Che, signor? Qualche avventura?
Guardali ben, que’ sono abeti e faggi;
oprar prodezze e vendicar oltraggi.
Degno il luogo è di me. Troppo opportuni
sono un monte, una grotta e un sito alpestro
per quella, che ho risolto, illustre impresa.
Qui vuoi fermarti? E che mangiar pretendi?
Basso pensier! Vili dimande e strane!
Di errante cavalier cibo è la gloria.
Ma di errante scudiero cibo è il pane.
Mancheranno a un par mio paggi e donzelle
che, in nome di regine innamorate,
mi vengano a invitar? Verran, verranno
Ne andaro a Palmerino, a Florismarte.
E a un don Chisciotte, a me che avanzo in grido
de’ vagabondi eroi la schiera tutta,
non verran? Per mia fé saria ben bella.
E perché non verran, sarà ben brutta.
Come creder ti posso? Agli occhi tuoi
son le pecore alfane ed elefanti;
e al dispetto del ver giurar volesti
che i molini da vento eran giganti.
Eran purtroppo, io ’l so; ma tu non sai
ciò che possa l’invidia e la magia.
(Il solito pensier di sua follia).
Pur ti raggiunsi, o disleal Fernando. (Afferra Sancio)
Agli atti, ai panni, a le parole è un pazzo.
Qui a brano a brano al suolo
l’inique membra spargerò. Qui ’l core
Mi affoga il pazzo. Aita.
Il caso è strano assai. Penso. Ripenso.
L’offesa è mia; ma l’offensore è pazzo.
Tu già mordi il terren. Già ti calpesto.
Or cibo agli avvoltoi, pasto a le belve
non fanno ingiuria; ed il pugnar con loro
de la cavalleria non è decoro.
di que’ laceri panni a me tal sembri,
me come amico in quest’amplesso accogli.
E in tuo pro tal m’impiega a spada, a lancia.
Io sono don Chisciotte de la Mancia.
Io Sancio, il suo scudier.
Non ti conosco. (A don Chisciotte)
Odia un mal disperato anche i rimedi.
Cedo a tua gentilezza. Or qui t’assidi;
ma pria di raccontar le mie sciagure,
giurar tu dei di non troncarne il filo
io smarrirei de la dolente istoria
e questa perderei misera calma.
A te giuro silenzio e qui m’assido.
Anch’io l’ascolterò ma da lontano,
che di stargli vicin più non mi fido.
Il mio nome è Cardenio. Ebbi sul Beti
natali illustri. Ne l’età che appena
de la bella Lucinda amato amante.
Gli anni crebbero in noi, crebber gli affetti.
Tutto già ci arridea, quando per legge
da Lucinda partir. Mi chiese il duca
Riccardo a la sua corte, ove mi diede
suo minor figlio. In amistà ben tosto
pari età, pari studio ambo ci strinse.
Dorotea sua vassalla il prence ardea;
e pegni del suo ardor, n’ebbe colei
la fé di sposo e l’auree vesti e ’l sacro
pronubo anello. Ei poi, pentito o tardi
odiò il nodo inegual. Mosse furtivo
di corte il piede. Io ne lodai la fuga,
ne fui compagno, ai patri lari il trassi
per riveder Lucinda. Ei pur la vide
per opra mia, tanto fui sciocco, e amolla;
tela egli ordì del tradimento enorme.
Avvenne un dì che la gentil Lucinda,
a cui piacea de’ cavalieri erranti
legger le strane gesta, a me richiese
gradiscono a Lucinda i libri egregi
la più savia e gentil. L’altre sue lodi,
in cosa a me sì conta e manifesta,
risparmiar tu potevi e dir sol questa.
Adesso, o temerario, adesso, adesso. (Tra sé e pensoso)
ruppi le leggi. Or mi sovvien. Perdona.
Guardati ben. Torna a impazzir lo stolto.
benché in grado regal. Qui stan descritti
del suo drudo e di lei gl’indegni amori. (Mostrando un libro di memorie)
Rea la donna regal di amore indegno?
Non fu né sarà mai. Qui suo campione,
qual dee buon cavalier per ogni dama,
ne difendo la fama. Ella è innocente;
e chi l’accusa è un ignorante e mente.
Una mentita a me? (Lo getta a terra disteso)
Signor, pazienza. È troppo furibondo.
De le dame al campion così rispondo. (Cardenio impedisce don Chisciotte che non può alzarsi)
Certamente io cadei per via d’incanto.
L’incanto fu quel pugno. Eh! Lascia omai
questa cavalleria tanto fatale.
Sancio, non più. Son cavaliero errante.
Tale solennemente armato fui
e debbo oprar da tal. Fatiche e rischi
son per noi glorie e fregi.
speri di conquistar provincie e regni
e l’isola promessa a me in governo?
recar a Dulcinea ch’è mia sovrana.
So che ami Dulcinea ma nel Toboso
Che guida al pasco i por...?
è Dulcinea la bella. Uso gentile
è ’l dar nomi stranieri a le donzelle
e fingerle o regine o ninfe o dive.
Andrò, se il vuoi; ma tu restar qui solo?
Sì, ai disagi, agli affanni, ai patimenti.
Per Angelica tanto e per Oriana
fece il grande Amadigi e ’l prode Orlando.
Al par di lor debbo impazzir anch’io.
E qui sta la finezza. Il più bel pazzo
è quel che tal si fa senza cagione
e sol per invenzione ama e delira.
Levami questi arnesi e qui gli appendi.
Sopra vi scriverò: «Nessun mi tocchi».
E credi ciò bastante a preservarli?
Così quei di Zerbin salvò Isabella.
Sancio più non favella. Or via. La spada. (Dà la spada a Sancio che l’apprende ad un ramo)
Eccola. Pian. Pria vo’ baciarla. Udite, (Don Chisciotte va per la scena, seguitato da Sancio che lo va disarmando)
rustici dei di questa selva, a voi
raccomando me stesso e vi saluto.
Cortese e sostenuto è ’l complimento.
se mai ti offuscheranno i pianti miei.
Vorrei saper se il fingi o se lo sei.
Driadi, udite, e napee; qui don Chisciotte
difenderà da’ satiri insolenti
l’onor vostro del pari e la sua gloria.
Ben presto l’invenzion sarà un’istoria.
tutto mi manca. Il ciel mi arride. Attendi. (Raccoglie da terra il libro di memorie)
io scriverò. «Sovrana, alta signora.
Mia dolce Dulcinea, quella salute,
di cui son privo, a te, crudele, io mando». (Va scrivendo e leggendo ciò che scrive)
Non scrisse mai sì belle cose Orlando.
a te dirà qual io per te rimango.
Se aita dar mi vuoi, son tuo per sempre;
se no, fa’ pur di me quel che ti piace;
de la trista figura il cavaliero».
in un foglio copiar questi miei sensi
e a la bella crudel poscia il darai.
Oltre di ciò che dir dovrolle a bocca?
il savio don Chisciotte al tuo partire
il rimorso di dirle una bugia,
fammi sugli occhi miei qualche pazzia.
S’una non basta, e dieci e venti e cento.
Le fa sì al natural che quasi io credo
Non istupir. Si vuol da noi che rieda
Al sangue e a l’amistà tanto degg’io.
Ed io tanto a quel zel che ho del suo nome.
Ah! Potesse esser ciò; ma adesso appunto...
tutto si udì, tutto si vide. Or dei
dar braccio a l’opra nostra.
che Dulcinea suo cavalier l’accetta
ma che amante l’aspetta e tosto ei parta.
non crederà da me la doppia via.
Arte non mancheratti, ond’ei ti creda.
Già il so. Di quella invece
avrai da me più d’un bel campo in dono.
Presto vedrò la cara moglie e i figli
che per farmi scudiero abbandonai;
e presto finiran di Sancio i guai.
che a noi sen viene, è ’l misero Cardenio.
No, Cardenio non son. Vivea Cardenio
in lei mancò la fede, in me la vita.
Tuoi casi a me son noti, a me che un tempo
e, quale or son, ti fui fedele amico.
Amico? Anche Fernando avea tal nome.
Fedele? Anche Lucinda avea tal pregio.
Né lusinga il tuo duol Lope che t’ama.
come poss’io senza smentir questi occhi?
Tradiscono anche gli occhi un infelice.
Con empia frode al genitor Riccardo
Ma nel giorno fatal de’ suoi sponsali
io non la vidi, io non l’intesi a lui
porger la mano? A lui giurar la fede?
solo uscir disperato e trar d’alora
una vita crudel peggior di morte.
Or l’altrui fede ascolta e la tua sorte.
Colmo d’alto stupor m’ha il nobil canto.
Ma se più vuoi stupir, mira il bel volto.
Chiudasi in voi per sempre il mio dolore,
che degli uomini il volto. In tutti io veggo
e trovo in tutti il traditor Fernando.
Dorotea la infelice è questa, o Lope.
un barbaro conforto? (In atto di voler fuggire, veduti coloro)
Dorotea non s’involi. Io de l’iniquo
tu la tradita amante. Un punto istesso
Sciagura irreparabile. Trionfa
in placido imeneo la coppia infida;
a le piante i sospiri, ai sassi il pianto.
Datevi pace omai. Sposa Lucinda
svenne Lucinda. Un foglio, che nel seno
e che per torsi a l’odiose nozze
s’era con rio velen tolta di vita.
ciò che morte parea. Partì Fernando.
Ma poiché del liquor mancò la forza,
l’uso de’ sensi ripigliò Lucinda;
lasciò i tetti paterni, invan seguita
da Fernando e dal padre. Eccoti tolto (A Dorotea)
dei gran mali il maggior. Ciò che ne avanza
amor dissiperà, tempo e costanza.
Tal chi presso al naufragio afferra il porto.
Qual mai pietoso nume a noi ti trasse?
fuor de la patria terra Ordogno e Lope?
Pietà di un folle amico, a me congiunto
con nodo di natura e di amistade.
che di fole e menzogne empion le carte,
ove il tempo si perde e più l’ingegno.
d’erranti cavalieri alte sciocchezze
sì gl’ingombraro e gli offuscar la mente
che, postosi in idea d’irsene armato...
seria il famoso don Chisciotte?
e in queste selve egli or dimora.
Giurerei che poc’anzi io qui lo vidi;
ma qual chi sogna, io ne ho l’idea confusa.
Pazzo ed amante? Ei non è il primo o ’l solo.
vera la patria. Ei sua l’appella e invoca
regina e dea. Foglio d’amor poc’anzi
le scrisse il folle e n’era Sancio il messo.
farà ch’ei rieda a le natie contrade,
ove trarlo d’error sarà pietade.
Questo è ’l tuo voto? A me ne lascia il peso.
Questa or varrammi al pensier vostro e al mio.
Chi sa dove si aggiri e dove io possa
questo or vieni a depor lacero ammanto
che al tuo grado gentil troppo disdice.
Se fedel mi è Lucinda, io son felice.
Tacer non giova o disperarsi. Il cielo
ti ha tratta in mio poter.
né tua sarò. Cardenio ha la mia fede,
E reo de l’odio tuo perché son io?
Colpe son queste? Eh! Tutte
Il tuo non dirlo amor, dillo furore.
Siasi; e questo furor, qual per molt’acque
gonfio torrente, me trasporta a questa
E me la tua perfidia a questa spinge
Se perfido son io, tal per te sono.
Che sì, ch’io avrò commessi i tuoi delitti?
Tua beltà me gli ha imposti; io gli ho commessi.
beltà saprò punir, quand’ella possa
Ne avrò di veri. In lor difetto ancora
avrò ferri, avrò lacci, avrò cent’altri
che il morir non può torsi a chi nol teme.
che faresti di più per insultarmi?
Se nemico mi fossi e non amante,
che faresti di più per tormentarmi?
ti fa grande, non vile. Il sangue mio
ma non più lieta. Chi ben ama ha tutta
la sua fortuna ne l’oggetto amato;
né ricerca di più. Cardenio solo
val per me tutti i beni e tutti i regni.
parlo a la tua virtù. Lascia in riposo
due cori amanti. Qual piacer può darti
il vedermi infelice? E qual saria
prova d’amor far la miseria mia?
e col far pompa di un rivale amato
non ben si vince un vilipeso amante.
che in me trovino luogo i preghi tuoi,
fa’ qualche sforzo per amarmi; anch’io
qualche sforzo farò per non più amarti.
E poi, chi sa? Messo in cimento amore,
o a te consiglierà ciò che più giova
Lucinda al nuovo giorno. A donna amante,
lungo è anche un giorno a far che cangi il core.
custodia e scorta. Non è lieve impresa
priva di libertà, sola ed inerme,
che può sperar? Che non temer? Se sposa
è la mia infedeltà. Tutto a l’amico
si può fidar, fuorché l’oggetto amato.
Mi fai qualche pietà. Pur ti consola
oggi si mostra un che sia fido amante.
Orlando mi perdoni. È troppo impegno
Già dal lungo cozzar con sassi e piante,
rotto mi trovo in più d’un luogo il capo
a onor di Dulcinea. Più facil credo
di Beltenebro il genio. Ei che facea?
ed in prova di ciò sento che ho fame.
Io fame? No, l’onor nol soffre. In quanti
volumi abbiam di noi, mai non fu scritto
che avesser fame i cavalieri erranti.
Mesto egli era; io son mesto; in flebil suono
cantò sovente; e tal cantar io voglio.
Egli naturalmente al parer mio
E grazie al ciel, l’ho di tenore anch’io.
(Sancio?) E che? Non andasti? Io qui ti veggio?
Mi vedi qui, perché tornato io sono.
Sessanta leghe in men di un’ora? Iniquo!
quando dirò con qual vettura andrai.
mi sento dir né so da chi: «Trattienti,
scudiero e imbasciator del più famoso
errante cavalier che intorno vada».
a la maggior beltà che il mondo onori...»
(Un qualche mago). Ora ti credo. Segui.
«Per servir presto a don Chisciotte il grande,
monta questo destrier». Guardo; e mi veggo
scender dal ciel volando e tutto bianco...
la briglia di diamante e l’ali al fianco.
mi sento alzar; mi trovo in sella; e ratto
giungo al Toboso e a Dulcinea; le parlo;
n’odo i comandi; e sul cavallo istesso
a te ritorno e per l’istessa strada.
Bravo assai; ma più lo stimo,
perché a lui non occorre o paglia o biada.
Sancio or mi crederà. Questa è finezza
di un mago a me cortese ed è ventura
ne la cavalleria spesso arrivata.
Non mi oppongo mai più. (Gliel’ho piantata).
Sì, forse in ricamar qualche divisa?
Uh! Sciocco. In man di lei tutt’eran perle.
Benissimo. Quattr’oche e sei galline.
Poi tre capre e un agnel, salvo ogni errore.
Le tre grazie eran quelle e questo Amore.
Lo lesse? Lo baciò? Che fe’? Che disse?
Come averlo potea? L’originale
È vero. O che sciagura! O qual errore! (Si trova dentro uno stivale il libro)
Datti pace, o signore. Al maniscalco
un altro di mia testa io ne dettai.
Vi posi la soprana, la salute,
l’infermità, poscia lo «spiro e spero»;
«de la trista figura il cavaliero».
Viva Sancio! Di me che le dicesti? (Don Chisciotte abbraccia Sancio)
La verità, che per sua amor sei pazzo.
Mostrò dolor? N’ebbe pietà l’ingrata?
Poi disse: «Va’. Non leggo e non rispondo,
perché non so. Di’ al tuo signore e mio
che di tante sue grazie io mi vergogno
perché di parlar seco ho un gran bisogno».
che meco venne al grippogrippo in groppa,
Lope? Ho sommo piacer di sua venuta.
Egli appunto a te vien. Se l’ha beuta. (A Lope)
Per riveder nel più gentile amico
Che? Giunse a voi de le mie gesta il grido?
E dove mai non giunse? Ebbra è di gioia
la Mancia tutta; e Dulcinea, tua dama,
vaga di tue prodezze, a sé ti chiama.
Andiam. Recami l’armi; e Rozzinante, (A Sancio)
si disponga a marciar di buon galoppo.
Io me ne rido. Egli è spallato e zoppo. (Sancio parte)
Or chiamerai fole e pazzie le istorie
e l’alato destrier, che a te mi trasse,
provan che tutto è ver. Perdon ti chieggo.
Non parliam più di ciò. Sol ben ti guarda
dal non più profanar con empie risa
la dignità de’ cavalieri erranti.
Quei che ridon di lor sono ignoranti.
Ah! Signor, pur ti trovo e a le tue piante... (Dorotea s’inginocchia)
dessi da un’infelice a un don Chisciotte.
Non mi alzerò, se pria tu non mi giuri
un favor ch’è tua gloria e mio conforto.
(Mia gloria e suo conforto?) Ov’ei non tocchi
il mio re, la mia patria e quella fede
che a Dulcinea giurai, sperar tu ’l puoi.
Ecco l’armi. Ma che? Qual gente è questa? (Sancio porta le armi a don Chisciotte)
Non arrivan tant’oltre i voti miei.
Tel prometto e tel giuro. Or sorgi e parla. (Porge la mano a Dorotea)
ch’io baci quella man ch’è mia speranza. (Dorotea si sforza per baciar la mano a don Chisciotte)
(Dulcinea, qui mi assisti). Un cavaliero (Don Chisciotte non lo permette)
nol dee soffrir. (Ah! Dulcinea). Non posso.
Signor, l’uso il permette. Egli è un omaggio
che si rende al valor di nobil destra.
Né manchi a cortesia, se a lei compiaci.
A fé, del nostro pazzo egli ha il sembiante. (A don Chisciotte sottovoce)
Quegli d’aio mi serve. (Accennando Ordogno)
E tu chi sei? (A Dorotea)
Se ha lo scudier, sarà una dama errante. (A don Chisciotte)
(Freno a gran pena entro le labbra il riso).
Chi son io? La più misera donzella (Sempre guardando amorosamente don Chisciotte)
che vegga mai, sorga o tramonti, il sole.
spinse un crudo ladron; ma contra l’onte
del mio destin, mi diè coraggio e lena
il tuo nome, il tuo braccio e quella fama
che di te, vincitor di rei giganti,
di te, vendicator d’ingiurie e torti,
di te, riparator d’offese e danni,
sin de l’orbe ai confini oggi risuona.
Io son, di me pietà gentil ti muova,
io sono, a me presta soccorso, io sono
la vergine real Micomicona.
Real? Deh! Mi perdona. E tu, che sei (Afferra con isdegno la barba di Ordogno)
aio e scorta di lei, non prevenirmi?
Fermati. Aimè! Mi son caduti i denti. (Gli cade la barba dal mento)
ma i denti e le ganasce io non ci trovo.
Vieni. Siedi. Io ’l risano in un momento. (Fa seder Ordogno e gliela lega)
Abra, dabra, cadabra. O gran segreto!
Sì presto egli è guarito? A me tu insegna (A Cardenio)
le possenti parole. In qualche impresa,
ove tronco mi fosse o un braccio o il collo,
utili mi saranno. Or di’, che brami?
Che tu sia meco, ov’io n’ho d’uopo, un empio
nemico mio tu metta a morte; e pria
che nel regno natio tu me non vegga,
non si volga quel braccio ad altra impresa.
la mia cavalleria, la mia coscienza
e ’l mio dovere. Io già son tuo campione.
Non mel ricordo più. (A Cardenio sottovoce)
Ben tu facesti in dirlo. (A Cardenio) Alor ch’io penso (A don Chisciotte)
a’ mali miei, perdo memoria e voce.
Spera. Micomicone? Ove sta posto?
l’eclittica non è. Tu prendi errore.
Eh! Dir volea che per andarvi è d’uopo
oltrepassar la linea equinoziale.
Ora intendo. Su, l’armi. (A Sancio) E chi dal soglio (A Dorotea)
Un vile cavalier, mago e gigante,
che al vedermi donzella, orfana e sola, (Sancio va armando don Chisciotte)
Panda... (Si volta verso Cardenio)
Filando da la fosca vista.
Avrà... Venga l’usbergo. (A Sancio) Avrà che fare (A Dorotea)
col cavalier de la figura trista.
io te l’ucciderò. Son don Chisciotte.
No no, troppo mi onori. (Ah, Dulcinea!)
Almen da me prendi il tuo brando. O dio! (Dorotea porge la spada a don Chisciotte sospirando)
Venga; e venga in tuo pro.
del beneficio illustre offro il mio regno.
Non cerco che l’onor. Sol per alora
Sancio ti raccomando, il mio scudiero.
ti dimando un governo e già l’aspetto.
Su la regia mia fede io tel prometto.
Io lo perdei pugnando; e alor giurai
di non portarne più, finch’io non abbia
Fu provvido il destin. Così rassembri
Marte a quell’armi e a quel bel volto Amore.
(Io son di Dulcinea). Ma donde vassi
Là vedrò Dulcinea. De la grand’opra
io da lei prenderò, come mia dea.
Quanto, quanto ti debbo, o don Chisciotte!
Quanto, quanto t’invidio, o Dulcinea!
Si celi a Sancio il ver. Tema o interesse
Il tuo pensiero è ’l mio.
Lope, da galantuom, credi tu vero
Tale a te non la mostra e l’aria e ’l tratto? (In atto sdegnoso)
(Più che lo guardo, ei più mi sembra il matto). (Fugge da Cardenio e va verso Lope)
A la regia sua fé creder poss’io?
Io non ho simpatia con il tuo volto. (A Cardenio)
Ella è regina. Or credo veri i casi
de’ cavalieri erranti; e don Chisciotte
re di Micomicon veder già parmi.
tienti i tuoi campi. Il mio governo io voglio.
Dimmi, quando arrivasti in questi monti?
Quando la mia regina. E perché il chiedi?
Tel dirò Certi pugni... (Sancio guarda attentamente Cardenio che con disprezzo lo lascia)
Mia Lucinda, ove sei? Poiché mi è nota
la stabile tua fé, de’ miei contenti
ancor mi sembra il bel sentiero aperto.
(Se non è il nostro, è un altro pazzo al certo).
O che scudier! Né men mi disse addio.
Or vadasi al padron; ma de l’albergo,
non è questa la serva? Ella è purtroppo.
Sancio? Quel pur sei tu? Che fai? Stai bene?
Perché mi trovo a Maritorne appresso.
Sempre sul motteggiar. Vengo dal monte,
dove ho colto quest’erbe. Or torno a casa;
e ti chiedo il favor d’accompagnarmi.
De’ fatti tuoi saper non vo’. Se vai,
mi fai sommo piacer; ma accompagnarti?
Perché? Meco e colà trovar potresti,
come errante scudier, qualche ventura.
No no, colà, ben mel ricordo, e teco,
per mia disgrazia, io n’ho trovato assai.
E con il ciel Sancio ben sallo.
Io tel dirò. Da un mulattier geloso,
per tua cagion, fui bastonato in fallo.
mi negheresti ancor questo piacere?
Alor risponderei: «Il mulattiere».
Da scudiero gentile atto cortese
giammai non fu negato al sesso imbelle.
E donzella son io. Belle maniere!
Anche a questo rispondo: «Il mulattiere».
Vado a Micomicone e al mio governo.
Maritorne da te tal si abbandona?
Mi aspetta la real Micomicona.
così crude risposte e così altere?
Io son governator, non mulattiere.
il tuo giubilo e ’l mio. Giovi occultarlo
di chi ne osserva al guardo.
Quelli son miei custodi. Io di Fernando
sono in poter. Nel vicin bosco errante
vo’ sofferente, non audace.
Che il feroce rival ti tragga a forza,
me presente e codardo, a l’ara infausta?
Mi ti rapisca o violenza o morte,
e sciagura funesta, orrida, estrema.
Maggior del mio periglio è la tua tema.
E maggiori n’avrai. Quando più folte
tacita e inosservata, ai dormigliosi
Tu nel cortil del villereccio albergo
mi attendi; e tosto col favor de l’ombre
c’involeremo a l’infedel Fernando.
Le ben ordite trame amor secondi.
Io lusingando il facile amatore
gli sarò men sospetta. Or sia tua cura
celarti agli occhi suoi. La tua presenza
saria inciampo a la fuga. Un cor geloso
a vista del rival non ha riposo.
nulla è facile più che la lusinga.
vola, o bella Lucinda. I brevi instanti
come impieghi in tuo pro? Come in mia pace?
costa un’infedeltà che al mio la chiedi!
La chiedo al tuo, sol perché t’amo e solo
perché nel mio diletto amo il tuo bene.
lasciami il mio Cardenio. Ei sol mi piace.
Quel che solo diletta, è un falso bene.
Vedo il tuo amor. Vedo la tua grandezza;
e ne la man, che stendi ad innalzarmi,
il tuo stesso amator già te ne assolve.
S’è ver che t’ami, a lui più grato
esser deve il tuo ben che il suo diletto.
Vuoi troppo generoso in lui l’affetto.
E s’ei per l’util tuo non ha virtude,
tu per la tua fiacchezza avrai più amore?
Da risolver ha tempo il dubbio core.
(Comincia a vacillar chi vuol cadere).
Tempo ti diedi e non ritratto il dono.
Saprò farne buon uso; e l’opra intanto
meglio consiglierò co’ miei pensieri.
Amor siede in quegli occhi e vuol ch’io speri.
Si, spererò; né mi lusingo invano.
certa vid’io serenità che parte
Specchio e immago de l’alma è la pupilla.
l’empio Pandafilando ormai si conti.
Qui nel pubblico albergo, ove i tuoi passi
l’aio tuo già precorse e ’l tuo scudiere.
In quell’albergo? Ah! Sancio. Il vedi? (Sottovoce a Sancio)
E mi sento tremar da capo a piedi. (Sottovoce a don Chisciotte)
Quello tu chiami albergo? Egli è un castello
tutto di bronzo e pien d’incanti. Io stesso
provai strane avventure e grandi impegni.
che là dati mi furo, è d’onor mio.
Fai ben. Le bastonate e la coperta (A don Chisciotte sottovoce)
voglio tacer per mio decoro anch’io.
Grazie ti rendo, o ciel. Sancio, la lancia. (Vedendo venir Rigo)
Che fia? (Sancio va per dar la lancia a don Chisciotte)
Lascia, o regina. Il traditore
lancia non ha. Mi basta il brando. Adesso
A me cedi quell’elmo o te difendi
da’ colpi miei. (Va contro di Rigo)
Taci, gigante iniquo. A me ben tosto
quell’elmo d’or che usar solea Mambrino.
Guardami ben. Non son gigante. Io sono
un barbier che men vo pel mio cammino;
e questo elmo non è ma il mio bacino. (Mostra il bacino)
Sancio, costui non è un gigante? Parla.
Un barbiere è costui, quello un bacino.
Lope ha gli occhi incantati. Or tu decidi. (A Dorotea)
(Secondarlo convien). Quegli è gigante,
non de’ più grandi ma è gigante; e quello
non è un bacin ma un elmo.
la sua sentenza. Giudicar non puote
il bacin d’un barbier chi non ha barba.
Questa giudicherà. Su. Mano al ferro.
Ferma. Tu sai che ogni altra impresa è tolta
al tuo braccio, al tuo cor, se pria non vedi,
mercé di lor, Micomicona in trono.
Pria di te vien quell’elmo. Io ne giurai,
la famosa conquista. O l’elmo o mori. (Va contro di Rigo)
Prendi, assassino. (Rigo getta il bacino e fugge)
Ma caro costeratti il mio bacino.
Vediam. Mi par che la metà vi manchi. (Guardano il bacino)
che non sapea di sì gran gioia il prezzo,
gran parte ne guastò. Ci vuol pazienza. (Se lo mette in capo)
Quanto bene mi va! Par fatto a posta.
Rinforza la mia speme un tanto acquisto.
de la mia Dulcinea tutto lo deggio.
ne’ più fieri cimenti è ’l tuo bel nume.
di errante cavalier, sceglier fra l’altre
ed a lei consacrar le tue vittorie.
Belianise così, così Esplandiano
e Lanzerotto e Palmerin facea.
Tu pur ciò fai? Ten lodo; e solo io dico
che molto avventurata è Dulcinea.
Quanto ben lo lusinghi! (A Dorotea)
e in un la compatisco. Or più ti onoro (A Dorotea)
in udir che sì giusta, ancorché donna,
de la cavalleria serbi l’idea.
Ah! Potessi cambiarmi in Dulcinea. (Amorosamente a don Chisciotte)
Ti dico ch’è un castello. Incanti e mostri
e ’l folle amor d’una gentil donzella.
Di ciò ti lagni? O dio! Convengon troppo
le avventure amorose a un don Chisciotte.
Lo concedo e lo so. Poteva amarmi;
ma tacer l’amor suo dovea colei.
Difficile contegno a chi ben ama.
Venir di notte e sola a lusingarmi?
Modestia e discrezion voglion ch’io taccia.
Gran discolpa ha l’amare un degno oggetto.
Sol Dulcinea è ’l mio amor. (Parlo pur chiaro). (A Dorotea)
Fosse stato sì fido il mio Fernando. (A Lope)
Vieni, signor. Castello o albergo ei sia,
là ti aspetto, o a goder breve riposo
del tuo sommo valor. Chi te ne prega
non ha di Dulcinea... non ha la sorte; (Dorotea sospirando)
ma forse ha più di lei l’alma gentile
e più tenero il cor. Pensa ch’io sono
regal donzella e mio campion tu sei.
sanno il loro dovere i pari miei.
Per me, Lope, la siegui. Affar non lieve
con Sancio qui per poco ora mi ferma.
Andrò; ma tosto vieni. A la regina
lunghi son, te lontano, anche i momenti.
del suo amor ti favella e del mio merto,
a lei togli ogni speme. Io non vorrei,
per serbarmi fedele a Dulcinea,
con aperta ripulsa a una regina.
L’una e l’altra ad un tempo amar non puoi?
Lo fan pur tanti e tanti.
Ma ciò non fanno i cavalieri erranti.
Amico, addio. (Parte Lope)
ch’io perdo, nel servir qui la regina,
temer mi fa di Dulcinea lo sdegno.
che la carne perdé per seguir l’ombra.
Non sazia il vento; e non fa pancia il fumo.
Co’ tuoi pazzi proverbi or che dir vuoi?
e semini ’l tuo grano in su l’arena.
Se parli mal, ti spieghi peggio.
Tu sei quel cane; è Dulcinea quell’ombra;
Micomicona è quella carne. Intendi?
Vo’ dir che in lei non v’è sostanza. Eh! Segui
piovuta a noi dal cielo. Ella è gentile;
sa di cavalleria; par nata e fatta
solo per esser moglie a don Chisciotte.
con la sua quintanona, io la rifiuto.
Così si estingueranno i donchisciotti.
Ciò tolga il cielo. Al ben del mondo io debbo
la mia razza immortal; ma a Dulcinea
ne riserbano i fati il grand’onore.
nel grano il loglio e ne l’inchiostro il latte.
Dulcinea ch’è una bifolca...
Rozza, malfatta ed ignorante...
Sucida, sporca ed incivile...
Non posso più. (Si avventa a Sancio e lo percuote con pugni)
Signora Dulcinea, mai più. Perdono.
Sorgi. Or bacia la mano a Dulcinea. (Sancio si alza)
Bacia la mia che per la sua ti porgo. (Sancio s’inginocchia e bacia la mano a don Chisciotte)
Mai più né in mal né in ben di lei non parlo.
Tu vedi, o Dulcinea, come io difenda
Lascia che in rivederti al sen mi stringa
de la bravura e del valor l’esempio.
che, qual sol ne la sera, in ver l’occaso
va la cavalleria. Non è più il tempo
de gli Arturi famosi e dei Tristani;
Sì, speriam. Tu, che ne sei
grande ristaurator, puoi far che ancora,
l’alta cavalleria risplenda al mondo.
opportuno a goder la nobil festa
che ad una mesta dama offre un signore,
vago di rallegrarla. Eccoli appunto.
scemando in te il rigore, in me la speme.
E fausto il chiedo ai numi.
ch’errante cavalier si chiama e vanta.
de la cavalleria l’onore e ’l pregio.
Sento che mi conosci. E tu chi sei?
Ma non errante. Io ’l sono;
e ’l sono in tuo servigio, ove tu ’l chieda.
il tuo valor. (A don Chisciotte) Strana figura è questa. (A Fernando)
Mi dicon che sei mesta. Ove ti giovi (Lucinda guarda don Chisciotte con attenzione)
il braccio mio, tu ne disponi. Io sono
de l’afflitte donzelle il difensore.
Ella ti guarda. (A don Chisciotte)
Come l’altre, d’amore anch’essa è punta. (A Sancio)
Che bel volto! (A don Chisciotte)
Egli è bel; ma che far posso? (In questo mentre vanno a sedere Lucinda e Fernando)
(O cara Dulcinea, quanto mi costi!)
Donzelle e cavalieri, arme ed amori.
Degno di don Chisciotte. Io qui mi assido.
No. Mendo dirà tutto. Attenti. Aprite. (Si apre il prospetto e si vede un teatrino con la tenda abbassata)
dal prode don Gaifero, amante e sposo,
Viva. L’istoria è bella e so ch’è vera. (Si alza la tenda del teatrino e si vede una sala regia con un re moro in trono, molti mori d’intorno ad esso ed una donzella inginocchiata a’ piedi del trono)
la libertà perduta invano implora.
Buon per te che non v’era un don Chisciotte. (Si cambia la scena in campagna con veduta di città e passa un cavaliero a cavallo che porta in groppa Melisendra)
che la sua sposa ha tolta ai mori; e seco
sul rapido destrier la tragge in salvo.
Va ben, va ben. Felici amanti, addio. (Si cambia la scena e comparisce piazza nella città con molti mori armati)
Fuggita Melisendra, ecco lo sdegno
del re che freme, ecco il tumulto orrendo
del popolo infedel che, inteso il suono
di tutte le campane, accorre a l’armi.
è contra il ver. Non han campane i mori.
qui non ci vuol. Ne’ gran teatri ancora
son l’opere talvolta e le commedie
di mille inconvenienze e d’altri errori;
e pur sono ascoltate. Alor ch’ei piace,
lo sproposito ancor si soffre e passa.
Vero è l’esempio. Io già m’acheto. Avanti. (Si muta la scena e si vede campagna con molte squadre di mori a cavallo)
che de’ miseri amanti in traccia vanno.
Già son loro a le spalle. Ahi! Don Gaifero!
E che? Non fia mai vero (Cava la spada)
che sotto agli occhi miei coppia sì bella
debba perir. Indietro, o cani, indietro. (Si accosta al teatrino)
cadeste pur. Già tutto il campo è pieno
di membra lacerate e teste rotte.
Questo, iniqui, è il valor di don Chisciotte.
Viva, viva il patron. Poter del mondo!
Non lo vidi mai più sì furibondo. (Parte Sancio)
dopo tanta rovina e tanto scempio.
Fernando è pronto a riparar quel danno.
(Fingasi quel piacer che può ingannarlo).
Del cavaliero il bel furor mi piacque.
finalmente non è che una pazzia.
noto abbastanza è l’uso e note l’arti.
Né temi che il tuo volto egli ravvisi?
strane vesti ho già pronte e strani arnesi.
ben trasformati in varie guise i servi.
Tutto ben disponesti. Amico, a l’opra.
trarlo potremo al patrio tetto in salvo.
serbi ne’ mali suoi tanto di pace
che il nostro intento ella sì ben secondi.
Io tel dirò. Donna in amor tradita
trova il suo duol maggior ne la rivale
che il bene a lei promesso usurpi e goda.
In Lucinda, ch’è fida al suo Cardenio,
Dorotea più non vede e più non teme
tempra i mali di lei lusinga e speme.
Ah! Lope. Vieni, vieni. (Uscendo dalla stanza di don Chisciotte)
Don Chisciotte combatte a corpo a corpo
col gigante crudel Pandafilando.
duemille miglia? Eh! Va’. Sogni o deliri.
Ferma. Non fuggirai da don Chisciotte, (Don Chisciotte di dentro)
mal nato cavalier, mago insolente.
Io sogno? Udiste? Egli è il gigante. Io stesso
già ferito lo vidi; e perché forse
dal suo ventre squarciato uscir mirai
Me infelice! (Entra correndo nella stanza di don Chisciotte)
Fellone, invan resisti. (Don Chisciotte di dentro)
Ah! Lope. Ah! Sancio, (Torna fuori affannato)
son rovinato. Il maledetto pazzo,
con la spada che stringe, ha già forati
molti degli otri, ove il mio vin tenea.
Non osai, così fieri e così cieco
i colpi ei vibra e gira intorno il brando.
Pur giaci a terra. (Don Chisciotte di dentro)
Or gli altri ad uno ad uno andrà forando.
Quanto a noi qui succede, è tutto incanto. (Don Chisciotte esce in farsetto ed urta Lope)
Terminata è l’impresa. Or mi conviene
da la regina mia prender congedo.
Sancio, non vedi? Ei dorme ancora. Ei dorme. (Guardando don Chisciotte si avvede che dorme)
Pandafilando, o gran signora, è morto. (A Mendo)
Senti? Non lo diria, se il ver non fosse. (A Lope)
lodato il cielo e Dulcinea. Regina,
piena vittoria; e in testimon di questa
reco al tuo piè del traditor la testa. (Cava fuori da un fazzoletto una pignatta e la mette a’ piedi di Mendo)
Vedi qual testa, vedi. (A Sancio)
Or vivi e regna in pace; e se ti avviene
che ti faccian mai torto altri giganti,
scrivimi; e lascia fare a don Chisciotte. (Don Chisciotte, volendo baciar le vesti a Mendo, creduto la regina, viene da lui rovesciato in terra)
Ferma, Micomicona. Aimè! Che veggio? (Don Chisciotte si risveglia)
Io lo risveglierò. Vo’ ch’ei ripari
con le offese degli altri ogni mio danno.
Vedi che un pazzo egli è.
giudice io sono e so far savi i matti. (Parte infuriato)
Addio. Placar convien l’ira di Mendo. (In atto di partir a don Chisciotte)
Va’, placa il suo furor. Tale avventura
mai non accadde a un cavaliere errante. (Lope parte)
Ne puoi temer? Là cadde il busto esangue.
Anche questa è magia. Vegliando il vinsi.
Quel n’era il capo, or più nol par. Dai maghi (Accennando la pignatta)
tutte le imprese mie sono disfatte.
molte si credon teste e son pignatte.
Quella era testa. Or tu la prendi. Andiamo.
A Dulcinea. Vieni ad armarmi.
son gastighi del ciel, perch’io non corsi
tosto a la bella. Andiam. Qui più non voglio
degl’incanti restar ludibrio e scherno.
Muor di morte improvisa il mio governo. (Porta seco la pignatta)
Tutti già preme alto silenzio. Il tempo
non è lontano; e se qui meco attendi,
spettatrice sarai di nostra fuga.
Fuga ch’è piacer vostro e mia vendetta.
L’uscio ecco aprirsi; ecco Lucinda uscirne.
Fernando assolvo del commesso errore.
Lucinda, abbiam propizio il cielo e amore. (Esce Lucinda da una porta)
Qual giovane beltà trovo al tuo fianco? (Osservando Dorotea)
miseri rese un tuo mal nato affetto!
fugge la sorte al trascurato.
Nuova sciagura. Ecco Fernando.
Stanchi non siete ancor de’ mali miei.
Chiudete il varco ad ogni passo. E dove (A Lucinda)
senza di me? Cardenio è teco? A tempo,
per liberarmi da un rival noioso
e per punire una beltade ingrata,
nostra amistà deggio rispetto e ’l serbo.
l’andata serie. Or con novelli insulti
non provocar mia sofferenza a un atto
trovo nel seduttore e nel compagno
(Importuni rimorsi, io non vi ascolto).
Tu troppo ingrata sei. (A Lucinda) Tu troppo audace. (A Cardenio)
mi vendichi il mio acciar. (Dando mano a la spada)
Ferma e da questo, (Gittandosi in mezzo)
da questo seno il tuo furor cominci.
(Quale inciampo?) Miei fidi...
Odi, o Fernando. (Snudando uno stile)
Questo dovea ne le tue vene immerso
contaminar quell’ara ove guidarmi,
vittima più che sposa, era tuo voto.
esser doveano i primi frutti.
Redine grazie al ciel. Trovo in Cardenio
il perduto mio sposo. A lui congiunta
vuoi staccarmene ancor? Già stringo in pugno
la mia difesa e la mia morte insieme.
Vengano i tuoi, vieni tu stesso. Al primo
passo vibrerò il colpo in questo petto;
e daremo ad un tratto insigne esempio,
io di un amor fedele e tu di un empio.
Ma partì la crudele; e de’ miei scherni
già esulta e gode. E ch’io vilmente il soffra?
Seguane tutto. Il più funesto oggetto
Ah! Dove ti trasporta impeto cieco?
Nulla più ascolto e le mie furie ho meco.
e che fede pur diemmi, amata destra,
Vedi a quai vite insulti; e saggia affrena
un’ira a te oltraggiosa, altrui funesta.
Partì Lucinda e Dorotea mi arresta.
Sì, Dorotea ti arresta; ella ti parla;
Me più non vuoi? Mi acheto e mi fo legge
del tuo solo piacer, suddita e serva.
Te non muova il mio amor. Muovati il giusto,
muovati l’onor tuo. Rispetta i sacri
legami di amicizia e di onestade.
esser può tuo delitto o tuo martoro.
Cieli! Hai ragion; ma ancor Lucinda adoro.
Ingrata ella mi sembra ed incivile. (A Sancio)
Respirate, o miei voti. Alma turbata
non è sorda a ragion, non è ostinata.
Forse per regalarmi è imbarazzata. (A Sancio)
s’altro pensier mi tolse a lui.
pensier di ricompensa a l’opra mia,
tu puoi lasciarlo. Io di giganti uccisi
non faccio mercanzia. Sol vo’ la gloria.
L’avrai, poi che fia spento il mio nemico.
T’infingi ancor? Pandafilando è morto.
e l’impegno finì. Regina, addio.
(Qualche nuova follia!) Fermati; ascolta.
Anch’essa è affatturata. (A Sancio) Io lo svenai. (A Dorotea)
Le ferite ne vidi, il sangue e ’l busto
per opra di magia tutto disparve
e ’l suo capo divenne una pignatta,
non so che dir. So che l’impresa è fatta.
(Secondiamlo). Colui che avesti a fronte
che ne prese la forma e le sembianze.
Purtroppo. Egli è Astarotte.
Bene. Anch’ei dir potrà chi è don Chisciotte.
Da un mio fedel che accerta
poco lunge da noi Pandafilando.
Regina, or del tuo amor parlar potresti.
Presto ei verrà. Tu, mio conforto e speme,
deh! non abbandonarmi. È tuo l’impegno.
Da questo braccio avrai salvezza e regno.
Ti ricordo il governo e mi ritiro. (A Dorotea e parte Sancio)
Dal braccio tuo? Fora più grato il dono,
se dal tuo cor venisse, ed io più lieta,
se te movesse amor, più che pietade.
(Ben ardita è costei; ma il suo ardimento
colpa è del mio gran merto; e le perdono).
Tu taci? Que’ begli occhi ancor mi nieghi?
(Troncar, troncar bisogna).
Sì, tosto verrà l’empio e questa destra... (Dorotea vorrebbe prender don Chisciotte per mano)
(Oh! La faccenda è lunga). Venga, venga.
Viva il nostro campion; ma intendi almeno...
(Eh! Finiamla una volta). Intendo tutto.
Intendo che ti piaccio; ed hai ragione
E tuo campion son io, quanto richiede
la mia gloria, il mio amore e la mia fede.
Stelle! Che ascolto? O ingrato! (A don Chisciotte)
No, non t’infinger. Va’. Colà ti chiama
la nuova amante. O gelosia crudele!
O ciel! Mal può tacer labbro geloso.
Parla, se vuoi; ma il duol trattieni almeno;
e per tuo onore e mio la voce abbassa.
ma il fiero duol de la mia speme uccisa
tener non so. (Non so tener le risa).
Sì dispietato a una donzella afflitta?
Se a me crudel tu sei, perché ti vanti
Troppo mi sei lontano. Ascendi, o prode,
alto è il balcon né so... Ma attendi, o bella. (Trova un banco e sopra di quello ascende alla finestra)
Eccomi. Or di’, che vuoi? Sei prigioniera? (Si presenta davanti alla finestra)
Fece la tua beltà le mie catene.
(Eccone un’altra). Io Dulcinea sol amo.
sol porgimi la destra o qui mi moro.
che il lasciarla morir fora impietade).
Favor ben singolar; ma non baciarla.
non concedei né meno a Dulcinea.
Guardala pur, stringila ancora, osserva
quanto è grande e robusta; e da la mano
argomenta il valor che sta nel braccio.
(Il colpo è fatto. Io mi ritiro e taccio). (Maritorne si ritira dalla finestra)
Sei contenta? Or mi lascia. Ah! Qui legato
al duro ferro è ’l pugno. Olà! Donzella.
Ella è partita. O che donzella infame!
Eccolo appunto. Al ladro, al ladro, al ladro.
Eh! No. Guardarmi ben. Sono il barbiere.
Gran disgrazia! Che fai? Di’, malandrino... (Rigo leva il banco di sotto a don Chisciotte e parte)
M’incomincio a pagar del mio bacino.
Aimè! Stirasi il braccio. O che tortura!
O che dolor! Io ben saper dovea
serbata ad altro braccio era l’impresa
né dovea più tornavi. Ah! Don Chisciotte,
farti incantar così? Poco giudicio!
Poca prudenza! Almen, come tant’altri,
m’avessero incantato a piana terra;
permette e fa ch’io sia incantato in aria.
Tu dai ferri lo sciogli. (Ad uno de’ suoi che si vedrà alla finestra)
Lodato il ciel, disincantato io sono. (Don Chisciotte è disciolto e cala a terra)
Or legatelo tosto. A la prigione
Peggior del primo, ecco il secondo incanto.
Stregon, fa’ pur di me quel che tu vuoi. (A Mendo)
S’io non fossi incantato, uh! guai a voi. (A’ servi che lo han legato)
per don Chisciotte; e basti.
l’invisibil salario offro ed impegno.
Ti accetto. (A Lope) Ei resti in libertà. Ma giuri
a me la pace ed il perdono a’ miei. (Don Chisciotte è disciolto dai servi)
Se vi perdona il cielo, io vi perdono.
Andiamo. Don Chisciotte, in gran periglio
de la cavalleria stava il decoro.
S’io non era incantato, oh! guai a loro. (Partono don Chisciotte e Lope)
L’archivio degl’incanti è questo albergo.
Dopo il padrone or lo scudier si burli. (Al veder Sancio)
(Per mia nuova disgrazia). Indietro, indietro.
Ti ascolterò; ma non venir più avanti.
Non ti bastan l’ingiurie a me già dette?
Forse strega son io per incantarti?
Non giurerei di no. So che qua dentro
tutto è diverso assai da quel ch’ei sembra.
Tu t’inganni. Io che sembro agli occhi tuoi?
E una donna infatti io sono.
Chi sa? Potresti ancora esser un drago...
un folletto... un... non so. Qui tutto è finto.
Tinto non è il mio crin, non è il mio ciglio;
bianca e rossa non son per minio e biacca;
non mi affogo per far linda la taglia;
per alzarmi non ho zoccoli ai piedi;
e veramente io son tal qual mi vedi.
(In materia d’amor siamo infelici
il mio padrone ed io). Ben. Che vorresti?
d’un illustre imeneo teco accoppiarmi.
(Queste parole son per incantarmi).
Non so. Parla più chiaro.
Del suo inganno primier forse pentito
vuol che in lui trovi il già perduto amico.
Chi d’amico divenne empio rivale,
da l’odio a l’amistà più non ritorna.
Non può nuocermi udirlo e può giovarmi.
E s’ei qui a nuove trame ordisce il filo?
Ho ferro da troncarne e stami e nodi.
Non paventar. Seco mi lascia e parti.
ottener non potrai da l’amor mio;
colà mi ascondo, ad ogni evento intesa.
Non va senza gran tema un grande amore.
Povero cor, non sei ben lieto; il sento.
se ti manca Fernando. Eccolo. O cieli,
Non si perde con pace un caro amico.
col bel nome di amico io più non oso,
la discolpa non reco o ’l pentimento.
Ciò che a te qui mi chiede è ’l mio gastigo.
(Non anche intendo di quell’alma i sensi).
perfido seno il punitore acciaro.
Solo il colpo, che imploro a un’amistade
esser può mio riposo e tua vendetta.
Fernando, prence e mio, dirollo, amico,
che a la salda amistà, di cui mi onoro,
diè più pena che sdegno il tuo delitto,
morte a me tu richiedi? A me che, in onta
la mia, la mia darei per la tua vita?
O sovra ogni altro generoso e forte,
la magnanima impresa. Altro deh! fosse
rimedio al dolor mio! Senza Lucinda
viver non posso. O cedila al mio amore
Cardenio, amico, o dammi vita o morte.
mi stimi o sì crudele? In me pria volgi
quel nudo ferro. Eccoti il sen. Ferisci.
Perdonarti non posso un voto ingiusto
Difenderò fino al respiro estremo
Morrò ma col suo affetto; e tu l’erede
sarai de l’odio suo, non del suo amore.
Qual pena, o dio!... Vieni, deh! vieni, o fida
pugnan senso e rimorso, or tu rinforza
la più debole parte e la sostieni.
che in me fosse il poter, com’è il desio,
beltà negletta. A l’amor mio sincero
Se il mio sangue può farlo, escami tutto
fuor de le vene il sangue. Il fatal colpo
opra sia del tuo braccio. Ecco a’ tuoi piedi
tel chiedo ultimo dono. A me sol basta
che l’odio tuo non mi accompagni e segua
chiuder non posso la mia vita e bacio
la cara destra, anzi che cada estinto
Hai vinto, o cara, hai vinto.
sì gravi torti il merto, amante e sposo.
Tua sarò in ogni stato umile ancella.
Come ah! potei tradire alma sì bella?
(Da l’altrui già risorge il mio contento).
sol manca il tuo perdono. È ver che offesi...
Offese non rammenta un vero amico.
Ben le rammenterà la tua Lucinda.
con l’alma di Cardenio. Amo e disamo
col suo voler. Le andate cose asconda
perpetua notte di profondo obblio;
in quanto il ricordar gli avversi casi
più condisce del bene i godimenti.
verrà Pandafilando? In aspettarlo
io perdo il tempo e ne patisce il mondo.
Ridi, o Lucinda; or son regina. Ammiro (A don Chisciotte)
del mio sostenitor. Verrà ben tosto
al suo gastigo il traditore iniquo.
Quanto udirete è un innocente inganno (A Fernando ed a Lucinda)
Dorotea ben si adatta al preso impegno. (A Lucinda)
Facile è tutto al suo vivace ingegno. (A Fernando)
gli strani abbigliamenti ebbe la bella?
gli ospiti suoi con varie feste onora.
Verrà ma ancor non vien. Quel suo Astarotte
Del gigante fellon questi è un araldo.
de l’eroica mia bile il moto e ’l caldo.
Ditemi, chi di voi è il cavaliere
tratta così Pandafilando il crudo. (Rigo attacca il cartello, la mazza ed il corno)
Manda il cartello? (A Rigo) Egli è costume antico. (A Dorotea)
Leggi; e saprai ch’ei non ti stima un fico.
Temerario. (Sancio vuol percuotere Rigo ma è fermato da don Chisciotte)
la ragion de le genti hanno gli araldi.
«Errante cavalier». Sa il suo dovere. (A Dorotea)
osi d’aver Pandafilando a fronte,
afferra questa mazza e ’l corno suona».
Questa è solita frase e usato stile
Va ben. Finiam. «Tosto ei verrà e da lui (Don Chisciotte torna a leggere)
gastigata vedrai la tua pazzia».
Pazzia? Questo non è né stil né frase
da cavalier. L’offender con parole
mostra braccio impossente e cor plebeo.
Tutti sono così. Ma l’arrogante
L’unica mia speranza è la tua fama. (A don Chisciotte)
Regina, ecco in tuo pro la mazza afferro. (Don Chisciotte prende la mazza)
Mora Pandafilando; e viva e regni
vendicata da me Micomicona.
Viva con lei del tuo valor la gloria.
Avrem tu la vittoria, esso la morte,
la regina il suo regno, io ’l mio governo.
Suona, suona, signore; e suona forte.
Or di quella che infonde a me il valore, (Don Chisciotte prende il corno)
il dolce nome invoco; e suono il corno. (Don Chisciotte suona il corno)
De la maggior ventura è questo il giorno.
Facciasi. Ancor non vien? Saria mai sordo? (Don Chisciotte suona)
Se mal non mi ricordo, in questi casi
scrivon che l’uso è di sonar tre volte.
Gran donna! Hai ben ragion. La terza è questa. (Don Chisciotte suona)
Sancio, prendi. Egli ancora è senza brando. (Don Chisciotte dà la spada a Sancio, vedendo venir Ordogno)
che vuol meco pugnar da corpo a corpo?
E don Chisciotte io son per ammazzarti;
e qui pubblicamente ora ti sfido.
fermar convien di nostra pugna i patti.
a lei tu renda il regno. (Accennando a Dorotea) Indi tu vada
a Dulcinea che del Toboso è il giglio;
a quella per mio cenno e da me vinto
ti mostri e ti confessi; e in atto umile
le baci, non la man, ma il piè gentile.
A tutto adempirò, se fia ch’io cada.
Or ecco i miei. Se vincitore io fia,
tu la legge da me prender dovrai.
com’io m’impegni, ascolta. Io don Chisciotte,
da errante cavalier, prometto ut sopra.
Or via. (Governator Sancio già parmi).
Al cimento, al cimento, a l’armi, a l’armi.
il rito più solenne. Alta regina, (Don Chisciotte s’inginocchia a’ piedi di Dorotea)
ma di tuo cavalier pria mi concedi
il titolo ed il fregio. A le tue piante
se vantar non poss’io quel di tuo amante.
(Rider convien). Giusto è ’l suo voto, o bella.
il non averti amante. È nostra gloria
l’averti cavalier. Tal ti accettiamo.
E questo ne sia il fregio. (Dorotea gli mette al collo una sciarpa)
Lo bacierei ma Dulcinea non vuole. (A Dorotea)
A me lo scudo. (Ordogno prende da’ suoi lo scudo)
A me pur, Sancio, il mio. (Don Chisciotte lo prende da Sancio)
(Or tempo è, Dulcinea, di rinforzarmi).
Al cimento, al cimento, a l’armi, a l’armi. (Suonano le trombe e siegue il combattimento, nel quale resta perditore don Chisciotte)
Vinto sei. Tal mi cedi o qui t’uccido.
Don Chisciotte, è ver. Sei vinto.
(Questo degl’incantesmi è il laberinto).
Tale mi rendo. (O impresa a me funesta!)
Di me, tuo vincitor, la legge è questa.
I libri miei legger non posso? Un anno
senz’armi e confinato? Andar degg’io,
Che piacevole idea! (A Fernando)
Mi tragge al riso. (A Lucinda)
potria punirvi e lo farà. Regina...
serba ancor ne’ disastri il suo sereno.
Non so che dir. Ch’io sia già vinto, il veggo;
ma intenderlo non so. Sol creder posso
o che incantato io sono o che tu stessa
dei forse aver qualche gran colpa adosso.
Un anno in casa a un cavaliere errante?
Un anno in casa? Andiam. Sorte assassina!
Maledetta l’impresa ed il gigante. (Parte don Chisciotte con li seguaci di Ordogno)
Ad urti, a calci, a pugni anch’io ti sfido. (A Sancio)
No no, sol con la spada io mi cimento.
(D’andar prigione anch’io non ho bisogno).
Abbiam l’intento. (Ordogno si scuopre)
E v’ha gran parte Ordogno.
Ordogno era il gigante? O che magia!
De l’opra mia frutto vi renda il cielo.
che geloso egli osserva, ancorché folle,
l’amico al suo soggiorno e risanarlo.
Lodo tanta amistà. Mendo, che brami? (Venendo venir Mendo)
tutti i miei danni; e a tua bontà ciò deggio.
Bella, Cardenio, in guiderdon di quanto
opraste già, lieti vi faccia il cielo.
Di Fernando l’amor fa la mia sorte.
Di Lucinda la fede è il mio contento.
E l’amor di Fernando in questa destra
con la fede di sposo a te si rende.
E la fé di Lucinda a te si mostra
in questa man ch’è testimon del core. (Si porgono le destre)
Trionfa con la fede oggi l’amore.
Mendo, fra tante gioie a me concedi
ma del nostro imeneo già fatto è ’l groppo.
Io n’ho abbastanza d’una e ancor di troppo.
rare avventure o buone o ree provai
dal dì che professai cavalleria,
io ne lessi sui libri esempi uguali;
ma di questa nol trovo; e son sicuro
che veduto mai più, mai più non s’abbia
errante cavalier dentro una gabbia.
(Ma che? Quest’avventura è più famosa
perch’è più stravagante). A che mi guardi, (Ordogno si accosta alla gabbia)
gigantaccio malvagio? (Ad Ordogno)
queste tue frenesie. Me ben ravvisa;
non son Pandafilando, Ordogno io sono.
tu di avermi incantato ora ti penti
e vorresti placarmi. Attendi, attendi
di mia fatal prigion, poi ci vedremo.
Io sono Dorotea, sposa a Fernando.
Fai bene. Or che disperi il patrio regno,
di regina tu ascondi il grado e ’l nome.
Di vendicarti ho già pensato al modo.
Eh! Questa è Dorotea, la sposa mia.
Ella è Micomicona; e s’è tua sposa,
il vostro matrimonio è una magia.
A me porgi la man. Vedi or gl’incanti?
Non mi parlar d’incanti. Ordogno è quegli
tanto quant’io son Lope; e solo è stato...
Vanne, vanne, meschin; sei fatturato.
Ma voi perché ridete, empi scudieri? (A Cardenio e a Rigo)
son lo scudier di lei; Cardenio i’ sono.
ti lasciai dal balcone in aria appeso.
a cui per compassion la man porgesti.
non un bacino. Un satiro tu sei, (A Rigo)
non un barbier. Tu un perfido scudiere (A Cardenio)
caduta in povertà, lascia e rinega.
Tu l’afflitta donzella esser non puoi; (A Maritorne)
e se quella esser vuoi, sei una strega.
il gigante, l’impresa, la regina
e tutto il resto in sol tuo pro si finse.
né diedi il foglio a la tua dea villana.
O bestemmia profana! O stelle! O fati!
Voi siete tutti pazzi e deliranti
o siete, giuro al ciel, tutti incantati.
A la Mancia, a la Mancia; o pace o tregua
colà faran con lui le sue pazzie.
O regina... Pazzie? Talpe voi siete
de la cavalleria. Le imprese mie,
che voi dite pazzie, sono e saranno
d’invidia e di stupore oggetto al mondo.
E del gran don Chisciotte, uguali a quelle
che degli altri miei pari il mondo onora,
un dì se ne faran famose istorie.
E un dì se ne faran commedie ancora.