattienti per poco e per mio cenno
tosto gli avrai, poi con Fenicia il trono.
Abbia il trono Aristippo. Io te sol cerco.
E il superbo rivale, il vano amante
vedrà Crate mio sposo o suo regnante.
(Ipparchia, ardire). (Se gli accosta)
Un filosofo? Eh, sì. Già in questo core
della filosofia trionfa amore.
Grazie dunque ad amor. Ipparchia infine...
O in fine o in mezzo, e che vuoi tu da Crate?
Ch’ei mi lasci sperar, poiché una volta...
Che volta? Che sperar? Riedi a Marona.
o il disse amor per te, che nel tuo core
Taci. (Mi udì costei). Non m’intendesti.
Dissi che la filo... che amor... Ma vanne.
Conto non rendo a te di quel ch’io dissi.
di tanti passi miei; rendimi conto
delle lagrime mie, de’ miei sospiri.
se tanto sozzo e tanto vil son io).
Scacciata dal tuo sdegno, a te ritorno;
dal tuo core abborrita, ancor ti adoro.
(Tutte mi aman le belle). Orsù, dicesti?
Io di tue frenesie non rendo conto.
Perché que’ tronchi accenti? Alla mia vista
Che mai disse di Argene? Ah, Crate in Crate
più non ritrovo; e sempre Ipparchia, oh dio,
recasti ad Alessandro; e in tua mercede
non ho un obolo pur. Del mio giardino
Non mi duol povertà, se non per gli altri.
che di perder sol temo, è l’innocenza.
Questa nel mio silenzio era in periglio,
se nol vieta, lo fa. Viene Alessandro.
che tu già mi appellasti, esser desio.
guarda anche il re bassi e sublimi oggetti.
(Ha in semplice vestito e in vile impiego
nobile aspetto e ragionar gentile).
finì; principiò in lui stento e disagio.
ch’è menzogna il negarlo e pare il dirlo.
non potea nella reggia; e comparirvi
Così lontano dalla turba errante,
vissi a me stesso; e ciò che rado ottiensi
o non mai, dov’è fasto, invidia e lusso,
conservai libertà, pace, innocenza.
Come sostieni tua fortuna avversa?
con cui non so se sosterrei l’amica.
Né in te nasce desio del ben perduto?
Nel mio angusto orticel trovo il mio regno.
Con aver quanto basta, ho quanto chiedo;
e in nulla posseder, tutto possiedo.
Oh te felice! Esser vorrei te solo,
Spera sorte miglior. Degno ne sei.
Se il pensier non m’inganna e l’apparenza,
quel saggio in lui ritrovo...
mi crede il re; mel porge; e poi sì ratto
sen va che invano io fo seguirne i passi.
Riponilo in mia stanza. Ad altro tempo...
No, mio signor, che può da breve indugio
o a te nascer periglio o altrui sciagura.
Che sai qual vi si chiuda arcano o voto?
Chi è re nulla trascuri e tutto ascolti.
Ben consiglia il tuo zelo. Aprilo e leggi.
«Re, nel giardino, ove hai di andar per uso,
guardati di por piede. Ivi a tua vita
di chi, fuor che salvarti, altro non chiede».
E insidie a re sì giusto? Or che far pensi?
Sorprenderne l’autor, dov’ei le trama.
No, che questo faria l’empio più cauto;
e il mostrarne temenza a me sconviene.
Solo vi andrò; tu sarai meco; venga
con noi Straton. Cade il mio dubbio in lui.
Conosco il fiero genio e l’odio antico;
e di rado si placa un gran nimico.
Saggia hai la mente e generoso il core.
ma chi sa poi se troverò il fedele?
Nol permettan gli dii; che sfortunato
giudice al fallo e al beneficio ingrato. (Si parte)
Nelle stanze a vestirti incominciasti.
Là incominciai; qui finir voglio. Nilo.
Qui vestirsi vuol Crate? A ciel scoperto?
Peggio in Tebe ei facea, peggio in Corinto.
Non bada il saggio al «che dirassi». Nilo. (Voltandosi, vede Nilo che parla a Calandra)
Ah, sta in cervel. Ti sedurran le donne.
(Lodato il ciel. Questo è il mio gran nimico). (Ricevendo il bastone dalle mani di Crate)
Cenci? È il cinico pallio. (Ed io lo lascio?
Non puoi? Potrà Aristippo. A me qui venga. (Ad un paggio che finge di partire)
Ferma. Oh pallio onorato! Ecco ti bacio;
e ti chieggo perdon, s’io ti abbandono. (Bacia il suo pallio e lo dà a Nilo)
Così. Da generoso. Viva Crate.
Sì, ma di lui qualche memoria io voglio. (Vuol cavar qualche cosa dal sacco)
Eh, che far vuoi? Cibo miglior ti aspetta.
Prendi. Così la fame tua satolla. (Dà il sacco a Nilo)
Sguazza, Nilo. Tre rape e una cipolla.
al tuo saper lacera veste e vile.
Questa è la toga mia filosofale.
(E la posso lasciar?) La toga io voglio.
Sì, tu l’avrai ma non Fenicia. Andiamo. (In atto di partire)
Pian. Prendi questa ancor. Godete, o belle. (Dà la sua toga a Nilo)
Darà per una donna anche la pelle.
Questa sì ti conviene. Oh bello! Oh bello! (Mettono a Crate la prima veste)
E più con questa ancor. Va’. Sembri Amore. (Li mettono la sopraveste)
Quel cencio al suol. Questo è di te più degno. (Le dà un berrettone ch’egli si mette a sproposito)
Dal filosofo al matto è un breve passo.
Passeggia un poco. Bene! Oh che bel garbo!
Crate, ascolta. Civil! Vago! Leggiadro! (Crate, accostandosi ad Argene, fa molti inchini)
(De’ finti saggi ’l senno è questo). Ammiro
la tua bella avvenenza. Oh quanto aggiunge
l’esterno culto alla beltà dell’alma!
Quanto pregio al saper dà gentilezza!
Tal molto più si apprezza illustre pianta,
se di frondi e di fiori ella si adorna.
Godi, sì. N’hai ragion. Dirsi felice
può ben Fenicia. Oh dio! S’io men l’amassi
la sua fortuna ed il piacer di lei,
te lo confesso, io sua rival sarei.
Parti di qua. Colui ben disse; i servi
tutti sono malvagi ed anche i buoni.
Ma disse meglio ancor circa i padroni. (Si parte Nilo con gli abiti di Crate)
(E vien da re. Superba idea di fasto!)
(E colto il trovo. Oh cecità di senso!)
(Oh Socrate il vedesse! In Anticira
lo mandarebbe a ricovrare il senno).
(Oh Antistene qui fosse! Un laccio al folle
consigliar ben potrebbe o una catena).
Posso chieder al re dov’è Aristippo?
Sapria dirmi il zerbin dove andò Crate?
la cirenaica setta ha un gran maestro.
ha la cinica scuola un bel seguace.
Negli antipodi forse o nella luna?
Qui avrò il mio regno e qui Fenicia ancora.
se ti manca il suo amor, molto ti manca.
Eccoli. Or tu gli ascolta; e poi decidi. (Ad Alessandro)
Sembra ossequio al superbo anche lo scherno.
Orso, che balli, ugual corteggio ha spesso.
Se da aquila vuol far, si acceca il gufo.
E se vuol far da bue, creppa il ranocchio.
Qual garrir? Regio manto? (Ad Aristippo) Estrana pompa? (A Crate)
Se chiedi a lui chi l’adornò, fu il senso. (Ad Alessandro)
Vuoi tu saper chi re lo fece? Il fasto. (Ad Alessandro)
Colpa di Crate è di Fenicia il bello.
Chi discolpa il suo fral, già lo confessa.
Il voto di Alessandro è mia difesa.
Maturarsi ei dovea. Chi lo previene
Non più. Crate non è, non è Aristippo
quel saggio che si vuol. Tutto è impostura
o maschera del vizio il lor sapere.
Oggi avrai teco un maggior savio in trono. (A Fenicia. Si parte Alessandro col seguito di Aristippo)
(Se Addolonimo avrò, felice io sono).
viva insidia è la donna? Io, come tale,
lusingarti potei; ma tu, qual saggio,
non dovevi dar fede a mie lusinghe.
(Questo di più). La tua bellezza sola...
Taci. Per tutto il bel spender non dei
pur una sol filosofal parola.
Ricorri ad Alessandro. Egli qui regna;
e avrai dal suo favor Fenicia e soglio.
Poco il gaudio durò delle tue nozze.
Quanto il corteggio tuo, quanto il tuo regno.
Odi; come in teatro, oggi in Sidone,
rappresentammo il personaggio e il grado.
La favola finì. Plauda chi vuole.
Diciam noi pur ciò ch’altri suol; gli errori
della favola son, non degli attori.
Eh, non ci lusinghiam. Nostro è il difetto.
Convien dissimularlo e far buon viso.
Tu però mangi i guanti. È fame? O sdegno?
Sdegno? Perché? Perché Fenicia è ingrata?
Perdono in lei ciò ch’è natura ed uso.
Sputommi un altro in faccia; e il presi a gioco.
Tanto finger non so. Me più non veggia
Io no. Tra il male e il ben meglio discerno.
rider del riso e qui schernir lo scherno.
Tu dal piacer, tu da l’amor sedotto
sino a vestir spoglie sì vili e strane?
del tuo austero rigor trionfa e gode.
ad un saggio rinfaccia i falli suoi.
Ma qual saggio? Ove il senno? Il pallio? Il sacco?
Cinica povertade, io ti ho tradita.
Filosofiche leggi, io vi ho neglette.
Antistene, a’ tuoi dogmi ecco un ribelle.
Diogene, a’ tuoi esempi ecco un ingrato.
I frutti vostri, i vanti miei son questi.
Con Straton qui Alessandro. Il regio fianco
de’ suoi riposi or mal sicuro albergo,
cauto mi asconderò. S’uopo il richiegga,
all’innocente re diasi soccorso;
e non resti al mio core un fier rimorso. (Entra in un gabinetto di verdura)
(Sta sospeso Alessandro e, qual chi teme
di agguato, intorno si riguarda e tace.
Si turba. (Piano ad Alessandro)
(Core, a te non mancar, s’altri ti manca).
Re, non intendo. A me tu parli in guisa
che o il reo credi presente o tal lo fingi.
Noi siam qui soli. Efestion mi è fido.
ma un nimico ch’è re. Se giù del trono
ti potesse balzar forza e valore,
far saprei di quest’armi uso in tuo danno;
ma per alma real vile è l’inganno.
e ignora il traditor, lo teme in tutti.
se, qual angue entro siepe, altri si appiatti.
Eh, vanne. A regio petto (Stratone legge)
una forte difesa è un gran sospetto. (Efestione entra nel gabinetto)
(Scrisse il fellon; ma non osò nel foglio
por di Stratone il nome e il suo pur tacque).
mi è del par chi m’insidia e chi mi salva.
Il lasciarti in timor non è un salvarti.
Vieni, o malvagio, al tuo castigo. I numi
veglian, sire, a tuo pro. Torsi a’ miei lumi
l’empio volea. Tacito e chino il veggo.
Corro. L’afferro. Il traggo. Ei non resiste.
qualche sospir, non so se d’ira o duolo.
Addolonimo? Oh cieli! Il credo appena.
(A soffrir e a tacer l’alma dispongo).
qual non eri, mentir? Dunque in quel punto
innocenza e virtù, volgevi in mente
E allor che di tua sorte impietosito,
soglio di alzarti, a mia rovina e morte
meditavi di alzar braccio omicida;
dolce lusinga? Da qual rabbia ardente?
perché? Perché in quest’ora? Il tuo misfatto
È facile il pretesto al delinquente.
Altro dir non poss’io. Sono innocente.
(Si spaventa l’accusa in su quel labbro).
Ceppi e tormenti ’l mal guardato arcano
gli traggano dal cor, s’egli ancor tace.
Più non taccia Straton. Vedi, Alessandro,
di mia virtù se dubitasti a torto.
Il perfido è costui. Quella, ch’ei vanta
ragion sul regno, al suo livor sinora
scopo mi fece e oggetto. Or che il diadema
ti sfavilla sul crine, ei te lo insidia.
Ah, Stratone, Straton, non abusarti
Mi accusa. Fammi reo del tuo delitto.
Tra un uom vile ed un re, cerchi Alessandro
(Ti condanno a soffrir, povero core).
Falsa virtù più non mi abbaglia. Ingiusta
fu, Straton, la mia tema. Io te ne assolvo.
(S’io l’empio sia, voi lo sapete, o dei).
sarà un laccio il diadema, un palco il soglio. (Si parte)
Il mio solo tacer mi fa infelice.
No no, rompi ’l silenzio. In uom sì vile
qual fede avrà l’accusa? Ov’hai le prove?
In te sol sta il mio arcano. Io nulla temo...
E nol devi temer. Troppo rispetto
chi fu mio re, chi di Fenicia è padre.
Tacer dovevi. Io te l’avea prescritto.
Non tacer fu virtude. Ora è delitto.
Tra custodi Addolonimo?...
ma più misero ancor! Ti perdo adunque,
Quando esser mio potevi? Erano un prezzo
che più dolce ti parve, oh dio! morire,
di perfido e di reo? Pur tutto in pace,
ma tua morte è il maggior de’ mali miei.
è colpa nel mio cor, moro, il confesso
in questo di mia vita ultimo giorno,
moro reo di gran colpa. Altro delitto
fuor di questo non ho. La mia sciagura
Ah, se innocente sei, perché lo taci?
Me colpevol farei, te sfortunata.
Sfortunata son io nella tua morte.
Viver con l’odio tuo mi saria pena;
morir da te compianto è mio conforto.
Viver con l’odio mio? Salvati; e tutti
gli oltraggi di fortuna a te perdono.
Puoi perdonar, se parricida io sono?
ti uccido il genitor. Moro, se taccio.
In quali angustie, oh dei, metti ’l mio core?
V’ha chi ne ascolta. Altrove udrai
Or ti basti saper che due gran beni
la mia innocenza e l’amor mio.
Di questi mali è inevitabil l’uno.
Morrà il padre, se parlo, od io, se taccio.
Quanto un mastin, cui venga tolto un osso.
Per Fenicia era grande in lui l’amore.
Eh, Fenicia. Lo scherno è la sua rabbia.
Un filosofo, amore? Aman costoro
per lor capriccio e, come gli altri fanno,
per bellezza crudel pianger non sanno.
porgon suppliche umili; e que’ gran cori,
che son per vanità diamante e bronzo,
di una femmina al piè son vetro e cera.
perché dir mal di quelle e dell’amore?
le belle altri disprezza e quei favori
o non sa meritar. Altri le accusa,
perché appresso di lor sempre è infelice.
servitù, gentilezza e leggiadria,
più che filosofia piace al bel sesso.
E pur la bella Ipparchia arde per Crate.
vorrà forse parer filosofessa.
Non può vederla; ed or che in Grecia ei torna...
Schiavo di lui son io. Ma nel palazzo
mi asconderò. Là non verrà; e se viene
gli abiti suoi filosofali io renda,
anch’io vorrò che in libertà mi ponga.
uscir da un fiume e poi cader nel mare.
Io cerco Nilo. Egli ha il mio pallio; ed io
darei per lui quanto ha di donne il mondo.
Lo spogliasti però per una sola.
e al rimprovero aggiungi anche le busse.
Per trar me di tormento e te di noia,
dammi un rimedio, onde il mio amor sia vinto.
Eccone tre, la fame, il tempo e un laccio;
e l’ultimo di questi è il più sicuro.
A chi vive per te, morte consigli?
Di Fenicia un rifiuto amar potresti?
Anzi fassi mia speme il tuo rifiuto.
Né spense le tue fiamme il mio rigore?
rigore, anzi che fren, sprone è al desire.
(Costei val ben Fenicia). Attendi. Io riedo.
(Bisogna ch’io sia bel più che non credo). (Si parte)
qual amante parlai; so ch’è più forte
risponderò, come all’amante. Onoro
offerta sì gentil ma non l’accetto.
Crate nel cor d’Ipparchia è sempre Crate.
Anche quando egli è oggetto al comun riso?
Scherno d’altrui non toglie al bel suoi pregi.
Al bel? Laido e deforme ognuno il dice.
Sì, ma con gli occhi miei nessun lo guarda.
Come assolver potrai la sua fiacchezza?
Che? L’esser ingannato è forse colpa?
Più soggetto alle frodi è il più sincero.
Mia offesa e tua vergogna è un vil rivale.
Nol fa degno d’Ipparchia un cieco amore.
io ti credea. Se l’amor mio ti offende,
del destin, non di me, lagnar ti puoi.
Sento, più che i miei torti, i rischi tuoi. (Efestione partendo s’incontra in Crate che lo ferma)
Qui di mia libertà conferma il dono. (A Crate)
Libero io sono. (Saltando per allegrezza)
Odi; me tuo rival non fa il mio amore
ma quel d’Ipparchia. Essa mi vuol. Tu puoi
trarmi da un tale intrico. Parla. Prega.
Di’ tutto il mal di me. Sarò contento,
Bel complimento! (Ad Ipparchia)
Udisti? È tempo omai che a me ti doni,
se non la mia costanza, il suo disprezzo.
Non si cura costanza in chi non s’ama;
e da chi s’ama, anche il disprezzo è caro.
il favor di Alessandro amar ti giovi.
Io quel favore e te, che il merti, onoro.
di Alessandro lo scherno odiar dovresti.
Della sciagura tua tu il reo non sei.
A tuo dispetto ancor ti vuol colei. (A Crate)
Lubrici son della fortuna i doni.
Miseria e povertà sol darti io posso.
Condimento di lor fia il viver teco.
(Adesso si può dir che amore è cieco).
La vuoi finir? Di’ che sarai geloso. (A Crate)
Di te sarò geloso. Or che rispondi?
Argomento di amore è gelosia.
Vincer la vuoi? Di’ ch’ella andrà in carrozza. (Ad Efestione)
Agi, pompe e delizie avrai, mia sposa.
Superba esser potrei ma non felice.
Dal mio amor, per soffrirli, avrò soccorso.
Ella ti vuol, s’anche tu fossi un orso. (A Crate)
Un legno, un pallio, un sacco è quanto ho al mondo.
Son questi i cocchi miei, (Mostra le gambe) questi i miei servi. (Mostra le braccia)
Mio tetto è il cielo. È letto mio la terra;
e un continuo digiun fa la mia mensa.
Or di’, per viver meco hai tu coraggio?
Sposo e nozze vorrai di simil fatta?
Ah! Per Giunon, se tu la fai, sei matta. (Ad Ipparchia)
che miseria, disagio e povertate...
Efestion... perdona. Io voglio Crate.
Sia rozzo, sia incivil. Crate amar deggio.
(Io lo sapea. Si appiglian sempre al peggio).
Adagio, Efestion. Tanto non dissi.
Brutto e vil? Tale ei sia. Voglio il mio Crate.
(Moro di amor). Tu senti. Essa mi vuole. (Ad Efestione)
Che posso far? Non più. Te voglio anch’io.
Cieli! Sperar mi lice un sì gran bene?
Filosoficamente io te ne accerto. (Si porgono le destre)
Oh destra sospirata! Oh amabil dono!
Così tu sei mia moglie, io tuo marito.
(Filosoficamente egli è impazzito). (Si parte)
Efestione, a Giuno e ad Imeneo,
quale a Nettun chi già dal mar salvossi,
grato esser dei. Da un gran periglio uscisti.
veggo il cinico dente e veggo il morso;
ma quel non temo e questo io sprezzo. Altera
vada colei del torto mio. Faranno,
e il pentimento suo, la mia vendetta. (Si parte)
degli uomini la vista, in corte io trovo?
Qui forse ne vedrò, meno che altrove.
di regnante e di servo una chimera.
di satiro e di sposo un ircocervo.
Un regno io non volea, volea una sposa.
Fu di Creta o di Chio quel che bevesti?
Per l’Ercole di Tebe a te lo giuro...
Altra donna non v’è? D’Ipparchia io parlo.
Ipparchia sposa tua? Crate marito?
Dimmi, sempre nimici esser vorremo?
o filosofi siamo? Attenderemo
con le tazze alla man noi metta in pace?
No, per Mercurio. Prendi. Io primo offeso,
di Crate all’amistà rendo la mia. (Si porgono la mano)
Va’. Di me sei migliore. Io dello sdegno
e dell’amor fra noi l’autor tu sei.
Arrida nella moglie a te la sorte.
E a te conceda il ciel ventura in corte.
Sì, per veder qual saggio innalzi al soglio.
mi mostrò la mia sorte e l’altrui fede.
Vassalla di Alessandro è la fortuna.
Non ha, fuorch’il silenzio, altra difesa.
Al premio si nasconde un sì gran merto? (In atto pensoso)
che del mondo all’impero il ciel destina
e che regger ne può col senno il peso;
pur mi ascolta. La colpa e l’innocenza
cambiano ben sovente abito e volto.
fiera tigre si cela o lupo ingordo.
le colombe condanna e i corbi assolve.
Credimi. Scaltra frode o ria sciagura
spesso fa gl’innocenti e spesso i rei.
saggio saresti e già saresti in trono.
mi proposi un piacer. Dacché il perdei,
nella mia pace un piacer novo io godo.
Solo ciò ch’è piacer, piace al mio core.
Re, desio di giovarti a te mi guida.
Lodevole desio, cui molto io deggio.
è infamia in cor di re la sconoscenza?
Più che in altrui, che spesso in uom privato
ma il re sol per sua colpa esser può ingrato.
A chi di morte ti togliesse al rischio,
non fora al beneficio egual mercede.
Ben ragioni, o signor; ma assai diverso
Poc’anzi in mortal rischio eran tuoi giorni.
Già correvi a perir. Ti arresta un foglio
su l’orlo al precipizio; e tu in mercede
fai chi ti scrisse ora languir fra’ ceppi;
e in breve ancora a lui minacci ’l ferro.
lo ferro? Io ceppi a chi mi scrisse? Oh noto
Io ti rendo ragion di sua innocenza.
ricusa al ver, chi all’apparenza crede.
Non si ascose il fellon per darmi morte?
Morte a te dar volea chi scrisse il foglio?
Sì. Addolonimo scrisse. Il foglio impresso
sta di sue note. Egli innocente e fido...
non si lascia qual reo stringer fra’ ceppi.
Del suo silenzio la ragion non vedi;
ma vedi l’opra, onde sei salvo. In cosa
Se il pensi, qual già ingrato, ingiusto or sei.
Olà. Venga Addolonimo. Fenicia,
che tu ingannata sia, non che m’inganni.
Forse, più che ragion, parla in te amore.
Sempre giunge opportuno un fido amico.
Addolonimo è reo. Nel suo persiste
sua colpa e sua innocenza. Io qui l’attendo.
(Fra tema e speme il cor sospendo).
Taccia Fenicia. Tu rispondi e avverti
In chi ’l labbro è bugiardo, iniquo è il core.
non lievi arcani, a te son noti?
Ma come e donde e quanto sai mi svela.
Più di quel che già sai, nulla dir posso.
Morte ti minacciava. Era vicina
l’ora, il loco opportuno e certo il colpo.
ne sento orror. Cerco impedirla e scrivo.
Per uomo ignoto invio la carta. Al varco
volger ti miro sconsigliato il piede.
Tremo per te. Credo smarrito il foglio.
Mi ascondo a tua salvezza. Ivi sorpreso
mi pensi traditor. Taccio. Il sopporto;
e la sola innocenza è mio conforto.
Qual dubbio a te più resta? Il ver diss’io.
Maraviglia, pietà, rimorso, orrore,
ira, dolor, tutto mi assale a un punto.
Come umano giudizio erra sovente,
male credendo il ben, reo l’innocente!
perché tacer? Perché celarti al premio?
Premio non cerca alma che adempie il giusto.
Perché esporti ad infamia, a ceppi, a morte?
Ciò che teme un cor retto, è sol la colpa.
Cresca il mio disinganno e la tua fede.
legge, ten prego, il mio dovere assolvi.
perdi dell’opra. Io sono in rischio ancora.
Alla vita di un re vegliano i numi;
e il ciel, che ti salvò, saprà salvarti.
Qual sì stretto dover ti unisce all’empio?
Per te mi fe’ già tema il suo delitto;
mi spaventa or per lui la tua vendetta.
Parlando, l’odierei. L’amo, se tace.
da questo sen non ne uscirà l’arcano.
No, non fia ver ch’io voglia.
Tirannico potere usi la forza,
non Alessandro. Ei sia più grato e giusto.
Due gran beni a voi deggio, e vita e fama.
premio al vostro bel cor, del reo la vita
e, agli alti numi ’l giuro, il suo perdono.
regal pietade e tua mercé, da questa
alma ogni affanno, ogni timor si esiglia,
Parli Straton. Taccia chi è figlia.
d’altro fallo non è che di un gran colpo,
ricusato al suo braccio e tolto al mio.
Cerchi ’l nimico tuo? Quello son io.
Signor, di tua virtù, deh non pentirti.
Premio della mia fede è quella vita.
Tradimento non è l’odio ch’è giusto.
Frena, o padre, un furor ch’è tuo periglio. (Alessandro resta in atto pensoso)
molto degg’io... Signor... Non mi ode? Intendo. (Si prostra a’ piedi di Alessandro)
Signor, viva Stratone. Io qui ten prego.
Tu, Aristippo, prostrato ad un altr’uomo?
che gli orecchi ha ne’ piedi, a’ piedi io parlo.
Crate, per l’infelice il re si preghi.
Viltà. (Ad Aristippo) Viva Addolonimo. (Ad Alessandro) Quel reo
Un filosofo a un re così favella. (Ad Aristippo)
E al filosofo il re così risponde.
Ecco le regie insegne. (Ritorna Efestione, facendo portare l’insegne reali)
la clemenza e il dover. Vivrà Stratone,
del suo fallo al rimorso, ed in quel saggio, (Accennando Addolonimo)
vivrà quel re ch’oggi promisi al soglio.
Regia clemenza! (È vestito Addolonimo col manto reale)
Teco, Fenicia, io godo e teco, o padre.
Crate è d’Ipparchia; or Nilo esser può mio. (A Nilo)
Di Crate le pazzie far non degg’io.
Sempre sa farsi amar la saggia moglie.
Vieni. Sidoni, ecco il re vostro. (Mettendo il diadema in capo ad Addolonimo)
la maestà del regio grado onoro.
Fenicia, ecco il tuo sposo.
Sorte ch’io non invidio alla tua destra. (A Fenicia)
m’inchino al mio destin. Sposo più illustre
bramar non puoi né re migliore il trono.
Regnando col mio ben felice io sono.
noi non vegga in Sidone. Altre conquiste
chiamano il mio valor. Tu lieto vivi; (Ad Addolonimo)
e vivi amico mio. Popoli, amate
la fortuna di voi nel vostro omaggio.
Fa beati i vassalli un re ch’è saggio.
Fa beati i vassalli un re ch’è saggio.