Metrica: interrogazione
789 endecasillabi (recitativo) in L'Atenaide Venezia, Pasquali, 1744 
di questo dì la chiara luce, o padre,
favellarti da padre, ultimi istanti
vassalla e serva, a te d’intorno accolta
s’affollerà. Miei detti, Eudossa, ascolta.
Attendo i tuoi consigli, anzi gli bramo.
Atene è la tua patria; ivi sortisti
col nome d’Atenaide illustri fasce
ma non regali. Io ti fui padre.
                                                       E guida
agli arcani mi fosti alti recessi,
ove umano pensier rado s’innalza.
esaminai. Quindi previdi il trono
vidi il tuo fato. Assai più chiaro il vidi
nel tuo bel volto e nella tua grand’alma.
Beltà e virtude in te crescean con gl’anni,
quando del re de’ Persi il figlio erede...
(Varane, il so, fatal memoria).
                                                        A noi
la regal mente. Egli ad un punto stesso
                                 Col tuo consenso
anch’io (stelle!) l’amai.
                                            Piacquemi un foco
che potea farti illustre; e già mirarti
a me parea sul perso trono assisa.
e l’impuro vapor sparger potea
macchie eterne al mio sangue, alla tua fama.
il nome d’Atenaide in quel d’Eudossa.
T’offro a Pulcheria, ella al fratello. A lei
Proposto appena, è stabilito il nodo
che ti fa augusta. Il tuo destin già è fermo,
sposa a Teodosio e imperatrice or sei.
saggia virtù. M’odi e nell’alma imprimi
Parli pur Leontino, Eudossa è figlia.
T’ama cesare, è ver. Teco divide
nel giovane monarca i nodi antichi,
se non sciorre, allentar. Tu sempre fida
sino la sua incostanza; e quando ancora
tu lo vegga avvampar d’altra beltade,
non l’irritar con importune accuse.
più molesta divien. La sofferenza
sol fa arrossir l’infedeltà d’un core.
E gelosia mai non racquista amore.
A Teodosio piacer fia di quest’alma
la tua benefattrice e la tua augusta.
                               Né sien tua cura i gravi
pubblici affari. A tuo poter sostieni
la man che più t’insidia. I casi avversi
né superba i felici. Anche dal trono
al nulla, onde sortisti, il guardo abbassa.
sia di Teodosio il vero bene. A lui
la pace, il giusto e la pietà consiglia;
degna del grado tuo renditi, o figlia.
                                  Di genitor, che t’ama,
io sarò tuo vassallo; e l’esser padre
non farà ch’io ti neghi il mio rispetto.
                                          No no, cotesto
                                 Padre e signor...
                                                                 Ti lascio;
ma ti lascio con pena. Ah! Soffri, o figlia,
nell’estremo congedo il pianto mio;
prendi l’ultimo amplesso. Eudossa, addio.
immagine odiosa. Assai già tolto
m’hai di pace, di gloria e d’innocenza.
questo sia il primo frutto, amar Teodosio,
applaudami la Grecia; e il fier Varane
del diadema de’ cesari non sono,
salir moglie e regina anche al suo trono.
                             Augusta principessa.
Questo è il lieto tuo dì. Bisanzio applaude
di Teodosio all’amor, d’Eudossa al merto.
passerà sul tuo crine. Appena basta
al concorso de’ popoli giulivi
la reggia intera; e ad onorar tue nozze
oggi a noi vien, sia caso o sia consiglio,
di Persia il prence e d’Isdegarde il figlio.
i tuoi sponsali spettator più illustre. (Sopraggiunge Marziano)
                      Ah! Principessa. Egli a noi viene,
                             (Tutto è palese).
                                                             Assolvi
dall’annunzio funesto un cor fedele.
No no, libero parla. Il perso erede
                                      Il tuo imeneo richiede.
ne corre il grido. Cesare v’applaude.
                                     E Marziano ancora?
Marziano è vassallo. (Il duol m’accora).
                          Amica, onde il pallor...
                                                                     Perdona;
il nodo, che ti toglie al greco impero,
T’ama il german. Di che temer potrai?
Tutto non vedi il mio destin né il sai.
Marzian sì pensoso? Il ciel mi chiama
Ne gode ogni alma; cesare v’applaude;
                                    Ah! Principessa,
caler ti dee d’un misero vassallo,
a Teodosio dirò, dirò all’impero,
tua prima cura e tuo maggior pensiero.
ad Isdegarde sarò ingrata? In fronte
che fa servir di Teodosio al sangue
quella parte di mondo, ov’ei non regna?
Parla, o duce, consigliami; ma solo
sia del consiglio tuo norma ed oggetto
pubblico zelo e non privato affetto.
Il tuo cor, non il mio, vorrei che guida
e fosse la ragion del tuo rifiuto.
questa s’oppone a’ tuoi. Sol col tuo senno
si regge augusto e sol col tuo l’impero.
Se tu parti, ei vacilla; e se pur brami
sposo al tuo letto, ei non si scelga altronde
che tra i sudditi tuoi. Regna con esso
anche in grado di sposo un tuo vassallo.
Augusta, ne’ miei detti i voti suoi
viver devi e morir, vergine o moglie.
è tutto zel ciò che favella?
                                                (Oh dio!)
lascia penar con innocenza il core
e interpreta per zelo anche l’amore.
non vil mercé. Vattene, o duce, adopra
l’arte, il poter, perché si rompa il laccio
che mi stringe ad altrui. Tuo ne sia il merto.
toglimi, te ne prego e tel comando.
E se il suo non ti basta, ecco il mio brando.
così t’abusi? Probo, anche i favori
offendono, non chiesti; e tal son io
colpa divien, quando è soverchio. Attenda
al suo sovran sia più modesto e taccia.
                                E tu la rendi ingrata
                              Parlan nostre opre; ed ella
ne vede il prezzo e ne distingue il merto.
parli un suddito labbro. I torti suoi
                            Il grado suo mel chiede.
meno fedel, se meno fossi amante.
                       In ogni loco ha Probo
                                      Piacemi; e altrove
dal tuo valor ne attenderò le prove.
vendicherà i miei torti. In te conosco
il nimico e il rival; tu sol m’involi
tua né meno ella sia. L’abbia altro amante.
L’abbia Varane. Al mio deluso amore,
servirà di conforto il tuo dolore.
per cui la innalzo a dominar ne’ Persi,
cieca resista. Ad imeneo più illustre
e nimico sì forte e sì guerriero
può costar sangue e pianto al greco impero.
(Sorte m’arride). Il tuo timore stesso,
v’oppone il suo voler, l’altrui v’oppone.
                                          E da qual core
che alle sue nozze insidioso aspira.
già m’arde una giust’ira; e stringo in mano
                                          Chi?
                                                      Marziano.
E Marzian sarà punito. Un duro
vegga Pulcheria al principe di Persia.
col militar comando, anche l’affetto.
Cauto oprerò. Simulerò l’offesa.
Parrà favore anche la pena; e un braccio,
non perderò né irriterò. Tu intanto
                                               A me ben noto
nella sua corte, ove l’onor sostenni
offri quanto dar può cesare e il trono,
che amico a lui, grato a Isdegarde io sono.
l’alma mi brilla in petto. Amata Eudossa,
l’impero del tuo cor che quel del mondo.
Principe illustre, a sua gran sorte ascrive
l’alte sue nozze ad onorar tu venga.
fortunati presagi a quel destino
E qual altro destino a noi ti dona
del tuo col nostro impero? (Egli si tenti).
Ah, Probo! A voi non amistà, non altra
politica ragion qui mi fu guida;
                                    (Povero core!)
vive tra voi. Tal me ne giunse il grido.
Senza colei, per cui vo errando intorno,
m’è odioso il respiro, infausto il giorno.
ti precorre la luce. Il so, gran fregio
di questa reggia è la beltà che adori.
                            Ella tua fia. T’impegno
(Per pena del rival perdo me stesso).
(Che miro, o dei! Quegli è Varane).
                                                                  Ah! Probo,
O Leontin, molto bramato indarno!
                                            Eh, lascia questi
Dimmi Varane, amico, figlio o s’altri
nomi d’amor può suggerirti il labbro.
qui grave affar seco mi chiede alquanto.
che il mio piacer nella sua reggia io spero;
e fa’ ch’egli vi dia l’augusto assenso.
(Piangi, amor mio, ma il mio rival non rida).
O Leontin, dov’è Atenaide?
                                                   Dove
è Leontino, ivi Atenaide è sempre.
Ma più non la vedrai, credilo a un padre.
Chi negarla al mio amor? Chi tanto puote?
                             Non ti lusingo, o prence.
Fuggila per tuo onor, per suo la fuggi.
Il suo fato, il mio amor vuol ch’io la cerchi.
L’amor tuo s’avvilisce; ei cerchi oggetti
Tutto il mio fasto è l’adorarla. Ah! Cessa
di più temer. Vengo a recarle un core
pari alla sua virtù. Con minor prezzo
non l’error mio, torto ed error che tanto
a me costò di pentimento e pianto.
D’augusta gl’imenei l’applauso avranno
Ma non quel del mio cor. Voglio Atenaide.
                                         A’ miei lumi
tutto è oggetto d’orror, se lei non veggio,
Deh, non soffrir ch’io te ne preghi indarno.
la mia grandezza, onde a pregar m’ascolti.
al paterno voler più non soggiace.
Decretato è di lei; soffrilo in pace. (In atto di partirsi)
soffrir non può d’aver pregato indarno.
Chiesi Atenaide ed Atenaide io voglio,
torla con nova fuga agli occhi miei,
parte non fia sì solitaria e strana,
dove non giunga il mio furor. Cercarti
oltre ogni lido, oltre il confin del mondo.
Nella reggia di cesare non temo.
a me chiedi Atenaide. Il suo destino
più da me non dipende; e se ancor fede
vanne a Pulcheria e sol la chiedi a lei.
A cesare si vada; ei mi conceda
sia felice il suo amor, sia lieto il mio.
Principe amico, ogni momento è pena
che a noi tarda il piacer dell’abbracciarti.
Pulcheria ed io tutto dobbiamo al figlio
                                            Empie il tuo nome
e Bisanzio vedrà con lieto ciglio
di cento eroi te invitto erede e figlio.
ben fu presago il cor che solo in questo
Questo misero cor lunghi sostenne
fieri naufragi; ei qui ne spera il porto.
ad un talamo solo arder due tede.
                           (Pena il rival).
                                                        Ne attesto,
principe, il ciel; la real fede impegno.
piena felicità solo il tuo voto.
Pende da te della beltà che adoro
                         Può sperar tutto il grande
                            Ed ottener può tutto.
prima il tuo nodo. Io qui t’indugio un bene
che fa troppo penar con la dimora.
A tuo piacer quella è tua reggia, prendi
ivi riposo, ivi le leggi imponi.
Regna Varane ov’è Teodosio. Probo
pieno insieme di gioia e di rossore.
(Dal suo contento è quasi oppresso il core).
Sei vicina, o germana, a porti in fronte
risonano d’applauso e mari e lidi.
e s’applaude sovente a un’ombra vana.
                                              Il più vi manca.
                    Vi manca di Pulcheria il voto.
Vuoi forse rifiutar sposo sì illustre?
                                                E quando fossi?
Maturar ben si deve il grande assenso,
dove inutile e tardo è il pentimento.
                                              Ed ei non stende
fin sovra il cor l’autorità del grado.
Può comandar ciò che all’impero ei crede
Perdonami, signor, giova all’impero
che talor tu consigli i dubbi affari
mal sa in pace trattar nozze ed accordi.
L’alma guerriera volentier consente
a consigliar ciò che cagion feconda
esser può di sospetti e di litigi;
sete di guerra e di trofei, va’, espugna
ti vegga il campo e a nuove palme il guida.
Cesare a te le sue vendette affida.
Ubbidirò. Dall’armi tue sconfitta
il solo non sarà de’ miei perigli;
e il primo non sarà de’ tuoi trionfi.
al popolo fellon; correr di sangue
farò, s’ei sia protervo, e strade e fiumi.
Andrò. Vedrò. Ubbidirò il tuo cenno.
Soddisfatto vedrò l’altrui livore.
tu dell’audacia, io dell’invidia altrui.
non è irritar braccio sì prode. A lui
ma nella reggia a me fa guerra il duce,
più d’ogni altra spietata.
                                              In che t’offende?
Del mio favor s’abusa e del suo grado.
                              Pulcheria, in certi rei
Marzian vada al campo e tosto vada.
Dunque sua pena è Il tuo comando?
                                                                   Ei vada;
del comando il rispetto e non l’arcano.
Purtroppo il so. La tua sciagura, o duce,
Pietà ne sento. Oimè! Guardati, o core.
Sembianze di pietà prende anche amore.
più sollecito il passo a noi rivolga.
d’innamorato seno impeti e voti,
                               Ah! Provo anch’io qual pena
sia la speme e l’indugio in chi ben ama.
qui compiersi vedrai; vedrai la degna
cagion dell’ardor mio; vedrai del volto
l’onesto portamento; e allor dirai
che, se pari al suo bello è il mio piacere,
così dirò nel tuo possesso anch’io).
Ecco appunto che viene. (O cara vista!)
                                     (Oimè, Varane!)
                                                                      Questa, (A Varane)
principe, è la mia Eudossa; e questi, o sposa, (Ad Eudossa)
                                (Son io ben desto? I sensi
traveggon forse?) Eudossa, Eudossa è questa? (A Probo)
                                             E scelta al nostro
marital letto, imperatrice e sposa.
Ma come?... Ah Probo!... E sarà ver?... Son morto.
(Quale stupor? Tanto sorprende i cori
alza dal suolo, ove gli tieni affissi;
non arrossir. Stendi la destra. Ei stesso
seguirà al tempio i nostri passi. Andiamo.
Che? Seguirvi Varane? Questi lumi
saranno il testimon d’un imeneo...
prendeste ad atterrar la mia costanza?
Tu impallidisci? E tu pur anche, Eudossa?
Perché? Parla, onde mai? Svela l’arcano.
                                              Parli, o Teodosio,
nascono in me da quel fatale oggetto...
Oh dio! ... Misero core!... È forza, o sire,
la mia stessa ragion divien furore.
ma il mio stesso desir fa il mio spavento.
Eudossa, il tuo silenzio e il vero esponi.
Agli occhi tuoi noto è Varane?
                                                        È noto.
Ed a quei di Varane è nota Eudossa?
Eudossa è ignota a lui, non Atenaide.
                         Per me rispondo, o sire,
quando per Atenaide a te rispondo.
Spiegati. (Non intendo e mi confondo).
che in Atene io vivea, non era Eudossa;
tal mi nomai, poi che in Bisanzio giunsi.
                                         E là ti vide?...
offertomi dal caso e non dal core.
                               Finse d’amarmi almeno.
(Oh dei!) Né spiacque a te la regal fiamma?
                               Né arrise il padre
ad un amor che ti facea regina?
alla patria mi tolse ed a Varane.
                                Le sue ragioni ha il padre.
                                     Si temé forse
il giovane feroce e più il suo amore.
mura s’elesse un più sicuro asilo.
Mi vide augusta; e qui a te piacque...
                                                                    Basta,
basta così, basta, o fatal... Qual dirti,
deggia, non so. Nomi del pari infausti,
nomi spietati. Un mortal ghiaccio, un freddo
Quando fia tempo, intenderai tua sorte.
La men crudel per me saresti, o morte.
Pulcheria a noi. Probo, tu vanne al tempio,
e si congedi il popolo e il Senato.
Gode scherzar sui nostri casi il fato. (Si parte)
Smanie gelose, tormentosi affetti,
Ho in Varane un rival. Mel tacque Eudossa
Farò, iniqua, farò che tu non sia
e che il tuo nome alla futura etade,
quando invidia dovea, svegli pietade.
intesi la cagion delle tue pene.
Chi mai detto l’avria? Colei che adoro
perfino all’ara; ed a recar venia
la spergiura sua fede in faccia a’ numi.
S’Eudossa è rea, dov’è innocenza in terra?
misero son. Tu mi lodasti Eudossa
Deh, perché a te credei? Perché lei vidi?
Oh fede! Oh vista! Oh amore! Oh cieli infidi!
il tuo cor ne trionfi e quella ingrata,
sprezzatrice beltà sia disprezzata.
                                              Quel ch’è il più giusto.
Scenda l’indegna dal tuo soglio.
                                                          Oh dio!
Per vederla salir quel di Varane?
Perch’ella passi al mio rivale in seno?
Vada colà dove né meno il nome
Corro, o german. Vo’ che per sempre Eudossa
s’allontani da te né più ti vegga.
So l’error suo; la sua perfidia è nota;
ma il non vederla più mi saria morte.
                                   Anzi che cada il giorno,
                                            Varane?
Sì, la sua vista ira e dolor m’accende.
gli si porti il mio cenno ed ubbidisca.
Ah Teodosio! Ah fratel, per cieco affetto
dove ten vai? Recar tu oltraggi ed onte
a principe sì amico e sì possente?
mancherà ogni conforto, ogni vendetta?
Forse un inganno è il tuo sospetto. È cieco
il cor d’Eudossa esaminar conviene.
Ciò che far deggia ha stabilito il core.
Libera son dall’odioso nodo
stringer volea. Qui viene il duce. Affetti,
                                              Ad onta
di quel destin, che misero mi rende
ove resta di me la miglior parte,
con qualche pace; e un gran piacer vien meco.
                              Quel di veder che il foco,
                                             Anzi l’acquisti,
se la tua ti conservi. Hai qui vassalli
mi sia lecito dirlo, i tuoi begli occhi.
Se tanto, o duce, un cor vassallo osasse...
V’è chi osa tanto, o principessa. Ei fece
quanto poté per non amarti. Oppose
ragion, virtù, dover; tutto fu indarno.
Reo lo vuol tua beltà, reo la sua stella.
Duce, non più. Qualunque ei sia, gl’imponi
o ch’ei corregga il temerario affetto
cauto così che non ne scoppi intorno
m’è l’esser suo; né a te ben tutta io credo
la colpa sua. (Se più l’ascolto, io cedo).
se il tuo sdegno l’uccida o il suo dolore.
               No, Marzian, saper non amo
né la colpa né il reo. Fin che mel taci,
egli forse m’è caro; e degno è forse
e la tua vita e la memoria mia.
Timido labbro, è tua la colpa. «Io t’amo»
Vanne; e pria che partir, dille che l’ami;
ella dolce risponda: «E t’amo anch’io».
                            Teco n’è rea la figlia.
Anzi di risparmiarti un gran sospetto.
Or più crudele esso mi rode il seno.
Non val consiglio ove dispone il fato.
Del vostro fallo è mia la pena.
                                                       Credi
innocente la figlia e sei felice.
Più avveduto mi rende il primo inganno.
Venga; e quest’alma il testimonio sia.
Ma sdegno non ti turbi o gelosia.
Nel mio furor nulla conosco o temo.
Eudossa è l’amor mio. Se in lei tu pensi
vegliano al fianco tuo l’arme vassalle,
vittima non m’avrai facile e sola.
saprò la vita; e l’oppressore stesso
dalle rovine mie resterà oppresso.
mi fan pietà più che spavento; e s’io
gl’impeti primi, apprenderia Varane
come si parli a cesare in Bisanzio.
Di’, qual oltraggio hai dal mio amor? Corono
Sposa non la volesti; io la fo augusta.
che a te tolse alterezza e frenesia?
quel superbo pensier. Seguo il tuo esempio.
del tuo impero, del mio, di quel del mondo.
far per te non sapria. Vorrei... Ma, sire,
quel che spero non so né quel che parlo.
Pesi il tuo cor sé stesso; e vegga quanto
possa aver di virtù, possa esser grande.
Ecco vinto il mio fasto, ecco abbattuta
Ah! Basti all’odio tuo che innanzi al ciglio
hai supplicante d’Isdegarde il figlio.
più che i trasporti tuoi. Senti; amo Eudossa;
ma l’amo con virtù. Vo’ che l’amore
m’acquisti la sua fede e non la forza.
Sì, vo’ dalla sua bocca udire il nostro
oracolo fatal. Se l’hai propizio,
né un cor t’invidierò ch’esser tuo volle.
Ma se per me decide, i nostri amori
più non turbar. Lascia che meco in trono
regni la tua Atenaide e non geloso
mira la sua grandezza e il mio riposo.
io riponea tutto il mio ben; ma poco
decida in libertà. Scelga tra noi
il più caro amator, non il più degno.
No no, seco ti lascio. A lui sincero
il voler ne sarà, giuro per questo,
che il crin mi cinge, imperial diadema,
la recherai che dall’amor d’Eudossa
                     (Speme risorgi).
                                                      Addio.
vita e felicità possa costarmi,
udir la tua sentenza e non lagnarmi.
                                         (M’aiti amore).
Il misero Varane, o tanto indarno
avrà pure il piacer di favellarti.
Parli egli pur. Così comanda augusto.
egli arde a’ danni miei d’odio funesto.
Deggio ubbidir; quanto far posso è questo.
E per me nulla puoi? Non anche sazia
A un solo error tanto supplizio? Oh dei!
Qual mar, qual lido non tentai? Fin dove
volar non feci d’Atenaide il nome?
negasse i suoi. S’è impietosito il cielo
mi ti togliea per sempre. A tempo ancora
posso offrirti pentito e nozze e trono.
Atenaide, mio ben, pietà, perdono.
vieni a turbar la mia quiete? I mali,
nel mio cielo natio per te sofferti,
                                       Tardo mel rechi
                                  Sei di Varane,
                            A quei rifletto, a quelli
a quei ch’ora mi fanno augusta e sposa.
il diadema de’ cesari è un gran fregio;
sarai serva a Pulcheria. In Persia io il primo
saranno i tuoi begli occhi e leggi e dei.
che in più liberi sensi il cor ti mostri.
Tutte le offerte tue, le tue lusinghe
e del tuo amor mi stimeresti indegna,
se tua potesse farmi un tradimento.
volea farti il mio cor. Forse non senza
Forse ad esser d’altrui l’alma disposi
Di cesare ora son. Data è la fede,
se non la destra. Esser di lui sol voglio.
novi imperi aggiungessi e novi mondi
di rio destino, andar dovesse augusto
non cangerei desio, non cor, non fede;
con lui misera errar, con lui meschina,
ch’esser lieta con te, con te regina.
dura sentenza il sangue mio soscriva.
                                  Tanto non chieggo,
prence, da te. Soffri il tuo fato. Vivi
a più degna beltà. Vivi a Pulcheria.
favor domando, ama Pulcheria e vivi.
non sia il rival. Lascia ch’io volga altrove
ma non solo, non vil né invendicato.
Temo e compiango il suo dolor.
                                                          Mi fanno
Ei così dee soffrir. Probo, tu intanto
al mio signore e tuo la certa prova
di quella fé, con cui l’amo e l’onoro.
sento del prence amico il fier martoro).
Vinta è già la procella. Eccomi in porto;
né del primo terror mi resta in seno
                           Ma la virtude, o figlia,
dagli occhi tuoi ne’ due monarchi accesa,
a scoppiar è vicina in guerra atroce.
Cesare io scelsi; e al suo giudizio deve
Non lo sperar. Fede, che torni in danno,
non serbano i potenti e men gli amanti.
Se resti, avrai di che lagnarti. Andiamo.
Perdonami, signor. Sposa d’augusto
sarò fra poco. Egli m’adora...
                                                     Eh, figlia,
di debol tempra. Ove ciò torni in grado,
Più giova al greco impero il perso amico
la prima fuga; e pur la impose onore.
Or la impone il timor né mancar posso
Incauta figlia, ancor ti pentirai. (Si parte)
Tradire il mio signor! Con quale speme?
Pulcheria, oh dio! fia di Varane. Oh cieli!
Con qual furor mi si risveglia in seno
Lungi è il rival. Con un inganno stesso
servo a me, servo a lei, servo all’amico.
Ma Teodosio è il mio re... Che fo?... Che dico?
Ove mi tragga il passo, ove il pensiero,
Crudele amico, anco il tuo aspetto accresce
le pene mie. Su, più le irrita. Esponi;
con qual cor, con qual fronte il mio rivale
ricevé il lieto avviso e il fatal dono?
quale insultò? Nulla tacer. Non cerco
che oggetti d’ira, di dolor, di morte.
meno misero sei di quel che pensi.
né concepirgli né sentirgli io posso.
l’infausta pietra, onde segnar le stelle
                                             Anzi il più lieto.
                                          Ella è tua sposa.
Eccone il testimon, Probo tel reca.
                                                         Appena
che, vinta da pietà, spinta da amore:
«Vanne sull’orme sue. Digli che paga
                                 Probo, non più, l’estremo
piacer m’opprime e, in rendermi la vita,
No, Pulcheria. Ecco Probo, ecco Varane,
Mel disse il cor. Certa è la mia sventura.
Signor, quanto più lieto a te verrei,
Ma non fia ch’io di mia sorte m’abusi
Se non era il tuo cor sì generoso,
ora il mio non saria sì fortunato.
la tua sorte e la mia, da me prescritte
istesse leggi io servirò d’esempio.
(Egli è tradito. O perfida Atenaide!)
Probo, adunque egli è ver? Mi rende Eudossa
questa mercé? Paga così l’ingrata
le mie beneficenze e la mia fede?
la pietà ch’hai di me. Veggo il tuo zelo;
udir voglio da te, da te, che fosti
testimon di quell’anima spergiura,
tutto il suo error, tutta la mia sciagura.
Signor, che dir poss’io? Quell’aurea gemma
sfavilla in mano al principe de’ Persi
più di quel che potrei, parla al tuo core.
O gemma! O vista! O infedeltà! O dolore!
In faccia del rival frena il tuo pianto.
la tua virtù l’ultime prove.
                                                 Prence,
ti basti esser felice; a te non chieggo
Del mio fato crudel l’ultimo vanto
questo saria, l’esser da te compianto.
rechi per l’infedel? Che puoi tu dirmi?
Ch’ella indegna è di te, ch’io son delusa,
E il più misero aggiungi e il più dolente.
Ma Teodosio non son, non sono augusto,
se pentir non ti fo di tua incostanza,
più tollerarla; ella ne parta; e tosto
                                  Ella a noi volge il passo.
                                    Ah no, vederla,
è un tormentare, è un avvilir sé stesso.
                                    Parti. A me la cura
E la costanza tua n’è più commossa.
(Quanto mi costa il non veder più Eudossa). (Si parte)
Chi non diria ch’ella è innocente?
                                                              Augusta,
                                            (Ancor sen vanta!)
scelsi qual più dovea. Mai sì tranquilla
non mi sentii. Tutti del primo affetto
e del mio ben contenta e del mio fato,
appena mi sovvien d’aver già amato.
(Odi l’alma proterva, odi qual parla?)
Qual silenzio? Qual torbido? Eh, più lieta
(Più non resisto). Io che v’applauda? Io parte
avrò nella tua colpa? Ed osi ancora
                                                      In che son rea?
sembra l’ingratitudine, all’infido
di quel che pensi; da quest’ora, indegna
del mio favor, della memoria mia.
e per te feci e per te far volea.
né rimirarti più né più ascoltarti.
t’infingi ancor? Perfida, taci e parti.
Meco augusta così? Così Pulcheria?
Quella, che già mi amò sposa a Teodosio,
Intendo. Or che Varane è un mio rifiuto,
ella ne teme il nodo; e al suo piacere
e l’amor di Teodosio e il mio dovere.
nel tuo volto a cercar venia l’intero
                                             Mirali, Eudossa,
che, se lo sdegno mio, se la mia pena
può farti e più tranquilla e più felice,
hai ragion di mirarli e di goderne.
                           Mirali, sì; ma poi
che ne avrai fatto pompa agli occhi tuoi,
tutto beneficenza, e ne arrossisci,
poc’anzi tutto amore, e ne paventa.
(Innocente Atenaide, in che peccasti?)
Ma non pensar che sul mio cor ti resti
altra ragion che d’odio e di vendetta.
reggia, da questo impero io ti do bando;
                                        Io non più tua?
che tu mi lasci. Ove trovar tu speri
e grandezze e diletti e amori e fasti,
ti seguano sventure, affanni e pianti;
né a te sovvenga mai che per rimorso,
né a me sovvenga mai quello d’Eudossa
ad infettar co’ tuoi sospiri altre aure,
femmina menzognera, ingannatrice.
Vattene; e qual mi fai, vivi infelice.
per bocca mia, tu sei tradito; ascolta.
Qual demone, qual furia oggi a’ miei danni
Io ti do bando? E ti do bando eterno?
Sì sì, vuol la mia morte e cielo e inferno.
che più avessi creduto al tuo consiglio,
che men creduto avessi alla mia spene!
questo empio ciel, queste fatali arene.
già s’apre l’uscio. E qual riposo spero,
Eccolo a’ piedi tuoi, s’egli è tua pena.
Che miro! Ah, che vicino or sei mia colpa!
Senza darti un addio, senza ottenerlo
                                    T’accieca un troppo,
sì, convien ch’io lo dica, un troppo amore.
ne avrà Teodosio? Io qual vergogna ed onta?
Parto, o mia augusta; almeno dimmi addio.
dirlo e non sospirar. Crudel sospiro,
più di quel ch’io volea, forse ti disse.
                                           Va’; ti concedo
                                 Anche sospir d’amore?
deggio esser dunque un rapitor indegno?
Chi si ritoglie il suo nulla rapisce.
a violarle egli è Teodosio. Ad onta
de’ patti e giuramenti, ei tiene a forza
colà chiusa Atenaide, ora tua sposa.
prenditi i miei; sono anch’io teco.
                                                               Tutte
le occulte vie, donde entrar puossi in quelle
varco ben custodisci e qui m’attendi.
dovrò, amico, al tuo braccio, al tuo consiglio.
(Una colpa imperfetta è il mio periglio). (Si parte)
Fausto abbia il fin la ben ardita impresa.
sarò tuo, sarai mia, cara Atenaide.
(Non vo’ che alcun qui mi sorprenda).
                                                                      Al seno
Festeggiatemi intorno, o lieti amori.
(Ma schernir saprò altrove i traditori). (Si parte)
trarsi convien. State voi pronti al cenno.
e se al consiglio mio davi più fede,
e del rival si lagna e il chiama ingiusto).
il rimedio, anche tardo, è pur rimedio.
                                    Infauste mura,
senza un sospir, dirvi non posso addio.
Taciti andiam sull’orme sue; mia cara,
ma ti segua il tuo sposo e ti consoli. (Si parte)
corsi e cercai. Qui né pur trovo il prence.
Che mai sarà? Così dell’opra il frutto
il mio signor tradito. Oh tema! Oh speme!
                          Fuggì col padre. Or ora,
da una sua serva a me fedel, l’intesi.
Sulle mie luci? Olà, custodi, Probo,
Dov’è Varane? O dio! Pulcheria, io moro.
                                          Ah, ch’io l’adoro!
della figlia e del padre all’empia fuga
                                                 Perfido, audace.
Qual vuoi son io; ma l’innocente figlia
a te si salvi, a me si salvi. Armato
Anima vil, tutto è tua trama. In mano
ma non pensar che invendicata sia
la sua fuga, il tuo error, l’offesa mia.
tutta in me cada a tuo piacer la pena.
                            No no, Pulcheria. Io stesso
                                                        Eh, sire,
il tuo grado nol chiede, il tuo decoro.
Resta; io v’andrò. Qui rivedrai fra poco
libera Eudossa e prigionier Varane.
Sì, caro, sì, fedel, vattene e rendi
Vado. Non hai di che temer tu possa.
a me la vita ed a Varane Eudossa). (Si parte)
Si confonde il pensier. Sposo ad Eudossa (A Teodosio)
Egli ne avea l’amor, ne avea la fede;
a che rapirla? A che fuggirne occulto?
lo spergiuro, la forza? Ah, ch’io potea
ma non tradir la fede e non l’onore;
e serbava ragion nel mio dolore.
                                     Un inganno
                                   E tu ne fosti a parte. (A Leontino)
Il vostro cor si disinganni; e in lei
                                                Ella che in seno
chiudea non casta fiamma? E che, ripiena
passava al letto augusto? Ella innocente?
tradirmi? Abbandonarmi? A chi poc’anzi
amò il suo disonor, l’infamia sua,
e regnar sul mio trono? Ella innocente?
Tregua, signor, tregua, Pulcheria, all’ire.
datosi a lei di far libera scelta,
per te, per te decise. Ella non vide,
che un oggetto d’orror. Per qual destino
Bando le desti. Ella conobbe il torto;
se ne dolse; ubbidì; la notte attese;
rapilla il prence. Ad implorarne aita
la pena più terribile e funesta.
Ma l’aurea gemma è di Varane. A lui
                                      Probo la diede?
siam più infelici! Probo è traditore
a Pulcheria, ad Eudossa, al suo signore.
Traditor Probo! Ed io poc’anzi a lui
                                Egli secreti inganni
né per altro il seguì che per tradirti.
Sia traditore o no, convien seguirlo.
fuga al riposo. E popoli e soldati,
Seguami Leontino. Oggi conviene
morir da forti, o racquistar Eudossa,
perder la vita o vendicar l’offesa.
Oh Marzian qui fosse! Oh del tuo zelo
Quanto augusto per te, quanto Pulcheria
per te saria contenta; e la tua fede
qual merto ne otterrebbe e qual mercede.
da Varane e da Probo. Al vostro braccio
chiedo la loro pena al vostro zelo.
Andiamo amici, avrem propizio il cielo.
serba a maggiori e più lodate imprese.
del sovrano divieto, io mi presento.
contro il bulgaro iniquo avrei rivolti;
perfido cor la fellonia malvagia.
                                         Suddito iniquo,
esempio di perfidia, anima infame,
Perché? Perché così nella più cara
il più misero farmi, il più dolente?
Son reo, son empio, traditor, iniquo,
Ingannato è Varane e tratto ad arte
nella perfidia mia. Più dir non posso,
                                              E morte avrai. (Si parte Probo accompagnato da’ soldati)
Marzian, Leontino, amico, padre,
la mia Eudossa trovar, quando è perduta
e perdutala ho forse, oh dio! per sempre?
Vittima di Varane, ogni momento
più da me l’allontana. E che s’indugia?
Colà si accorra. Andiamo, amici, andiamo.
O la mia Eudossa o la mia morte io bramo.
Il mio dolor nel suo dolor si perde.
Eh fermati; ogni traccia è tarda o vana.
                                 Che? Marziano
de’ benefizi suoi tacque il più grande?
Oprai ciò che dovea. Fuor di Bisanzio
in Varane m’incontro, odo le strida
cinto da’ suoi seguaci. Ardito e forte,
Probo; e fellone a lui soccorre. In questa
Probo riman. Racquisto Eudossa. Al prence
perché in lui si rispetta il regal padre.
Torno a te vincitor; ti rendo Eudossa.
E con Eudossa a me rendesti il core.
                 O figlia.
                                  O sposo, o genitore.
il perdono otterrà d’un’ira ingiusta?
Sovrana mia, benefattrice augusta.
A Marzian, per cui cotanto bene
contenta di sé stessa, altra mercede.
Parla così l’eroe ma non l’amante.
                                   Né tal lo nego.
Or gli basti così. Verrà anche un giorno
di poterti adorar senza speranza.
né più si differisca il nostro bene.
pubbliche gioie a coronar sen viene.
quel forte amor, che mi consuma ed arde,
tutto tentar potea, fuor che rapirla,
e rapirla già tua. M’ingannò Probo
e col dirmi che, a forza e contro a’ patti,
la ritenevi in tuo poter. La sorte
non mi tolga il tuo cor la tua amistade.
Vagliami questa a risarcire in parte
Tutto si obblii. Vuoi l’amistà d’augusto?
Al figlio d’Isdegarde ella si dia.
Canti così la fama. Altri più degni
e più felici e più sicuri applausi
la gloria imperiale e le sue trombe
empie d’un altro suon, d’un altro nome,
le delizie del mondo a lui vassallo,
nome che di più regni è la speranza,
e il simbolo più ver della virtude.
Odi, augusta regnante, il fausto grido
del mondo ossequioso; e vedrai come,
fatto immortal, corra d’Elisa il nome.

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