Metrica: interrogazione
929 endecasillabi (recitativo) in Merope Venezia, Rossetti, 1711 
Questa è Messene. Il patrio cielo è questo
de l’infelice Epitide. Cresfonte,
mio illustre genitor, qui diede leggi.
Qui nacqui re. Questa è mia reggia; e questi
questi fertili campi a me son servi.
mal ricordate e mal vantate! Errante,
misero, solo, inerme io vi rivedo;
un sol non v’è che re mi onori, un solo
che pur mi riconosca, un sol che dia
almeno un pianto a la miseria mia. (Si volta verso la statua di Ercole)
Quai genti son coteste? E con qual rito
cingono il regal seggio e ’l sacro altare?
Signor che al ricco ammanto, al nobil volto
ben mostri eccelso grado e cor gentile,
suonan gemiti e strida? Ond’è che in atto
di supplici e dolenti offron costoro
fumo d’incensi e di sospiri ascende?
non compi ancor, se mal non credo al guardo,
qual sei, dimmi, onde vieni? A che sì strane
spoglie vestir? Le dilicate membra
e la tenera man perché si aggrava
Tal è la sorte mia che non mi lice
farne parte ad altrui, fuor che al re vostro.
Il re dal tempio, ove adempiti egli abbia
qui verrà in breve. Or ti compiaccio.
                                                                   Ascolto.
Undici volte oggi rinato è l’anno,
                                      Il caso acerbo
tutta d’orrore empié la Grecia e d’ira;
ma de l’autor non è ben certo il grido.
                                     Costui m’è ignoto.
De la regina Merope era servo.
Può cader tal delitto in moglie e madre?
ma il suo dolor, la sua virtù, nel core
di chi meglio ragiona, assai l’assolve.
Perché da l’uccisor non trarne il vero?
L’ombre il tolsero al guardo e a la sua pena;
né di lui più s’intese.
                                        Altro germoglio
degli Eraclidi il sangue e la speranza
Come a lui perdonò l’empio omicida?
ostaggio al re Tideo, fu sua salvezza.
ne fu cagione e più ’l timor che anche esso
di ferro e di velen restasse ucciso.
Ma de’ pubblici affari il grave peso
Merope e Polifonte i nostri voti.
sparso rumor del parricidio. Eletto
degli Eraclidi anch’egli uom saggio e prode.
(Sembianza di virtù spesso ha la frode).
richiamar si doveva il regal figlio?
Sul crin di Polifonte è la corona
Tanto modesta in Polifonte è l’alma?
Gode Messenia in lui quel re che ha pianto.
Di che dunque si lagna ella che il gode?
Sente de l’altrui fallo in sé la pena.
da feroce cinghial sono i suoi campi.
E ’l messenio valor teme un sol mostro?
Che può mai contra i numi il valor nostro?
dissipò il fiero dente. Altra speranza
non ci riman che il cielo. A lui ricorso
Ne la gran turba io mi nascondo. Intanto
penso a gran cose e generoso e forte.
Epitide, ecco il giorno. O regno o morte.
Le vittime ei gradì. Lieti ne diede
l’esaminate viscere gli auspici.
chiaro parlò! Tu del voler celeste
leggi qui, Trasimede, il gran rescritto;
dal passato spavento un regno afflitto. (Porge a Trasimede la risposta dell’oracolo e Trasimede legge)
«Ha Messenia due mostri. Oggi ambo estinti
cadranno, un per virtude, un per furore;
restino poscia in sacro nodo avvinti
l’illustre schiava e ’l pio liberatore».
nutre spirti guerrieri e chi nel braccio
tiene valor, vada, combatta e vinca.
con la voce del nume e col sicuro
non v’è core sì forte, alma sì ardita,
v’è Polifonte. Egli esporrà per voi, (Si leva in piedi)
non re ma cittadino, e sangue e vita. (E discende dal trono)
Ne la sua vita espor non dee chi regna (Epitide si avanza)
la salvezza comun. L’orride belve
non regal braccio; e se a Messenia ardire
giovane qual mi vedi, inerme e solo,
ch’io là sia tratto, ove si pasce il fiero
a me sparga la tomba e l’ossa onori.
di te presumi o che gli dei tu siegua
fia stupore il tuo esempio, invidia ai forti.
ai panni, al volto, al favellar tu sembri.
Etolia, Argo, Micene e quanto è Grecia,
tutto è patria a chi è greco. Io greco sono;
né per lieve cagion qui trassi il piede.
che dal cimento io vincitor ritorni,
saprai qual sia, perché ne venga e donde.
questo prode in Itome. Ivi, se al vanto
risponde l’opra, è tuo il trionfo e tuo
                                  Premio non cerco.
Cerco un popolo salvo; e meco porto
                                            Un dì tal vide
forse la Grecia il giovanetto Alcide.
                                       È desso appunto.
Nunzio del re Tideo più volte il vide
                               Io qui l’attendo. Intanto
tu mi precedi a la regina; e dille
di nostre nozze. Ella al mio amor dieci anni
La compiacqui e soffersi. Oggi pur compie
la dura legge. A l’imeneo promesso
oggi ella accenda le giurate faci.
Ubbidirò. (Pena mio core e taci).
Re Polifonte, al cui voler sovrano
di Messenia ubbidisce il nobil regno,
il re Tideo, che glorioso impera
m’invia suo nunzio. Ecco la carta ed ecco
la tessera ospitale e ’l noto segno. (Presenta a Polifonte le lettere credenziali)
Egli si duol che, contra il dritto e i patti
tu rapir gli abbia fatto Argia sua figlia.
La grave offesa è d’alta piaga impressa
in cor di re e di padre. Al suo dolore
diasi compenso. O gli si renda Argia
o coprirà de la Messenia i campi
d’armati e d’armi; e pagheran la pena
d’un atto ingiusto i popoli innocenti.
Tanto espone il mio re. Qual più ti piace
scegli, amico o nemico, o guerra o pace.
Licisco, in brevi note ecco i miei sensi.
Da l’etolico re perché si niega
Egli cel renda e noi daremo Argia.
Non è più in suo poter ciò che gli chiedi.
Vani pretesti. Il re Tideo, se pensa
o farci inganno o intimorirci, egli erra.
Scelga qual più gli aggrada, o pace o guerra.
ciò ch’a tutta la Grecia è già palese
                                       E che?
                                                      La morte
                                       Che narri?
colà dove il sentiero in due diviso
parte a Dauli conduce e parte a Delfo.
Stelle! E chi mai versò sangue sì illustre?
e al nostro re, da grave doglia oppresso,
mesto ne giunse e replicato il messo.
Cieli! Avete più fulmini? Volete
altro pianto, altro sangue? Eccovi il mio.
O stirpe degli Eraclidi infelice!
Misero regno! Prence sfortunato!
(Ma s’Epitide è morto, io son beato).
                          Sino a più certo avviso
tacciasi il fiero caso; e la mia reggia
Non si lasci sedur candida fede
da un dolor menzognero o almen sospetto.
tutto si tema. Epitide si salvi
con la frode innocente e giunga al regno.
Ma come ancor qui nol riveggo? Ei pure
lo ritarda a Messene e a’ voti miei?
L’alma real voi proteggete, o dei.
che dir poss’io di mia sciagura estrema.
Era poco, o fortuna, avermi tolto
il regno non dirò, ma sposo e figli,
da man crudel barbaramente uccisi.
tenermi il caro Epitide, in cui solo
consolarmi potessi. Era anche poco
moglie iniqua, empia madre e del mio sesso,
anzi del mondo, il più esecrabil mostro.
vuoi ch’io passi e ’l consenta. Il decim’anno
giurato a le mie nozze oggi si compie.
O giorno! O legge! O giuramento! O nozze!
O Polifonte! O troppo avversi dei!
che per dirvi spietati io dirò miei.
di comando fatal nunzio a te venga,
lo sa il ciel, lo sa l’alma (e amor sel vede).
E nunzio di sponsali e di grandezze
vieni sì mesto? Eh! Più sereno in volto,
al soglio antico, a le novelle tede.
Già le attende la Grecia e un re le chiede.
Le chiede un re ma pria da te promesse,
volute non dirò, che ben più volte
contro di Polifonte, odio e disprezzo.
mi sarà scorta. Io sposerò il tiranno,
per poi svenarlo in alto sonno oppresso;
fumante ancor de l’odioso sangue,
su le vedove piume io cadrò esangue.
Tolgan gli dei sì barbaro disegno.
Quel mi tradì; mi riman questa; e questa
non può mancarmi. Merope una volta
finisca di morir ma vendicata.
Regina, era mia pena, e pena atroce,
ma se a l’aspra sciagura altro rimedio
ti accolga fortunato e seco regna.
Regnar con Polifonte? E Trasimede
mi consiglia così? Questa è la fede
                                     Ahi! Che far posso?
Se m’hai pietà, se la memoria illustre
de buon re nostro ucciso ancor ti è cara,
tutto, tutto ricerca; e quell’infame
si arresti, s’incateni, a me si guidi.
Quest’è il sol mio rimedio. A te lo chiedo.
e la mia vita e l’innocenza mia.
Voi che sapete, o dei, la mia innocenza,
andrai costretta a le giurate nozze.
                             Qual fia lo sposo?
                                                               Al prode
il decreto del ciel mi vuol consorte.
Fausto sarà ciò che comanda il nume.
altri sarà che Epitide né punto
a me cal la Messenia, onde il mio amore
sacrificar le debba e ’l mio riposo.
Dato dal ciel ricuserai lo sposo?
Il mio sposo è già scelto. Amor v’applaude;
il genitor lo approva e Argia l’adora.
                                           E chi l’intende?
                               L’umano intendimento,
dove il ciel parli, è tenebroso e cieco.
Più cieco egli è dove l’appanni amore.
Pel caro figlio ella piagato ha il core. (A parte)
Sì, Epitide a te figlio, a te sovrano (A Merope e poi a Polifonte)
sopra la libertà del voler mio.
Sono Argia. Son regina. Amo chi voglio.
Del cor d’Argia resti la cura a’ numi.
ragion ti chiedo. Ei per tua legge è mio,
regno de la tua fede a me giurata,
prezzo di mia costanza a te serbata.
tu ascrivi un lungo e sofferente amore,
tal nol cred’io. Chi può soffrir due lustri
che un lontano imeneo giunga e maturi,
Tutto può tolerar cor che ben ama.
E se ben ama il tuo, due lustri ancora
soffra d’indugio e poi sarò tua sposa.
                                                 E avrai più merto.
No, già son corsi i due. Tu gli hai prescritti.
La legge è ferma. Il giuramento è dato.
Né più negar né diferir più lice
a te per esser giusta e a me felice.
un carnefice, un mostro, un parricida.
De l’amor mio tanto abusarti? E tanto
de la mia sofferenza? E in che t’offesi?
e se pur giunto sei ne le tue colpe
Sì tradito, e da chi? Già m’arrossisco
che d’obbrobrio fatal sparge il tuo nome;
ma il perfido Anassandro era tuo servo.
de’ tuoi consigli e di quel cieco orgoglio
che ti spinse a salir sul non tuo soglio.
Polifonte qui regna; e perché regna,
con odio e con orror Merope il fugge.
Non t’odio perché re. Mal mi conosci.
Più giusto è l’odio mio. Basta. Ancor vive
l’empio Anassandro. Ancor mi resta un figlio.
                                Dimmi al sepolcro
No no. De l’odio tuo sien la gran pena
Strascinata a l’altar verrai costretta,
dal sacro tuo solenne giuramento.
(O giuramento! O Merope infelice!)
ma senti qual verrò, senti qual devi
Non il sacro imeneo, non la pudica
Giuno né i casti coniugali numi
uniranno a quell’ara i nostri cori.
implacabili furie e tu, funesta
odio, morte, terror, tutti v’invoco
pronubi a le mie nozze. Ardan per voi
spargetelo di serpi e di ceraste,
sinché pallido, esangue e tronco busto
quel tiranno crudel per me si scerna
dormir l’ultimo sonno in notte eterna.
con chi perde ogni legge e si prevenga
un insano furor. L’uscio è già chiuso. (Chiude l’uscio al di dentro)
Ora ben t’avvedrai, femmina ingrata, (Presa una chiave, apre una porticella segreta)
quanto possa un’offesa in cor reale.
Olà, Anassandro. Epitide già estinto, (Affacciandosi all’uscio)
                                 E a trarti insieme
a le braccia reali e al chiaro giorno. (Lo abbraccia)
A quale alto tuo cenno ubbidir deggio?
di quest’ozio profondo, in cui sepolto
tra rimorso e timor peno e sospiro.
Non è pena men fiera a Polifonte
dover finger pietade, usar clemenza,
non conosce altri dei che il suo potere
e non ha per ragion che il suo volere.
Con quest’arte tu regni.
                                             Ed ecco il tempo
Basta che tu vi assenta e che tu dia,
fedele amico, il compimento a l’opra.
ne la reggia di Etolia e colà sveni,
il mal guardato Epitide? Son pronto.
Morì già l’infelice e senza nostra
colpa morì. Ciò che al tuo zelo io chiedo
è più facile impresa. Esci in Itome.
De la morte de’ figli e del marito
accusa la regina; e attendi poi
da la mano real di Polifonte
e grandezze e tesori. Ancor del trono
vieni a parte, se vuoi. Tutto è tuo dono.
                                    Sì. Qual rimorso?
Quello che più risente un’alma ingrata.
                                  Ravviso in essa
Se n’hai pietà, la nostra morte è certa.
de’ viventi il più indegno e ’l più perverso.
Dopo il commesso parricidio enorme,
la colpa ti spaventa? Il tardo orrore...
a la nostra salvezza e a la tua sorte.
                                  Caro Anassandro,
de la grandezza mia fido sostegno,
per te dir posso: «È mio lo scettro e ’l regno».
Non si cerchi, Anassandro, altro consiglio.
In un pelago siamo, onde n’è forza
uscirne o naufragar. Fatta è la colpa
necessità per noi. Nei primi eccessi
anche gli ultimi a farsi abbiam commessi.
Fu voler degli dei ciò che rapina
Fatta è mercede al vincitore Argia.
Dal re suo padre il suo destin dipende.
E dipende dal ciel quel de’ regnanti.
la bella Argia, ben ne preveggo i pianti).
vengo dolente madre. Infausto grido
sparso è d’intorno. È morto il figlio o vive?
Ciò che dirti può ’l re, taccia Licisco.
E a Merope, che ’l chiede, un re nol dica.
un sì giusto conforto ad una madre?
Chi più figli non ha, non è più madre.
Ah! Lo dicesti pur; morto è ’l mio figlio.
A la madre morì, pria che a la vita.
E la vita, ch’ei spira, egli è pur sangue
                                  Tuo sangue ancora
                                       Ed io lo sparsi?
La Messenia lo sa; la fama il dice.
Basta che il cor mi assolva e che gli dei
veggan la mia innocenza e la mia fede.
                                         E un re nol crede.
Empio, non sempre esulterai sul pianto
Chi d’infamia ha rossor, fugga la colpa.
E chi di colpa è reo, tema la pena.
Ah! Merope, del tuo, del tuo delitto
con qual fronte mi accusi? E con qual prova?
Dal pubblico giudizio eccomi pronto
a ricever la legge; e dal castigo
Ove il reo non è certo, ognun si tema.
Ma quel suono festivo odo dal monte?
Lascia che al seno, o generoso, o prode
liberator... Perché t’arretri?
                                                    Avvezze
con le fiere a lottar braccia selvagge
ricusano l’onor di regio amplesso.
(O dei! Qual, se l’ascolto, e qual, se ’l miro,
mi si desta ne l’alma inusitato
Libero è ’l regno; ogn’alma esulta; e sola
nel pubblico piacer Merope è mesta?
Che? La regina... O dio! Merope è questa?
Merope sì, non la regina. Un’ombra
ch’io baci umil la nobil destra.
                                                        (O bacio,
onde in seno mi è corso e gelo e foco!)
fuggir le amiche braccia? E imprimer poi
su colpevole man bacio divoto?
Giurai di farlo ed or ne adempio il voto.
Perché il giurasti? A chi?
                                               Straniero, addio.
(Cresce in mirarlo il turbamento mio).
la tua richiede e la real presenza.
O ciel! La mia? Parla. Chi sei? Che rechi?
Etolo io son. Ne’ calidonii boschi
de la saggia Ericlea nacqui ad Oleno.
                                        (Par vero il falso,
Vengo di Delfo. Ivi desio mi trasse
di saper la mia sorte. Ove si parte
trovai nobil garzon giacer trafitto.
Che? Trafitto un garzon tra Dauli e Delfo?
                      Sei volte e sei rinato è ’l giorno.
Tutto s’accorda, e ’l tempo e ’l loco. (A Polifonte)
                                                                 Estinto
                              Tanto di vita
spirava ancor che poté dirmi: «Amico,
turba feroce, a le rapine intesa,
m’assassinò. Nel fior degli anni io moro».
ne la reggia» soggiunse «a Polifonte
quest’aureo cinto e questa gemma illustre,
Bacia per me di Merope la destra,
mi chiuderebbe, in mesto uffizio e pio,
le gravi luci». Egli in ciò dir la mano,
ch’io stesa avea, strinse a la sua. Poi tacque.
Gittò un sospiro. Abbassò i lumi e giacque.
Qual funesta caligine m’ingombra?
Qual freddo orror m’empie le vene e l’ossa?
l’infausto annunzio. O desolato regno!
Epitide, il mio amore, il mio conforto,
l’unico figlio, il caro figlio è morto.
Tace ne’ gravi mali un gran dolore.
(Sappi occultar l’interna gioia, o core).
Freno al dolor. Non è la ria sciagura
                               Sì, che più tardi? Il cinto
dov’è? Dove la gemma, antico dono
                                  E quello e questa
eccoti, o regal donna. (Al suo tormento
del mio inganno crudel quasi mi pento).
del mio misero amor memorie infauste,
Ben vi ravviso. Or che più cerco? Vieni
vieni sul labbro, o cor, vieni sul ciglio;
nulla mentì del caso acerbo e fiero. (A Polifonte sottovoce)
Ma di Merope il pianto è menzognero. (A Licisco)
(Quietatevi, o singulti. Omai l’oggetto
si cerchi a la vendetta; e si risvegli,
qual da l’onda l’ardor, l’ira dal pianto).
Dimmi, o Cleon. Solo giacea l’estinto?
                                                 E solo appunto
sortì d’Etolia e sconosciuto il prence.
                           Spoglie gli tolse e vita.
Di molte piaghe o d’una sola?
                                                       Il sangue
                                        L’ora?
                                                      Non molto
semivivo restò? Come il furore
                                         No, traditore.
sì vili e questo cinto e questa gemma?
Non le curò la predatrice turba?
Nel chiaro dì quel non gli vide al fianco?
Non questa al dito? Ah barbaro! Ah fellone!
Scusa, se puoi, la tua perfidia. Il core
mel disse al primo sguardo. Or mel conferma
quel mentir, quel tremar, quel tuo pallore.
                                         Sei traditore.
la tua vittoria e il mio poter ti è scudo.
madre parer vuole a’ suoi figli estinti.
Se estinti li bramò, perché li piange?
Tutto è menzogna; o nulla costa o poco
ad occhio femminil pianto bugiardo.
E mal giudichi un cor, se credi al guardo.
Pace all’ombra real. Giorno sì lieto,
in cui per tuo valor salva è Messene,
                Di quanto oprasti alta mercede
scelta da’ numi a te compagna e sposa.
                                                Il ciel decreta.
                                    E posso io farlo?
Così servo al tuo cor, così al tuo amore.
Il mio amore, il mio cor, l’anima mia
non è, lo sai, che l’amorosa Argia.
Argia sarà tuo premio. Il ciel la volle
perché seco tu regni amato amante.
fortunato amator, lieto regnante!
Siegui il sentier ben cominciato e spera.
Sposo sei ma beltà non ti lusinghi.
Figlio sei ma pietà non ti tradisca.
tutto dubbio ti sia. Temine e fingi.
Ah! Ch’il duol della madre è mio spavento.
Dillo tua debolezza. A te i fratelli,
a te il padre sovvenga e ’l tuo periglio.
Sì, ma Merope è madre ed io son figlio.
Merope, Polifonte, Argia, Messene,
gloria, regno, vendetta, odio ed amore,
di spavento e d’invito a’ miei pensieri.
Il dibattuto cor qua e là si volve,
qual da turbine spinta arena o polve.
                                       A Polifonte.
A te così tiranno, io sì nemica,
porto un mio voto e un dono mio. Caduto
il mio figlio, il tuo re, mio re ti onoro;
ma sii giusto e sii grato. Un figlio, o sire,
mi fu, tu ’l sai, misera madre! ucciso.
Cleon n’è l’assassin. Di quell’iniquo
qui ti chieggo la pena e ’l voto è questo.
Or vedi il dono. A l’are sacre io stendo
la man che pria negai. Con questa legge,
se ti piace il regnar, ti chiamo al trono;
se ti muove l’amor, tua sposa io sono.
Merope, ingiusto è ’l voto e tardo è ’l dono.
In Cleon, che tu fingi un assassino,
la Messenia ha un eroe. Sdegno il tuo nodo.
E per te, ch’or mi prieghi, io più non ardo.
Il tuo voto, il tuo dono è ingiusto, è tardo.
Ben difendi Cleon. Ben mi rinfacci
con i prieghi l’offerte; e ben mi sdegni;
ma sappi, e mio nemico e mio tiranno,
sappi tutto il mio cor. Materno affetto,
non timor, non viltà fu mio consiglio.
Per vendicar un figlio, io nella madre
ma parlò solo il labbro; e questa mano
era pronta a svenarti, anzi che fosse
profanato il mio sen da’ tuoi amplessi.
Tentai la sorte e mi tradì. Bell’ombra
di Epitide infelice, il dolce, il caro
piacer di vendicarti ancor mi è tolto
ma non già la speranza. Empio, paventa,
se non me, gli alti dei. Se tanto in terra
in cielo almeno, in ciel potran ben tanto
del figlio il sangue e de la madre il pianto.
Quel tuo pianto ingannar non può gli dei.
Tu la rea, la crudel, l’empia tu sei.
Anassandro è fra’ ceppi, alta regina.
Trasimede fedel, che non ti deggio?
A me tosto il fellon. (Alle guardie)
                                      Non lungi attende
                        Qual l’hai sorpreso e dove?
ricusa il giorno. Egli fuggir volea;
cinto, temé la minacciata morte.
Già viene il traditor. Nel fosco volto
di perfidia e timor spiega l’insegne.
Voi mi tradiste, inique stelle indegne.
gli astri innocenti? Al tuo fallir la devi.
Già ne sento l’orror. Veggo i ministri,
s’arruotano le scuri, ardon le fiamme.
Ma fiamme, scuri e orribili tormenti
degne pene non fien del tuo delitto.
Né uguali al mio rimorso. Errai, regina.
perché farti? Perché? De’ miei custodi
                                         Era tuo servo.
                                    E tra’ più cari.
                           Sacrilego...
                                                 Tra l’ombre
                                      Cresfonte uccisi.
Né sazio di una morte e di una colpa,
                                      Coppia innocente.
Confessa il fallo. (A Merope)
                                 Il perfido non mente. (A Trasimede)
                        Molto a dir resta; e molto
resta a saper. Di pubblico delitto
pubblico sia il giudizio. Alla Messenia
                                     Va’, Trasimede.
Tosto raduna e popoli e guerrieri;
costui ben custodisci, ond’ei non fugga.
La sua condegna capital sentenza
e trofeo diverrà de l’innocenza.
Seguitelo, o miei fidi. Il suo gastigo
                                       Parla.
                                                    Concedi
che sul timido labbro esca un sospiro
                                  Siegui; ma prima
vedova di Cresfonte e tua regina.
ma troppo del tuo duol piena è quest’alma,
perché al tuo donar possa un sol pensiero.
Un empio è già ne’ lacci e a te lo deggio.
Cadrà ne’ suoi l’usurpator tiranno.
Resta Cleon. Diasi ad Averno e a l’ombra
questa vittima ancor. Madre e consorte,
debbo a me la vendetta e poi la morte.
Col nome di Cleon vive in Messene
e vincitor s’onora e fia tuo sposo.
Soave prigionia, per cui qui godo
                          (È dessa). Amata Argia. (Licisco si scosta in atto di guardare per la scena)
                                Anima mia.
Mal guardinghi che siete! È luogo, è tempo
questo a trattar con libertà gli affetti? (Entra nel mezzo)
                  Amico...
                                    Un guardo basti. Andate;
sia più saggio il tuo amor, più cauto il tuo.
                                        Non si tradisca
per un cieco piacer quel gran disegno
che a te assicura e la vendetta e ’l regno.
Saria teco sospetto anche Licisco.
Io parto. Un gran timore in gran periglio
L’ardir teme Licisco, Argia l’amore;
io temo la pietà. Quelle ch’io vidi
di Merope sul volto ancor rammento.
Poi dico a me: «Quanto crudele, ahi! quanto
fosti, o mio core, a provocar quel pianto».
a l’alto formidabile giudizio,
tutto vorrei, non che la Grecia, il mondo.
qui la vendetta e la fortuna mia).
E che? Senza il mio voto e me lontano,
v’è chi raduna e popoli e soldati?
dacché vedova son, fu ’l primo e ’l solo.
l’innocenza svelare e ’l tradimento,
qui decretar la vita e qui la morte
del sangue di Cresfonte e de’ suoi figli
un’empia madre o un perfido vassallo.
Chi dar dovrà l’accusa? E chi punirla?
L’accusator sarà Anassandro, alfine
voi, messeni, custodi delle leggi,
difensori del regno, e tu, che sei (A Trasimede)
del consiglio sovran regola e mente,
                                Ella è innocente. (Piano a Licisco)
l’arresto di Anassandro. Ei qui si tragga.
Saranno Trasimede e la Messenia
e Merope e Cleon meco si assida;
e tu, signor, l’eccelso trono ascendi,
a cui da’ nostri voti alzato fosti.
del reale carattere che in fronte
Reo Merope mi crede e, finché il vostro
purghi il mio nome e la mia gloria assolva,
non re ma cittadino. Il re voi siete;
ed al vedovo trono io queste rendo
non mie ma vostre alte reali insegne. (Depone sul trono la corona e lo scettro)
te la Messenia. Orsù, la legge è questa.
Al giusto la corona. Al reo la testa. (Va a sedere con gli altri)
                         (Voi lo sapete, o dei).
(Tutti sono in tumulto i pensier miei).
cui sul lucido seggio, ove non sale,
non che l’occhio, il pensier, nulla si asconde,
che d’intorno mi udite, anime belle...
Ove sono le scuri? Ove i ministri?
L’ho meritata vil, l’attendo forte.
L’avrai, fellon, l’avrai ma in più tormenti,
Se la vuoi men crudel, qui t’apparecchia
nulla a tacer, nulla a mentir del grave
consigliato da altrui, da te commesso.
A che richieste? A che minacce? Io sono
l’uccisor di Cresfonte e de’ suoi figli.
Ecco il braccio. Ecco il ferro. In brevi accenti
ecco il delitto, il testimon, la prova. (Gitta uno stilo nel mezzo)
si cerca il seduttor, non il ministro,
non chi eseguì ma chi ordinò la colpa.
A quel duro cimento eccomi giunto
fui per esser fedel. Deh! Questo vanto
non mi si tolga in morte; e mi si lasci
un mio solo delitto e ’l sol mio pianto.
              Che tardi? A forza di tormenti
Su via, si parli. Un traditor non mente,
quando in morir teme il rimorso o ’l sente.
Cadde Cresfonte e diede al colpo atroce
fissa in Merope un guardo, un ne ricevi;
e passi dal mio volto e dal mio sguardo
entro l’anima tua, quantunque infame,
una voce, un’idea che ti sgomenti.
che colpevole io sia, dillo, se puoi.
(Ahi voce! Ahi vista! Instupidita è l’alma.
Sudo, tremo vacillo, ardo ed agghiaccio).
da chi è innocente, accusator che parli;
né al suo labbro s’insulta. E tu, Anassandro,
che più tacer? Del giudice l’aspetto
e non l’ira del reo sia tuo spavento.
(Temo su quelle labbra il tradimento).
(Rimorsi, addio. Lice, se giova). Io manco,
lo so, messeni, a la giurata fede.
prima che del mio fral sia sciolto il laccio.
Merope il cenno ed Anassandro il braccio.
                                  (Eccomi in porto).
                                                                      O madre! (Vuol avvanzarsi ed è trattenuto da Licisco)
il comando sacrilego? Ove? Quando?
                               Regina, ah! fossi stato
ubbidir ti dovea. Tu l’uscio apristi.
perfida donna. La sentenza è data,
Vattene. A la tua pena oggi t’appresta.
Al giusto la corona. Al reo la testa. (Le guardie vanno a circondare Merope. Polifonte ripiglia la corona e lo scettro dal trono)
Ah scelerato! Ah traditor! Messeni,
è reo chi mi condanna. In me salvate
l’infelice salvate e l’innocente.
Non si perdan momenti. Oggi si affretti
e dal peggior secondo mostro indegno
purghisi omai de la Messenia il regno.
                                      Vani riguardi.
Sia mia cura punir l’empio Anassandro
e Merope la tua. Va’; scrivi, adempi
la capital sentenza; e se paventi
d’esser giudice suo, paventa ancora
il tuo giudice in me. Voglio che mora.
Parto a ubbidir. (Regina sfortunata!) (Parte)
una moglie real mal si condanna
su l’accusa infedel di un traditore.
voi siete ingiusti e un traditor tu sei. (Parte)
(O amore! O ardir! Sieguo i suoi passi). (Parte)
                                                                          (O dei!
Si perdoni a Cleon cotanto ardire.
dirti: «Amico fedel, per te re sono».
Ma sotto il piè non hai ben fermo il trono.
Merope estinta, onde temerne il crollo?
Può farmi guerra un nudo spirto? Un’ombra?
Vive in Cleone il tuo maggior nemico.
Ne l’etolica reggia, alor che occulto
restò quel volto entro l’idea.
                                                    T’inganni.
Grand’insidie mi sveli e grand’arcano.
A te il regno dovea, debbo or la vita.
te ne assicura un re, degna mercede.
                                                Ancor per poco
soffri i tuoi ceppi. Olà, custodi. In cieca (Si avanzano le guardie)
La sua pena ivi attenda, ivi il suo scempio.
la memoria vivrà. Grande e temuta
e avrò da’ gran delitti un nome eterno. (È condotto via dalle guardie)
Si liberi il mio cor da un gran sospetto;
poscia gli angui del crin scuota Megera
e del tosco peggior sparga il mio petto.
Non arrossir. Cleon piacque al tuo core.
Eletto dagli dei degno è d’amore.
E sì tosto obbliasti il primo amante?
e non ardon le fiamme in fredda polve.
Ardono, Argia; ma sia Cleon tuo sposo;
del tuo diletto Epitide il riposo.
                               Non è più tempo, Argia,
di negar, di tacer ciò ch’è già noto.
               Troppo mi offende il tuo timore.
A Merope si taccia, iniqua madre,
e non a Polifonte, anima fida,
                                      (Stelle!)
                                                        Egli vive,
(giova il mentir) me ne affidò l’arcano.
Viva egli lieto e regni. A me sol basta
che suo servo mi accetti e suo vassallo.
leggi sovrane è la fortuna mia.
Signor, che sul tuo cor regno hai più grande
perdona se ti offese il mio timore.
Fu giusto, e ’l lodo, il tuo geloso amore;
e tal lo custodisci infinché spira
l’iniqua madre. A lei, se chiede il figlio,
vivo lo niega e lo compiangi estinto.
Che se noto a lei fosse il suo destino,
spinta da quel furor, con cui trafisse
potria quella crudel dargli la morte.
Veggo la tua virtù nel tuo consiglio.
Tradir la madre è un preservare il figlio.
Tratto a’ miei cenni ecco Anassandro. È giusto
Eccomi, ma fra’ ceppi e tu nel soglio. (Si ritirano gl’arcieri ad un cenno di Polifonte)
Son lubriche, Anassandro, e son gelose
le fortune dei re. La mia vacilla,
                                       E che più resta?
Sai qual cor, sai qual fede...
                                                   E fede e core
temo che al rio cimento inorridisca.
esser vile poss’io; per te son forte.
                                         Che?
                                                     La tua morte.
assicurar mi può la pace e ’l trono;
e questa a te richiedo, ultimo dono.
O dio! Sì ria mercede a me tu rendi?
In servire al suo re premio ha ’l vassallo.
                                       E questo è ’l grande
Reo sei del mio rossor, finché tu vivi.
Se mi temi vicin, dammi l’esiglio.
E vicino e lontan sei mio periglio.
si consegni il fellon. Ne stringa il nodo
il popolo da voi la sua vendetta.
Sacrifizio più illustre a sé m’affretta.
a pubblico fallir pubblica pena?
De le mie scelleraggini ecco il frutto.
E ben ne paghi il fio. Spinto da l’ire,
onde Messene il tuo gastigo affretta,
per chiederlo, qual dessi, a Polifonte,
qui trassi, o iniquo, il piè.
                                                 Giusto il confesso.
chi, di me più perverso, or ne trionfa.
                                         Merope, o dio!
Morrà Epitide ancor; vivrà il tiranno.
Misera patria mia, tardi ti piango.
Da tronche note alti misteri apprendo
giova al pubblico ben che sol per poco
si sospenda a costui. Sciolgo i suoi lacci; (Lo scioglie dall’albero)
lo riconsegno a voi. Non si trascuri
ciò che il regno riguarda; e poco importa
che o più presto o più tardi un empio mora.
No, non chiedo perdon, chiedo che ancora
m’oda Messene e poi morir mi faccia.
ella è più rea di me se non mi ascolta.
guidatelo a’ suoi giudici. Da lunge
                      Con palesar l’inganno
farò ancora tremarti, o mio tiranno. (Parte)
Che intesi mai? Qual torbido ne l’alma
mi si svegliò? Muor Merope innocente.
Mi fa pietà la madre, orrore il figlio.
Cor mio, chiedo a te sol la tua costanza.
pianger tutti non puoi, pochi non devi.
Grandezze, libertà, consorte, figli,
Epitide, che più? La mia vendetta,
la gloria mia, tutto è perduto. Io moro,
non regina, non moglie e non più madre
ma condannata, invendicata, infame;
e pur moro fedel, moro innocente.
e ciò ch’io reco e ciò ch’io soffro intendi.
tentai l’indugio. Oggi... Mi manca il core.
L’impostura trionfa. Io morir deggio
e morir condannata. Ombre dilette,
oggi sarò con voi. Vittima pronta
andrò in breve a l’altare e andrò tranquilla.
dillo ai giudici miei per lor rossore
e per vendetta mia dillo al tiranno.
senso de’ mali miei, vendica, o prode,
mi preceda o mi giunga. A Trasimede
quest’ultimo favor Merope chiede.
E Merope l’avrà. (Scoppiar mi sento).
Di più non chiedo. Assai per me tu oprasti;
Figlia e moglie di re, vicina a morte,
che ho un solo amico e morir deggio ingrata.
se vedessi il mio cor. Reo tu nol sai
                                      E di qual mai?
Chiedilo a la mia stella, a’ tuoi begli occhi,
e alor saprai che la mia colpa è...
                                                            Taci,
O perdono! O virtù! (Una guardia di Polifonte dà una lettera a Merope)
                                       Che fia? Qual foglio! (L’apre subito)
Quegli è de’ suoi custodi.
                                               Ed ei qui scrisse. (Legge)
debbo qualche pietà. L’odio, ch’al rogo
sopravive ed a l’urna, è troppo ingiusto.
Cleon fu l’assassin. Prove sicure
n’ebbi da fido messo». O scellerato!
«Al tuo giusto dolor farne vendetta
già ricusai, quand’era incerto il colpo;
or che l’autor n’è certo, a te lo dono.
Prendila qual più vuoi. Verrà fra poco
Cleon ne le tue stanze. Ivi il tuo figlio
vendica, ivi il mio re. Così vedrai
quel tiranno che pensi e qual lo fai».
Doverlo a Polifonte assai mi duole.
Pur non si perda. Trasimede, io voglio
veder Cleon, fargli temer la morte
del suo misfatto assicurar te stessa.
Poi, s’altro cenno mio non tel divieti,
fa’ che, in uscir da queste soglie, il fio
da la tua spada e da l’altrui trafitto.
                                              Parti.
Figlie di giusto sdegno, ire di madre,
Lungi, o pietà. Cada l’iniquo esangue,
a l’ucciso mio figlio... Eccolo. Ahi vista!
Per comando real di Polifonte
a te vengo, o regina; anzi a te vengo
per impulso del cor che in te compiange
Di’ che vieni, o crudel, perché il mio pianto
ti serva di trionfo. Armata d’ira
volea chiuder nel petto il mio dolore
di un barbaro piacer. Ma al primo sguardo
è al mio pensier l’idea del figlio ucciso
che agli occhi miei de l’uccisor l’aspetto.
Godi, perfido, godi. Ecco, il mio pianto
le gote inonda e intumidisce il ciglio.
Inumano assassin! Povero figlio!
Perdonami, o regina. È ver. Son reo;
la morte del tuo figlio. Il duro avviso
io te ne diedi e la mia colpa è questa.
                                      Per te, spietato,
vantane il bel trofeo, per te le spargo.
Ma poco ne godrai. Tremane e senti.
Sul primo uscir di queste soglie, al fianco
avrai la mia vendetta e la tua morte.
(Ah! Non resisto più; tempo è ch’io parli).
                              Mio? Tu me l’hai tolto.
Tornerai, se mi ascolti, ad esser madre.
             Epitide vive.
                                       Il so, tra l’ombre
qual tu, qual io; questo è ’l suo cielo e queste
Tel giuro; e ’l vedi; e ’l senti; e quel son io.
sei l’uccisor. La minacciata morte
si è fatta tuo spavento; e per fuggirla
mi vorresti ingannar. Ma questa volta
                                       Ah madre!...
                                                                Taci.
Sol perché madre son, temer mi dei.
Non sei mio figlio. Il suo uccisor tu sei.
Tacerò; morirò. Ma pria ch’io mora
la mia sposa fedel. Credi a l’amante
                                       Olà. Si faccia
sol per brevi momenti il tuo destino;
ma di Epitide sei l’empio assassino.
Più non si nieghi il figlio ad una madre.
Ora parli il tuo amor. Dillo, alma mia,
A chi parli? Chi sei? Donde in te nasce
tanta o baldanza o frenesia d’amore?
Qual, regina, è costui? (Cauti, o mio core).
Eh! Non finger, mio ben. L’arte non giova.
Tu lo conferma. Io son tuo sposo. Io quegli...
ti dà qualche ragion sovra il mio core.
                                        No, tu nol sei.
è la perfidia tua. Parlò l’amante;
                Non ti conosco.
                                              I numi attesto. (Ad Argia e poi ad Epitide)
Spergiuro è ’l traditor. Non ti do fede.
Per te lo sparsi anch’io. Non t’ho pietade.
vedrò dopo il tuo pianto anche il tuo sangue.
(Son crudel per pietà). Parti, o infelice.
Deh! Per l’ultima volta...
                                              Ancor t’arresti?
                                    Più non ti ascolto.
                                     Tu me l’hai tolto.
Quasi m’intenerì. Quasi sedotta
                                         Tutto è bugia.
quel cor fellon cade svenato a l’ara
de l’infelice Epitide tradito.
                                 Sì. Dato era il cenno;
al varco l’attendea la mia vendetta.
Qual pallor? Qual pietà? Tardo è ’l consiglio.
E ne l’empio Cleon perì il tuo figlio.
Cleone è il figlio mio? Perché tacerlo?
numi, soccorso. Ah! S’io non giungo a tempo,
son misera del pari e scellerata.
Fermati, arresta il piè, madre spietata.
                                     Ti affligge il colpo?
Da te ingannata, iniquo mostro e rio.
e furia e mostro e traditor son io?
compisci, o Trasimede. Il cenno... Il figlio...
Di’. Parla. A che ammutir?
                                                  Quanto dovea
                         Barbara fede! Iniquo
                              Che? Tu l’amor mio, (A Trasimede)
                               Carnefice del figlio,
Un ferro per pietà. Chi mi dà morte?
e con l’idea de’ suoi misfatti enormi.
Andiamo ad affrettarle il suo gastigo.
teco anch’io verserò sul figlio amato.
Me il tiranno tradì, te l’empio fato. (Parte)
Già reo del sangue mio nel figlio ucciso,
me, Trasimede, ancor passi il tuo brando.
Io reo? La mia gran colpa è tuo comando. (Parte)
lieto fissar su le mie pene il ciglio.
L’empia sei tu che trucidasti il figlio. (Parte)
Sei dolor, sei furor ciò che m’ingombri?
Mostri, spettri, chi siete? A che venite?
Ecco il velo funebre. Ecco i ministri.
Ecco la morte mia. Su, che si tarda?
Io credea vendicarti e t’ho svenato.
Toglietevi, o mie luci, al fiero oggetto,
più di morte crudel. Qual ferro è quello?
In qual seno e’ si vibra? Trasimede,
Apro al figlio le braccia e l’aure stringo.
Mal fece il tuo signor, mal tu facesti
                              Epitide...
                                                  In Cleone,
Quel grado, che sostieni e ch’io rispetto,
ne’ tuoi lacci cadrai, tiranno indegno).
Signor, tutto è già pronto. Un’alma iniqua
qui avrà la pena sua, qui un re la pace.
                                                  Il reo va sempre
se volontaria il niega; e collo e mani
di funi avvinta traggasi l’indegna
al sanguinoso altar de la vendetta.
d’esser tratta a morir. Libera viene;
l’oltraggio sofferir di tue catene.
Da chi l’avrò? Da scure? Io stendo il capo.
Sia tosco, fiamma sia, laccio, ruina,
morirò sì; ma morirò regina.
Tu ostenti per virtù la tua fierezza.
e svenato da te, giace il tuo figlio.
Apri l’infausta scena e fissa un guardo
trofeo di tua barbarie, orride piaghe.
Se poi tarda pietà ti chiama ai baci,
baciale pur ma con qual legge or senti.
mano a man, seno a seno e bocca a bocca
ti leghino, o crudel, ferree ritorte;
che il cadavere istesso a te dia morte.
per qual via non usata entra l’orrore!
Averno non l’avea, l’ha Polifonte.
                                    Al tuo furor si serva.
Chi sa che al primo sguardo, al primo bacio
io non moro su voi, viscere amate.
O dio! Trema la mano. Il piè si aretra. (Va per aprir le cortine e poi si ritira)
Si offusca il guardo. Io non ho cor.
                                                               Non l’hai
l’apparato letal. Da voi, messeni,
Mira. Epitide è quegli... Ahi! Son tradito. (Al cenno di Polifonte s’alzano le cortine e danno luogo a la vista del rimanente della sala)
Sono tuo re, tuo punitor, tua pena. (A Polifonte)
è il testimon. Lo raffiguri?
                                                  O stelle!
                                              Vivo, o spergiuro,
per tuo rossor, per tuo tormento, o iniquo.
Trasimede, messeni, a l’armi, a l’armi.
Al vostro re s’insulta. Ira ed inganno
                                             Mori, o tiranno.
                                            O vile!
                                                           Aita.
                      Soccorso.
                                         O scellerato!
il tuo nome sol basta a dirti il mostro,
                                           È ver. Pietade.
Di Cresfonte l’avesti e de’ miei figli?
L’avrai ma sol da morte. Entro il più chiuso
de la reggia e’ sia tratto e là si uccida.
Crudel, se così giusta è tua vendetta,
Ove il padre uccidesti, ove i fratelli,
tu dei morir. Più orribile a’ tuoi sguardi
dove peccasti apparirà la morte.
trarr’io potessi al baratro profondo
Merope, Epite e la Messenia e ’l mondo. (Parte)
Vada con le sue furie. Impaziente
                O madre.
                                    O gioia! O amore! O vita!
Qual dio ti preservò? Chi a me ti rese?
Licisco fu. La morte egli sospese
che Trasimede a me vibrava in seno.
                                           E potea dirlo,
                                             Or che gran parte
riparai di que’ mali, onde reo sono,
supplice a’ piedi tuoi chiedo la morte.
L’esiglio ti punisca e ti perdono.
Trasimede, Licisco, a voi la vita
debbo e lo scettro, a te, mia sposa, il core,
a te, madre, quant’ho, cor, scettro e vita.
                  O figlio!
                                    O generoso!
                                                            O degno!
Tal da due mostri è per te salvo il regno.

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