e con gli dii placati io colà porto
Per sì grand’opra, dittatore eccelso,
e pietade e valor. De’ sacri auguri
Prive del maggior duce armate schiere,
o non han freno o non han core; e puote
nascer da indugio irreparabil danno.
In sue trincee ben chiuso il nostro campo
non teme impeti ostili; e provocargli
Quinto non oserà che le mie veci
Manca ardir forse al figlio?
No, ma troppo ei rispetta un mio comando
che a lui vieta pugnar finch’io ritorni.
che in ozio il tiene neghittoso e lento,
sarà intanto sua legge e suo tormento.
e per Quinto germana, ardenti e puri.
E più illustre e più degno, a te ben tosto (A Papiria)
Cominio di quest’alma idolo e nume. (Parla a Papiria)
Arde anch’egli, o Rutilia, al tuo bel lume. (Parla a Rutilia)
Papiria. (Parla a Papiria)
scrive al Senato e al dittator non scrive?
regola e mente, allora scrisse...
errò; ma incauto errò. Donisi agli anni
trascorso giovenil. Che reca il messo? (A Servilio)
Viva Fabio? Alla Curia il passo affretto.
gli esempi a rinnovar di Giunio e Tito.
Deh, lo segua Servilio e a noi ritorni.
nel denso della turba aprirsi il calle.
Il poterti ubbidir m’è gloria e sorte.
né so perché. L’alma è in tumulto e in pena;
Orridi spettri, sanguinosi, infausti
parmi avergli presenti. O dei! Che fia?
tutto ne fa timor, tutto ne spiace.
Se il mio Fabio qui fosse, avrei più pace.
Del giubilo comun l’ultime a parte
Vinti sono i Sanniti e Fabio ha vinto;
abbraccerai, cinto di lauro il crine,
rivedrò Fabio? E sarà vero? O gioia!
l’ombre infelici de’ nimici estinti.
Qual fu la pugna? La vittoria? Il core
più gode allor che più conosce il bene.
erano al gran conflitto. Infausti o dubbi
né ardia pugnar. Fiero il nimico intanto
Lontano il dittator, crede il superbo
non sien romani o sien rimasi i vili.
è più facile sempre ad esser vinto.
Ov’è il tuo cor? Sei tu romano? Il sangue
hai tu de’ Fabi? Io sì ’l rampogno e sgrido.
non ti vieta il pugnar, quando la pugna
Scosso a’ miei detti, ordina, accende e move
le schiere; esce del campo; assale ed urta
Necessità poi gli fa forti. Io, duce
entrano nella mischia; e nulla al loro
van prigioni o dispersi. Un solo giorno
della guerra ha deciso; e alla vittoria
campo, spoglie, trofei, conquiste e gloria.
Né a te, prode guerrier, manca il suo pregio.
Ma il padre che dirà? Che il dittatore?
A lui può non piacer l’utile colpa,
che approvaro gli dei con lieto evento?
Nol so. So che il mio cor non è contento.
che d’illustre virtù, di nobil merto.
Ben mi sovvien; così Rutilia disse
nel suo core scolpì Cominio amante.
Se Fabio trionfò, non poca parte
n’ebbe il consiglio tuo, n’ebbe il tuo braccio.
Qualunque siasi, a te s’ascriva il pregio
tu mi desti valor. Sei la mia gloria,
non del più amante. A me ubbidir conviene.
Sta in tua virtù del nostro amor la sorte;
sii più ch’altri romano, opra da forte.
del dittator. Vede il divieto infranto;
Lo salverà la sua vittoria.
dal suo furor, già sen va Lucio al campo
e al vincitor, d’amplessi invece o premi,
riserbate non sono a scure infame.
Io ne tremo per lui; l’amor che ho in petto
d’ogni fortuna tua mi chiama a parte.
né cotesta pietà chieggio al tuo core
l’onor d’esser Comini e d’esser Fabi.
A’ Fabi ed a’ Comini empie le vene
sangue patrizio; e sofferir non deggio
un popolar tribuno, un uom plebeo.
tra le fumose immagini degli avi
co’ Valeri è congiunta e co’ Metelli.
più di Rutilia assai, Roma e il Senato.
del tribunato tuo ti gonfi e onori,
più degno oggetto a’ tuoi superbi amori.
non mi manca virtù per meritarla.
meta de’ nostri voti. Ivi per noi
la ragion del trionfo. Il porvi piede,
pria d’udirne il voler, parrebbe orgoglio;
e vincitor modesto ottien più lode. (S’apre la porta della città e calandosene il ponte levatoio, n’esce Papiria seguita dal popolo di Roma che tiene in mano rami e ghirlande di alloro)
al suo duce, al mio sposo, io potea sola
Non vaghezza d’applauso e di trionfo
ma desio d’abbracciarti, anima mia.
O per entrambi ben sofferte pene!
Da quel che ti minaccia il dittatore.
Ah! Che mel disse il cor.
Chi è reo paventi e fugga.
Contra invidia e poter, che può innocenza?
O dio! Già sento il fier comando e veggo
fasci, scuri e littori... Ah! Fuggi, o sposo;
rimedio che la fuga a cor romano.
Egli la illustrerà fin de’ littori
prega un padre crudel che non sia ingiusto,
non un sposo fedel che non sia forte.
No, non morrai. Teco pugnammo e teco
Qui fermo al dittator mostra il suo torto;
puote sdegno e livor, que’ scudi ed aste
O Cominio fedel! Tosto, o guerrieri,
parte a voi se ne dia, parte alle fiamme.
Sciolti vadan gli schiavi; e non ci usurpi
invidia altrui delle nostre opre il frutto.
Oh, qual preveggo angoscia e lutto!
se lagrime di figlia in cor di padre...
il padre non ascolta; e a piè di giusto
tribunal non s’accosta amor né pianto.
Del dittator sommo è l’impero?
militari ed urbani magistrati
questa a lui diero alta possanza.
lecito fia disubbidirlo impune?
Frale è poter senza il favor de’ numi.
Disubbidisti, iniquo, e n’avrai morte.
morte ingiusta, o signor, son troppo avvezzo
fra cento aste a sfidar per non temerla.
meritarla così. Te furor move,
te cieca invidia, non ragion, non legge.
Ciò che il tuo non poté, fece il mio braccio.
non perché combattei. Che più faresti,
Roma salvai. Tu nol volevi. Io ’l feci.
Errato avrei, se non avessi errato.
era un tradir la patria e la mia gloria.
tacqui e soffrii; ma del supplizio a vista,
non so se tanto avrai, giovane audace,
facile a te sarà tormi la vita.
che virtù non fu mai morir per colpa.
Ma Fabio non morrà, quando con lui
tu a morir non condanni anche la figlia.
E con lui tu non perda il campo tutto.
si vuole e intimidirmi? Olà, che mora.
quelle son le romane invitte schiere.
Cadrò là da guerrier, cadrò da forte;
mi venga, o Lucio, ad assalir la morte.
Tutto è per Fabio il campo.
in disprezzo io sarei, Roma in periglio.
Non un Fabio però, non un mio figlio.
A Roma, o Lucio. Ivi i suoi falli e i merti
bilancerà il Senato. A lui da un troppo
severo dittator Marco s’appella;
e s’ei giudicherà che sotto il taglio
di una scure il reo cada, io sarò il primo
gl’insegnerà costanza il genitore.
a Roma e nel Senato. Ivi o il tuo figlio
o in sua man deporrò quello i cui dritti
sosterrò, finch’io ’l regga, eccelso grado.
dirà Cominio che l’attendo in Roma
e che avrà in Campidoglio, ove sperava
il mal chiesto trionfo, infamia e pena.
E tu risparmia i preghi, asciuga i pianti,
d’esser consorte a cittadin malvagio.
È ver, Fabio è tuo sposo, io te lo diedi;
ma tel diedi romano, eroe tel diedi.
ciò che caro mel fece; e a te pur tolga
Segui l’esempio mio. Più che col senso,
o se moglie esser vuoi, non sei più figlia.
Figlia e moglie, che fo? Qual di due beni
men di protervia. Egli mi è padre. Ah! Come
oltraggiarlo tu puoi? Questi m’è sposo.
misero ti compiango, oggetto insieme
e d’odio e di pietà, direi d’amore;
Dei! Che farò? Giusta nel padre è l’ira.
Reo nel marito il fasto. A me sol tocca
chiegga Fabio il perdon, Lucio lo dia;
sia Papiria egualmente e figlia e sposa.
Alla fronte dimessa, al tardo passo
Reo d’ardir, reo d’amore, a’ tuoi begli occhi
Se Quinto cade, il mio consiglio il perde.
Il tuo consiglio diè vittoria a Roma;
e della gente Fabia entra ne’ fasti
del tuo illustre fratel s’agita il fato.
E se il perde livor, nella sua morte
pur se scritto è lassù ch’ei perir debba,
morir da Fabio. Non si versan pianti
per chi muor per la patria e fra i trionfi.
Ma ancor lo spero; avranno cura i numi
in lui di conservar l’unico avanzo
di tanti eroi. Roma impor leggi al mondo
dee per voler de’ fati. Il grande impero
o, se l’ultimo Fabio or manca e cade,
Roma l’avrà ma con più tarda etade.
O sovra del tuo sesso alma sublime,
pugnerà il cielo, la virtù, la gloria;
combatterà il mio amor, la mia amistade;
e se fortuna, alle bell’opre avversa,
fia comune a più d’un la sua ruina.
che alternino fra loro il bene e ’l male.
Partito il caro amante, ecco il noioso.
Se sai d’esser molesto, a che cercarmi?
Disprezzato, ho il piacer del vendicarmi.
Nuova foggia d’amar per dispiacere;
o forse aman così l’alme plebee?
Che più dirai, se di novelle infauste
corbo non s’ebber mai lieti presagi.
tra Lucio e Marco, in pien Senato, a lungo
Qual fu de’ padri, ivi raccolti, il voto?
non condannato il vincitor, fremendo
resta del dittator la nobil vita?
sul popolo ha poter, tu sovra lui.
Rutilia non risponde? (A Servilio)
Le sovvien de’ miei torti e si confonde. (A Papiria)
Tribuno, è ver, me ne sovvengo; e n’hai
io qui m’abbassi alla viltà de’ preghi.
Ma con virtù superbo. (A Papiria)
Adempi il tuo dover. Sol per tua gloria
un Fabio, un vincitor, vedran le genti
che giustizia non fu; ma fu vendetta.
Deh, Servilio, d’un’alma prevenuta
Ragion mi farà il padre. A te già piacque
da Lucio e dal Senato io provocai.
Vano ah! sia mio timor, non tua pietade.
Riguardò con orror la fiamma accesa
Unì sprezzi a ripulse, ingiurie a sprezzi.
l’arbitrio de l’amor né del rifiuto.
non fo divieti e non lusinghe. Quelli
a te oltraggio farian, queste ad entrambi.
pesa il merto e l’error. Qualunque siasi,
l’approverò, che non m’offende un retto
giudizio e più del figlio amo le leggi.
Degni sensi di te, di chi tre volte
fu consolo di Roma e dittatore.
(Ma tu pace non hai, povero core).
me quel di figlia e moglie.
Tu vedi il padre; ma il roman non vedi.
a me di giudicarlo e che il suo fallo,
padre mi trova e cittadin privato.
eccoti, o padre, un figlio; e se ne impetro
(Mi scaccia il padre? O fulmine che abbatte
voi soli esser potete il mio riposo).
Contro di Fabio tu, mia sposa, ancora?
(Che pena è simular con chi s’adora!)
e non ascolto chi è nimico al padre. (In atto di partirsi)
lascia la mano, ond’io m’asciughi il pianto,
e va’ quella a fermar che ti minaccia.
misero, i mali tuoi, gli fa il tuo orgoglio.
più del giudice offeso, il reo feroce.
Tanto senso per lui? Per me sì poco?
L’ira di lui tra questo core e il tuo
s’è posta e, quasi insuperabil muro,
ei si plachi, ei t’abbracci; e sposa io sono.
O più del genitor figlia crudele!
Ei m’insidia la vita e tu la fama.
Ambe il littor minaccia, io vo’ salvarle.
E un Fabio si vedrà chino e sommesso?
Non è gloria ostinarsi in alterezza.
Posso implorar pietà senza ottenerla.
In tuo soccorso allor verrà il mio pianto.
quando il popol roman dee giudicarmi?
e giudizio miglior speri dal vulgo?
vivrai con l’odio suo, vivrai col mio.
E perderti vivendo? Ah! Di due mali
vado a implorar mia pena. Addio, Papiria.
Sì, vanne al dittator. Fa’ ch’ei ravvisi
genero ma il pentito. Io ti precedo
né dispero del giudice. Poi lieti
cara vita godrem, dolce riposo;
Son io Fabio? Io prostrarmi? Ahi! Che promisi?
Se il fo, me troppo vile! E se il ricuso,
troppo infelice! Oh! Meno fossi amante
Ma tutti assorbe amore i fasti miei.
Non mi si parli. Morirà il superbo;
o più non mi vedranno o vendicato.
Non si risparmi il reo, solo s’ascolti.
Che? Per espormi a nove ingiurie ed onte?
Suocero e dittator, Lucio il condanna.
Ei non distinse i gradi, io non le offese.
Giudice, ch’alza il braccio a sua vendetta,
e in figura di reo perde il nimico.
Non errò dunque Fabio? Io sono ingiusto?
E questa al dittator fu grave offesa.
Sì, ma sua causa al popolo è rimessa.
tu non v’hai più ragion; né sopravvive
a pubblico giudizio ira privata.
Ira, invidia, furore, e che l’altero
del dittator, sono, signore, i tuoi.
E perché miei, dovrò soffrirgli? E il grado
fia, qual segno allo stral, scopo all’insulto?
Quinto dica il suo torto e grazia implori,
che ricerchi di più? Tu gli concedi
Qual giudice v’è mai che a’ più malvagi
Giustizia odia i delitti, i rei compiange.
Indegno è di pietade il reo superbo.
Superbo non è più chi vuol perdono.
Facil pietà rende più arditi i falli.
Un Fabio a’ piedi tuoi frena i più audaci.
Orsù, venga al mio piè; ma Roma il vegga.
Non ti basta in sua pena il suo rossore?
Dessi a palese error palese emenda.
La grazia generosa ha più di lode.
E la pubblica pena ha più d’esempio.
Quinto è genero tuo, Quinto è mio sposo.
Più del decoro altrui calmi del mio.
Nulla darai d’una tua figlia a’ preghi?
Partir mi lascerai sì sconsolata?
e s’io ritrovo in lui genero umile,
egli in me abbraccerà suocero amante. (Ritirasi a parlare con una delle sue guardie)
Vinse due rigide alme amor costante.
armi il poter, le leggi...
S’anche tutti al tuo piè stesser prostrati
so che vano saria per lui pregarti
Clemenza intempestiva è codardia.
che si svenan per lui pietà e natura;
e fin la tirannia passa in virtude.
Cieca è giustizia, non distingue oggetti;
e punisce il delitto, ovunque il trova.
Ma tu lo trovi in tutti e un sol punisci.
Dell’opre, o buone o ree, la lode o il biasmo
cade sul duce; ei pecca in tutti; e tutti
Fabio da’ tuoi costretto uscì a battaglia.
Ne’ governi civili e militari
tutto procede col suo grado. Il basso
serve al maggiore ed il maggiore al sommo.
Fabio aveva i miei cenni, il campo i suoi.
Ei vi resse alla pugna e fece il fallo.
Voi pugnaste, lui duce, e pregio aveste.
voi con merito andaste, ei con delitto.
Non v’ha dunque ragion che salvi a Roma
Al popolo appellossi; e sempre incerti
Saran giusti, se liberi. Gli sdegni
d’un dittator fan troppa violenza
che spesso si condanna l’innocente
natural senso dell’altrui sciagura.
schierinsi in ordinanza. Vedran tutti
che chiaro era il misfatto e giuste l’ire;
e chi può perdonar potea punire.
e l’uno e l’altro di chi regge e impera).
e la placida fronte e la severa). (Si rivolta senza guardarlo, appoggiato ad un tavolino)
che in sembianza di reo ti venga innanzi
Non dir sciagura tua ciò ch’è tua colpa.
d’esser genero tuo. La mia vittoria...
Al popolo appellasti. A lui ti scolpa.
giudice omai ricuso. Io qui depongo
e questa spada vincitrice; e il capo
Sol rendimi il tuo amor. Rendimi quello
della sposa diletta. Ecco al tuo piede... (Ponendosi in atto d’inginocchiarsi, Lucio Papirio a lui si rivolta e lo ferma)
non ti getti il tuo amor ma il tuo rimorso.
Alza, Fabio, quegli occhi a questo volto.
Qui non è il dittator ma Lucio solo.
Ah! Per te che non fei? D’unica figlia
Giunto alla dittatura, io te maestro
A te fidai del campo il sommo impero;
e deposi in tua man sin la mia gloria.
scrivi al Senato e al dittator non scrivi;
l’esercito abbandoni e vuoi trionfo.
mandi sciolti i prigioni, ardi i trofei.
Che più? D’invidia, di furor m’accusi.
e perché vada inulto il primo eccesso,
il genero chinarsi o pur l’amante.
era amor, era senso, era fiacchezza.
Tua virtude or m’insegna il mio dovere
e rossore m’inspira e pentimento.
Alza, o signore, il punitor tuo braccio.
Mia pena imploro e tue ginocchia abbraccio. (Quinto Fabio inginocchiasi a’ piedi del dittatore)
Vedetel supplichevole e qual reo
che conosce il suo torto e vuol perdono.
tu vincitore? E tu prostrato? Il ceffo
più ti spaventa che ignominia ed onta?
O vergogna inaudita in cor romano!
mi rispetti anche il padre. Già vedesti
se dimessi al mio piè tremino i Fabi.
qui vendicai. Delle neglette leggi
avrò altrove il riparo e la vendetta.
Tu, se ancor ti rimane audacia in petto
vieni al popolo e al foro. Io là t’aspetto.
bell’oggetto a’ grand’avi, in faccia a Roma
precaria e non più mia. Per te era meglio
cader sotto la scure o sotto quella
E questa spada (Prendendo la sua spada dal tavolino)
Senz’altro testimon che del mio amore,
io pregava di morte e non di vita.
così a te quest’acciar parla e risponde. (In atto di ferirsi)
ei parlerà, quando dal sen mi sgorghi.
Prevenir littori e fasci.
Affrettarsi la morte egli è un temerla.
Attendere il supplizio è un meritarlo.
Ciò che infama i supplizi è sol la colpa.
Ma spero a’ giorni tuoi più amica sorte.
degna ancora di lui dammi una morte.
S’oggi avesse a perir sì nobil vita,
in sen di padre avrei sì fermo il core?
t’esporranno que’ seggi, ond’io più miti
Piacciono a Lucio i rigidi e severi. (S’incamminano per salire sulla parte più elevata del foro ma ne sono arrestati da Lucio Papirio che sopravviene)
che là mi vuol, donde privato io possa
che d’altro non è reo che del suo sdegno.
Senza le offese leggi io non l’avrei.
(E vagliono tant’odio i giorni miei?)
e di silenzio il banditor dia segno. (Al suono della tromba vanno a sedersi il dittatore nella sella curule, Servilio e gli altri capi del popolo in altri seggi nella parte più alta del foro. Marco Fabio e Quinto Fabio siedono nella parte inferiore)
sta di Roma il poter, fui vostro anch’io
consolo e dittator; ma verghe e scuri
stima eguale trionfo il tor di vita
il Romano e il Sannita. Ov’è la prisca
modestia? Ove i Cammilli? I Cincinnati?
puniasi in oro. Un trionfante or vuolsi
e il dia sotto il littor. Qual maggior pena
tutta in festa la patria? Aprirsi i templi?
E lui legato, ignudo e lacerato
morir nel Campidoglio? E in faccia a’ numi
Qual gioia a’ suoi nimici? Ah! Lucio il vuole;
e Roma lo vedrà. Misero figlio!
morrai così vilmente? E a tua salute
Nulla quelli degli avi? E nulla i miei?
A che m’avete riserbato, o dei! (Siede coprendosi il volto con le mani)
Quinto Fabio si assolva. Io ne protesto
alle leggi, all’impero, al culto, a Roma.
Manca la base al trono, ove gli manchi
Per me sto in mia sentenza; e della pena
Farlo a voi piace? Al ciel le vostre teste
Roma per voi si perde. Io vo’ che viva.
Fabio per voi si assolve. Io vo’ che mora. (Discende e in atto sdegnoso parte, seguito da’ littori. Tutti gli altri si levano)
Quinto, hai tu che produr?
Al popolo romano il capo io chino,
non reo, non vincitor ma cittadino. (Servilio con gli altri discende nella parte inferiore)
avrò de’ magistrati e della plebe
raccolti i voti, a libertade o a pena
andrai ma sempre illustre. (Parte con li capi del popolo)
quanto per te potei. Tu in ogni sorte
e anche in faccia al littor mostrati forte.
Tutta a sì mesto addio l’alma si scosse
Perché dal ciglio risospingi il pianto?
Questa non è fortezza, è crudeltade.
negar lo sfogo ma non torre il senso;
sta nel volto l’eroe, l’uomo nel core.
di padre non farà sdegno o comando
Faccialo; ne avrò stima, amor non mai.
Ah! Non di te, temo del padre.
Piaccia agli eterni dii che Fabio viva.
Da la plebe, nimica de’ patrizi,
Speralo dal mio amor. Son meco in Roma
Con queste tra’ littori e tra la plebe
aprirommi il sentier; salverò Fabio.
Vendicherò di un dittator l’inganno...
E dal pio genitor quella che brami
tentar per meritarti, idolo mio?
Qual mai più fido e generoso amante?
E di costui qual più importuno e audace?
A che? Noie mi rechi? O nuovi mali?
non osa il labbro e il tuo dolor rispetto.
Che? Condannato avresti ingiustamente
un Fabio? Un vincitore? Un innocente?
Roma a te lo dirà. Servilio il tace.
e il fratel m’uccidesti. (Piange)
Vanne, fuggi, o crudel. Togli a questi occhi
Già ti sprezzava; or ti detesto; or t’odio;
e t’odio col dolor che tu sì indegno
sia, qual già del mio amore, or del mio sdegno.
Tutto si può soffrir da donna irata.
Non ti doler. Tal io mostrarlo a Roma
dovea prostrato. Or che il decoro è salvo,
in me torna pietà. L’amo qual pria.
Ma incerto della plebe è ancora il voto.
Sciorrà i dubbi Servilio.
Nella sua autorità sta la romana
tolto il potere del gastigo, agli altri
si dà l’ardir del fallo e del disprezzo.
Viva la dittatura e viva eccelsa.
Perché, o popol roman? Me solo offese
A te diede vittoria. Il condannarlo
Tu potevi clemenza usar con gloria;
io usar non la potea senza viltade.
(O in quel rigido cor tarda pietade!)
Se Lucio lo compiange, ei non disperi.
Qual tribunal fia asilo all’infelice?
Quello che può salvarlo e a cui s’appella.
Fabio ancora appellarsi? A chi? Agli dii?
Da Lucio a Lucio. Al dittator pietoso
al tuo cenno il suo fato. Ei qui ben tosto
tratto a te fia. da ferrei ceppi avvinto.
togliendo a sé l’arbitrio del perdono,
dalla tua dignità l’uso del dono.
Padre, a vita rinasco. Avrò il mio Fabio
Il padre non cercar nel dittatore.
il popolo e il Senato e non lo fece.
Ciò che far ei non volle, a me non lece.
Accusar pur t’udii Roma d’ingrata?
Or non vo’ che d’ingiusto ella m’accusi.
Fabio ottenne al tuo piè grazia e perdono.
Le mie private offese io perdonai,
Troppo rigor traligna in crudeltade.
Se infetta parte, che guastar può il tutto,
chi di crudel quel colpo accusa e sgrida?
nel perdono di Quinto il comun rischio.
Scorge più lunge assai chi siede in alto
e a tutta Roma il dittatore è un solo.
O dio! Padre, son figlia e sposa io sono.
A che cerco ragion? Movanti questi
teneri nomi. Abbi di me pietade.
Fabio è un tuo don. Perché mel togli? E appena
e tu fosti cagion che tanto io l’ami.
Vuoi ch’io cada al tuo piè? Vuoi che coteste
ginocchia abbracci? Ecco ti cado al piede; (S’inginocchia)
e le irrigo di lagrime e l’estremo
del tuo paludamento orlo ne bagno.
Troppo mi costeria l’esser di padre,
quel di giusto, di forte e di romano.
Sorgi. T’accheta; e se vuoi pianger, piangi
Padre crudel, tu non sarai più padre, (Papiria si leva con impeto)
che sì poco l’apprezzi. Allor che un ferro
reciderà lo stame al caro sposo,
un altro all’alma mia troncherà i lacci.
Perdono al tuo dolor, debile figlia.
Ah! Più figlia non son di chi m’uccide.
Quasi m’abbandonò la mia costanza.
Tutta l’alma v’opposi e bastò appena.
Vien Fabio. A nuovo assalto accingo il core.
Papiria, abbia misura il tuo dolore. (Fermandosi in lontano)
Mia cruda sorte abbia misura anch’essa. (Quinto Fabio s’avanza verso Lucio Papirio e Papiria si ferma nel posto di prima)
fa che pria di morir veder l’aspetto
del mio giudice io possa e la sovrana
destra baciar che il mio segnò di morte
alla mano ed al piede, olà, sciogliete. (Un littore s’avanza ma Papiria lo risospinge e scioglie di sua mano le catene di Quinto Fabio)
Non a te, vil littore, a moglie amante
Il brando illustre e il premio (Al littore)
Non la mano, o Fabio, (Abbracciandolo)
ma le braccia ti stendo. In questo seno
sentirai palpitare un cor che t’ama.
Io la man bacierò che mi dà vita. (Papiria bacia la mano del padre)
s’anche morte verrà, verrà gradita. (Vengono due soldati, l’uno de’ quali porta la spada di Quinto Fabio e l’altro sopra un bacino una corona di lauro fregiata d’oro)
la spada trionfal. (Lucio Papirio porge a Quinto Fabio la spada e questi se la ripone al fianco)
ma in difesa di Roma ognor la cinsi. (Lucio Papirio, presa la corona d’alloro, la mette sul capo di Quinto Fabio che si china in riceverla)
laureo serto le tempie, onde di qualche
ricompensa s’onori il tuo trionfo.
In ben oprar premio ha dall’opra il forte.
Non mai sì bel Fabio a’ miei lumi apparve.
l’invitto al Campidoglio; e là, gridando
pieghi al littor sotto la scure il capo;
e meno reo che vincitor, tal passi
e da Roma e da noi lodato e pianto.
Misere gioie mie! Tornate, o lagrime.
Sul tuo labbro l’adoro e sol mi basta
morir senza il tuo sdegno e con l’affetto
Fabio, do quanto posso, amore e lode.
con la sposa ti lascio. Anime amanti,
L’ultimo addio prendete; e da me prendi
(Parto e al vostro nascondo il pianto mio).
la gloria sua, la sua pietade istessa.
Consolarti, amor mio, vivere, amarmi.
Amarti? Lo farò dopo anche estinta.
Viver? Nol potrò mai né consolarmi. (Escono i littori)
Papiria, ecco i littori. A me conviene
Sente meno il morir chi tosto muore.
No, che in vederti afflitta
Rimani. Amami. Vivi; e pria ch’io mora,
Vinceste alfin, rigidi affetti. Il nome
ma se non l’ebbi, l’adottai, lo feci;
e la perdita mia quanto sia grande
mel dice il mio dolor. Povero Fabio!
Pianto ricusi a chi fra’ lauri ha morte.
spettacoli sì indegni occhio romano.
Armi e tumulto. Han fatto
Fuggono i tuoi. Sta il popolo sospeso
sul destino di Fabio; ed io tremante...
Vano è il timor. Vano il tumulto. Fabio
e il popol, che approvò la mia sentenza,
mal disciolte bipenni orma di sangue.
Deh, con nobil perdono un mal previeni.
Cadran con Fabio i più malvagi e tutti...
Se vuoi tutti punir, verrà pria meno
che le vittime a’ colpi. Il loro duce
chiedono le coorti e della plebe
non poca parte. La vicina Curia (In lontano sull’alto cominciano a farsi vedere i soldati romani)
o per salvarlo o per morir con lui.
Faccianlo. Io solo il grado, io solo il petto
e prima che soffrire onta alle leggi,
mi farò della Curia altare e tomba.
O ferreo core! (Marco Fabio e Quinto Fabio scendono dalle logge, seguiti da’ soldati)
Che fia? Col genitor Fabio a noi scende.
Roma un reo ti togliea. Mia man tel rende. (Marco Fabio, preso per una mano Quinto Fabio, lo presenta al dittatore)
aquile opposte ad aquile, aste ad aste
e romani a romani. Un sol si sveni
ma Roma senza colpa. Il fabio sangue
è presidio alla patria e non periglio.
Signor, tue leggi adempi. Eccoti il figlio.
O magnanimo cor, per cui fia illustre
alla scure sottrar. Qui siedi, o Marco; (Si leva dal suo seggio)
e tu sii dittator, giudice sii
Assolvilo, se puoi. No, che tu stesso,
sordo alle voci di natura, quelle
sol delle leggi e della patria udresti.
Quinto, or tu che dirai? Vedi qual male
succeda al primo. Uno fa esempio all’altro.
Tale è l’orror, che del mio fallo or sento,
io stesso il punirei. Solo per tutti
a te basti il mio sangue.
del tumulto del campo il reo son io.
Tacciasi. Il tribuno (Vedesi scendere Servilio dall’alto, seguito dal popolo, da’ soldati, eccetera)
(Spunta ancor nel mio sen raggio di spene).
Col suo decreto il popolo romano
giudicò Fabio a morte; e del perdono
a sé tolse l’arbitrio e a te lo diede.
nulla ha in Roma d’egual, fuor che il tuo core.
della tua dignità. Su, meco, o Roma,
prostrati, e tu buon padre e tu reo figlio. (Servilio, il popolo e i due Fabi s’inginocchiano a’ piè di Lucio Papirio)
Pietà. Grazia. Perdono. Assai punito
Donala agli anni suoi. Donala al frale
Donala agli avi, al padre, a Roma tutta.
non rispingere il pianto. È Roma, è Roma
ma ch’altri non vedrà china a’ tuoi piedi.
Tribun, popolo, Fabi, omai sorgete. (I suddetti al comando di Lucio Papirio si levano)
Basti così. La disciplina è salva.
al popolo romano il reo si dona.
Vivi, o giovane Fabio, e vivi altero
Vivi al mio amor. Vivi alla patria. Il troppo
genio feroce in avvenir correggi;
e meglio impara a sofferir le leggi.
Al giubilo comun, giubilo accresca
l’altrui perdono e il tuo, Cominio, ancora.
Generoso Servilio, a te qual posso
(Io del tribun qual premio? O padre ingiusto!)
Signor, la tua bontade e la tua scelta
Vedi, o Rutilia, se plebeo qual sono
d’innalzarmi all’onor de’ tuoi sponsali.
Mi ributtò il tuo fasto e in quel ritroso
tuo volto ancor le tue ripulse io leggo.
ma vil non son; né misero esser voglio.
A Cominio ti cedo. Al tuo gran padre
piaccian nozze a te care. Io ne lo prego.
Né a Servilio, che chiede, il dono io nego.
Tardi conosco il bene che in te perdo;
ma in quel che tu mi dai lieta mi veggio.
Al mio rival la mia fortuna io deggio.
Ma se voi siete avventurati, o cori,
l’opra è di Lucio e sua pietà s’onori.
L’opra è di Lucio e sua pietà s’onori.
Quell’austera virtù, per cui cotanto
andò la prisca Roma altera e illustre,
fu, col nome di zelo e di fortezza,
Ma tu, che del romano inclito impero
siedi all’alto governo, augusto Carlo,
non di parerlo. Tua virtù in sé gode
la tua passa in esempio. O sotto Carlo
a virtù vera amico, in cui se ognuno,
all’ottimo de’ prenci, il buon non calca
dell’uomo e non del tempo è vizio e colpa.
ma il gran nome immortal segna ne’ fasti,
oh qual ne riconduci almo diletto!
ricondurrallo a noi propizia etade!
Sì, viva Carlo. Amico cielo aggiunga
anche il pubblico amor riposi in lui.