Metrica: interrogazione
976 endecasillabi (recitativo) in Scipione nelle Spagne Venezia, Pasquali, 1744 
vinta è Cartago e di un sol giorno è il frutto
l’altra, del nostro impero emula antica,
Cartago il crederà. Seco ne trema
l’Africa, ond’ella è cinta; e il valor nostro,
già fra quanti ella chiude, è il suo gran mostro.
abbia il mondo a servir scritto è ne’ fati.
ne affretta il corso. In sì verdi anni oprasti
col zelo mio, col braccio vostro, il grande
genio di Roma. A lui dell’opra il merto,
sia la turba cattiva. Avvinti e domi
vegga Cartago i suoi, Roma li vegga,
quella in suo disonor, questa in suo fasto.
più in ostaggio che in odio. Il lor riscatto
sarà per voi, forti guerrieri, un nuovo
Grande hai la fama ed hai più grande il core.
(Ma fra le glorie il fe’ suo schiavo amore).
Invitto eccelso duce, a’ tuoi trionfi
che il ben usarli. Ispana son. Mi diede
pari al natal spiriti illustri il cielo.
non è l’affanno mio. Stretto anche il piede,
seguirò Scipio e soffrirollo in pace;
questa, è questa, o signor, mia pena e tema.
tu difensor. Se l’umil voto e giusto
dall’armi illeso e dal poter di Roma
anche a costo di sangue, il proprio onore.
(In sen di donna ha cor di eroe). Qual fia,
la beltà del suo sesso e tutta insieme
                                         In lei tu scorgi,
che in fertil suolo agl’Illergeti impera.
mio fu l’onor del suo servaggio. (Ah! Ch’io
restai sua preda e tu lo sai, cor mio).
bando al nobil timor. Roma ha per legge
di onorar la virtù, non di oltraggiarla.
anzi alla tua virtude. Essa tra noi
ospite sia, non schiava. Amisi in lei
vegga, al par de’ nemici, anche gli affetti.
                                                         Ah! Duce...
                                    O Sofonisba è morta
o, vicina a morir, lotta con l’onde.
Che?... Sofonisba?... O dio!... Come?...
                                                                      Poc’anzi
dall’alta torre, onde sul mar si stende
libero il guardo, ella gittossi e il fece
che invan si accorse a rattenerla...
                                                              Ah! Basta.
Già troppo intesi. Empio destin, trovasti
con che atterrirmi. Invan sei forte, o core;
né in te sento l’eroe, sento l’amante.
di sì illustre dolor sì strano caso.
Che giova inutil pianto? Ite, Romani;
cerchisi scampo. Ite. Pietoso il mare
del suo sepolcro. Ite veloci. (Ah! Scipio (Partono alquanti de’ soldati romani)
restar tu puoi? Colà ti chiama, o core,
il tuo amor, la tua pace, il tuo dolore).
Aman anche gli eroi. Scipio anche serve
Fiamma gentil, che a nobil cor si apprende.
(Tal per Luceio anche quest’alma avvampa).
si sdegnerà che Marzio n’arda e l’ami?
Arda egli pur; ma per Elvira ei formi
corregga il volo a’ suoi mal nati affetti.
gl’incendi miei. Non condannate un’opra
del poter vostro o la punite in voi.
prenderò esempio e legge. In sì ria sorte
il men che mi spaventi è la mia morte.
Con ritrosa beltà non giovan preghi;
vendichi il vincitor. Mia voglio Elvira.
piace e lice il consiglio, amor lo inspira.
                                     Tu, mio Luceio?
nel sordo mar quasi ti trasse a morte?
Quella del mio destin. Veggo in un giorno
la città presa, i miei disfatti, il padre
ferito e schiavo. I ceppi suoi compiango,
compiango i miei. Scipio mi vede e accresce
con l’amor suo le mie sciagure. Il grido
mi giunge alfin della tua morte. A questo
più non resisto. Odio la vita. A’ flutti
mi spingo in seno, o disperata o forte.
Mi opprime il mar. L’onda qua e là mi volve;
poi non so come in sulla spiaggia asciutta
riapro gli occhi e a te mi trovo accanto,
a te, mio ben, sì sospirato e pianto.
Non fur meno de’ tuoi strani i miei casi.
cedé il punico Marte e il Marte ibero,
ritraggo il piè. Giungo ove giace un nostro
soldato estinto e col favor dell’ombre
copro me del suo usbergo e lui del mio.
che morto io sia. Questa mi giova. Intanto
chieggo di te. T’odo prigion. Mi aggiro
presso Cartago. Entro quell’onde veggio
donna cader dall’alta torre. All’uopo
te in lei sottraggo, anzi me stesso, o cara,
del rigor vostro, o dei, più non mi dolgo.
                                                A lui si asconda
ch’io sono ibero e che ti tolsi all’onda.
grave il morir? Con qual oltraggio un tanto
se in me temi un nemico, hai cor che è ingiusto.
Se in me abborri un amante, hai cor che è ingrato.
di usbergo il sen, benché di allor la chioma,
senza oltraggiare o Sofonisba o Roma.
Signor, perdita lieve era a’ tuoi fasti
Volli morir; ma il mio destin ne incolpa;
io non conto, o Scipion, l’esser tua schiava.
mi ha ridotto il rigor di un’empia sorte,
sin la pietà di chi mi tolse a morte.
senza mercé né senza gloria. Vieni,
qualunque sii, fra queste braccia, amico.
sono gli eroi; né di quel sen gli amplessi,
merta uom di sangue e più di fama oscuro.
All’opra mia premio non devi. Io tutto
trovo la gloria mia, la mia mercede.
Chi per te nulla oprò, nulla ti chiede.
non lo additano uom vil. Qual sia, ti è noto,
                               Guerriero ispano,
                         Nacqui fra’ boschi. Il mio
fu romper glebe e maneggiar vincastri.
sotto l’insegne a militar mi spinge
cader sul campo e trionfar del nostro
pena e viltà. Volgo a Cartago il piede
e cerco i tuoi, sol per morir da forte.
ma la salvo a Luceio. In quel bel core
Quel magnanimo ardir che sulle labbra
e quel nobile aspetto, in cui ti ammiro,
smentisce i tuoi natali o gli condanna.
Qualunque sii, t’apro il mio core. In prezzo
(Salvo è Luceio e fortunata io sono).
son grandi, è ver; ma di Tersandro il core
Il perdono tu m’offri e non lo voglio.
e viltà mai non cape in petto ispano.
La libertà mi rendi e non l’apprezzo.
a chi oppresso è da mali, un mal di meno.
L’amistà mi offerisci e non l’accetto.
di volgar prezzo e di sì pochi instanti.
esser non puote amico al suo rivale.
sin con l’offese). Orsù, Tersandro, vieni
meco in Cartago. In testimon ti voglio
dell’opre mie per meritarti amico.
Seguirò il mio destin, più che i tuoi passi.
(Così sarò di Sofonisba al fianco).
mi fia quel cor, benché nimico e rio;
la fierezza del tuo più mi spaventa,
                                     Odimi, o duce.
mi dica: «Ama Scipione, io tel comando»
il mio cor cesserà d’esserti ingrato.
Nel suo volere il mio voler rimetto.
Tu mio giudice il rendi ed io l’accetto.
gran beltà Sofonisba. E quella e questa
Temo che quella ceda a un sì bel volto.
Temo che a questa piaccia un sì gran merto.
vorrei questo men grande e pur mi giova;
vorrei quello men vago e pur mi piace.
Ma che? Dove è virtù, lunge la tema,
forze accresce a virtude e non le scema.
la tenda è questa; e qui di Elvira attendi,
la real tua germana, il presto arrivo.
                                Trebellio amico,
dovrò a te il gran piacer del rivederla.
generoso Cardenio, io più ti deggio.
libertà m’impetrasti e ti son grato.
il mio affetto ti giuro e la mia fede.
L’amata in quella e la germana ho in questa.
forza di onor. Seguo la legge e sento
che si chiede un gran colpo al braccio invitto.
che un atto di virtù sembri delitto.
Offese non minaccio. Amor richieggo.
amante impuro è l’offensor più rio.
piaccia lo sposo; e d’imeneo la face
in me purghi le fiamme, in te le accenda.
Io nata al trono, a vil tribuno io sposa?
patria mi sia, perché al mio sangue a fronte
scemin gli ostri reali anche di prezzo.
Tribuno in campo e cavaliere in Roma,
più di quel ch’io ne tragga, a te do fregio.
Ed un tal fregio, o cavalier tribuno,
più degna sposa. Elvira schiava, Elvira
nata in cielo stranier tanto non merta.
La scelta mia ti onora; e qui di Marzio
l’amor ti è gloria ed il voler ti è legge.
tal legge non pavento. Amante e sposo
di mia bontà. Son vincitor. Sei mia.
Ho poter. Ho ragion. Posso, se voglio.
ti lascio in libertà. L’utile indugio
sia consiglio al voler, freno all’orgoglio.
Già dissi. Tu risolvi. E posso e voglio.
misera io son che temer posso un’ira?
Un’ira che m’insulta e non mi uccide?
l’alma dal sen? Dov’è un acciar? Chi, o dio,
all’empia brama, al barbaro comando?
Di Elvira il core e di Cardenio il brando.
di tua virtude; e qui ti reco, o cara,
un rio soccorso, una pietà crudele.
e l’onorata spada in sen m’immergi.
l’ire feroci. Il vecchio padre abbracci
prima non tinsi entro il rio sangue il ferro?
non ti togliea. Nell’ostil campo ancora
potea far nuovi amanti il tuo bel viso;
né tutto era il tuo scampo un Marzio ucciso.
Sol mio scampo è il morir. Destra fraterna
caro mel rende e in te ne bacio il ferro
che dee la strada al cor pudico aprirsi,
ove del mio Luceio impresso è il nome.
colpa innocente, un amor casto e degno;
amor che verrà meco anco agli Elisi.
Or che più tardi? Accresce ogni dimora
il rischio mio, perché è tuo rischio ancora.
core alla mia. Quella mi regga e quella
Morir per l’onestà non è sciagura.
(Barbaro onor!) Già ti compiaccio e il nudo
                                            Fermati, o crudo.
                                                 Il fio
tu pagherai, da questo acciar trafitto,
della tua crudeltà, del tuo delitto. (Si battono)
Olà. Marzio, qual’ire? Onde quell’armi?
Da un cieco altrui furor. Costui di Elvira
feci col mio dell’innocente al seno;
volse l’acciar contra il mio petto istesso.
E te chi spinse a così enorme eccesso?
Forza di onor. Tu che sei giusto, o duce,
e assolva i falli miei l’altrui misfatto.
Cardenio son. Mi è suora Elvira. Oltraggi
            Taci. Ei segua.
                                         (Il mio rivale è questi).
(Quegli è il mio ben. Come di Scipio al fianco?)
vo’ sottrarla col ferro. Egli mi arresta.
Marzio ancor vive; e la mia colpa è questa.
e la salva onestà n’era il gran prezzo.
Marzio, che m’insultò, Scipio anche offese;
reo dell’altrui perfidia anch’ei si rende.
                                                          Elvira
restò mia schiava e sovra lei mi danno
l’armi e le leggi autorità che è giusta.
Ma non sovra il suo onor. Tu ne perdesti,
con abusarne, ogni ragion. Trebellio.
sia la prima tua pena, o cor lascivo.
(Pena crudele! Io perdo Elvira e vivo).
                                                                Ah! Questo
de’ miei sudori a pro di Roma è il frutto?
Questa del sangue sparso è la mercede?
l’aquila innalzo e le difese espugno.
                              A te la tolgo, o Marzio,
anzi al tuo amor. Ma del riscatto il prezzo
Scipio, in quest’alma un mercenario affetto.
A torto tu mi offendi. A torto illeso
entrò nel campo. Ei di un roman tribuno
portò furtivo entro la tenda il passo.
Ei m’insultò col ferro; e pur si soffre.
Duce, del torto mio ragion non chieggo,
del pubblico la chieggo; e se impunito
tel giuro, i miei guerrieri e i tuoi pur anco
sapran punirlo anche di Scipio al fianco. (Si parte co’ suoi)
tolsi l’oggetto e l’onor tuo difesi.
che del tuo ardir prenda la pena anch’io.
Cedi l’acciar, nemico a Roma e mio.
Aggiungi, e tuo rival. L’odio in te cresca
con la ragion di quella fiamma ond’ardi.
                                                   Comunque
col tuo voler di me decreti il fato,
rammenterò che hai l’onor mio difeso
e morrò col rossor d’esserti ingrato.
                                   In sulla fronte, o duce,
n’è interprete più fido. Onde il tuo duolo?
Da te, Scipio, da te. Spandesi in tutti
la tua beneficenza. In me de’ mali
                                     In che ti offendo?
                                              Non anche intendo.
Or tu mi offendi in lui. Le sue catene
che in te insieme non miri il mio tiranno.
Suo giudice or son io. Deggio punirlo,
                                   Ma dirà il mondo
perché l’odi rival. Sol nel tuo core
lo fa reo Sofonisba ed il tuo amore.
                                      Ed amo in essa
                         Sta in tuo poter.
                                                         M’imponi,
qual vuoi, più dura legge. Eccomi pronto.
                                                             Il fato
di Scipio l’ira e di Tersandro il voto.
Per un rival troppo ti esponi, o caro. (Piano a Luceio)
                                                        Intendo.
lieto succedo. Eccoti il ferro e sappi
                                     (Virtù funesta!)
Giurati amico mio. La legge è questa.
di un mio rival, per liberarne un altro).
                                      Più che non pensi. (Vien presentata a Scipione una spada gioiellata)
                                                      Su questo
brando lo giura, indi il gradisci in dono.
Giura Tersandro; ed or tuo amico io sono.
E sia pegno di fé l’illustre acciaro
che in tuo servigio al guerrier fianco appendo.
                              Alla città mi affretto,
venga ancor Sofonisba. Amor vien meco.
Ah Luceio! Ah mio ben! Come unir puoi
l’amistà di Scipione a te rivale,
la gloria e il merto alla virtù si aspetta.
e misura il mio amor dal mio gran core.
                                   Grave disastro
non minaccia per poco; e a Roma ignoto
                               E pur lo toglie a’ ceppi
                                   E di Tersandro il voto. (Scipione sopragiunge)
M’hai vinto, o duce, e con l’onor difeso
e co’ lacci disciolti. Altro non posso
che un grato ossequio, un’amistà sincera.
perché men perigliosa e meno incerta.
l’odio non muor, se ben la forza è doma;
e se vinco così, più vinco a Roma.
                                        Attendi. Al campo, o fido, (Prima a Cardenio e poi a Trebellio)
va’ tosto. I tuoi raccogli e Marzio osserva.
L’alma conosco torbida e proterva.
e due cori acquistai con un sol dono.
E se libero egli è, tuo amico io sono.
sol tua virtude a mio favor ti mosse.
Io per te nulla oprai; né di quel volto
vestigio alcun tengo nell’alma impresso.
A te anche ignoto era Luceio istesso.
                                         Vien Marzio. Udiamlo.
mi trasse, o duce, oltra il dover nell’ira.
È ver. Perdona. Avea perduto Elvira.
tolse molto al tuo error, molto al mio sdegno.
Or discolpa maggior n’è il tuo rimorso.
Cardenio mi oltraggiò. Più non n’esigo
e un fratello di Elvira ancor mi è caro.
In Marzio or sì ravviso un cor romano.
Ma non Marzio in Scipion. Benché sì chiara
la fama tua, sta d’atre nebbie involta.
                                            Soffrilo; e ascolta.
Sofonisba è il tuo amore, Elvira il mio.
Questa è mia spoglia; e tuo possesso è quella.
pari le leggi. E pur mi è tolta Elvira,
perché con l’amor mio la disonoro.
Ma in tuo poter, benché tu n’arda amante,
So che puro è il tuo foco e che non entra
l’ignaro vulgo, i più sublimi avvezzo
Se giusto sei, se l’onor tuo ti è caro,
con cui giudichi gli altri, anche te stesso.
priva il tuo amore o ancor l’altrui consola.
O con tua pena o a mio favor risolvi.
                                (Di te si tratta, o core).
Pianga, se il mio non gode, anche il suo amore.
                                 Principessa, al primo
folgorar de’ tuoi lumi arse quest’alma.
qual per onda gran fiamma, il mio bel foco;
e amai la tua virtù sin con mia pena.
e pera il mio piacer. Già da quest’ora
                       (Ahi! Che dirà?)
                                                        Cardenio sia.
                      (O me infelice!)
                                                      (O me beato!)
un oprar con virtù? Biasmi od applaudi?
O dio! Che fo? Lodo o condanno? Il primo
fa torto a Sofonisba e l’altro al giusto.
Benefico un tuo prence e stai sospeso?
Signor, ti loda assai stupor che tace.
(Nascesti, o cor, per non aver mai pace).
E tu, bella, che pensi? Assenti o neghi?
(Che dir dovrò? Manco alla fé se assento,
                                         Pensosa ancora?
Perde in Scipion con pena un che l’adora.
Scipio, sarò di chi m’impon la sorte.
(Ma sarò di Luceio o pur di morte).
                                             Marzio ti ammira.
tu senza Sofonisba, io senza Elvira.
                                              Prence, le devi
tutte a Tersandro. Addio. (Se qui mi arresto
vacilla la costanza e vince amore). (Si parte)
che io vegga ne’ tuoi lumi un raggio amico.
Mirali; e in lor vedrai sol pianto e lutto.
Il tuo estinto Luceio ancor t’ingombra
                              O dio! Morir.
                                                         Cotanto
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
E tu, caro Tersandro, a che sì mesto?
Tu sei solo mio duol, tu mia sventura.
lieto nell’amor suo, sveglia in quel core
per me qualche pietà. Fa’ che più lieta
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
Fatta è la tua virtù comun sciagura.
Sciagura esser non può s’è da virtude.
Cardenio a’ ceppi suoi, ne fa infelici.
Ricusargli un soccorso era fierezza.
                                 Fui generoso;
e del mio ben oprar, cara, or ne sento
Questo solo pensier basta a svenarmi.
                                   Oprar da forte; e quando
abbia fisso il destin che tu non possa
pianger, penar, morir ma sempre amarti.
l’altro è in periglio. Il mio consenso è un torto
della mia fede; e il mio rifiuto espone
la mia fama al rossor ch’ami Scipione.
corre, dovunque pieghi, al suo naufragio.
mi ottenne libertà. Per lui mi è dato
posseder Sofonisba. Ella è mia sposa.
                                        Vi applause e tacque.
ond’è che impallidisci e ne sospiri?
Più di quel che ne pensi alto è l’arcano.
                                               L’amo, o germano.
                                                              Affrena
Tersandro in esso. Amo in Tersandro altrui.
                              Il tuo rival, l’eccelso
de’ Celtiberi prence, è desso, è desso.
Morto non è? Son di stupore oppresso.
Vive l’invitto. Io ben più volte il vidi;
                               Giovami e il lodo.
Vanne e per me tutto confida e spera.
Speme che è mio conforto, o falsa o vera.
trovo il rival. Quanto opportuno ei giunge!
(Ma se oprai con virtù, di che mi dolgo?)
non è il fregio minor l’esser sincero.
Piacemi. Or di’. Nell’ultimo conflitto
                                  (Quale richiesta?)
                      Ei ne uscì illeso.
                                                      Entro Cartago
che in sen per Sofonisba amor gli accese.
Non può spegnerla in lui tempo, né morte.
(Ora, cor mio, sii generoso e forte).
Ah principe! Ah Luceio! Il grado e il nome
ben puoi mentir, l’alto valor non mai,
che dall’opre, dal labbro e dal sembiante,
quasi raggio per vetro, in te traluce.
                                                        Piuttosto
non si conti il mio amor, né l’odio mio.
tua nobiltà, me di catene hai tolto,
de’ miei voti il più caro, anzi de’ tuoi;
e a prezzo del tuo duol me fa beato.
più non posso accettarla. Ella è tuo merto;
in onta ancor d’ogni speranza mia.
che tormi non poté fortuna avversa,
mel vuoi rapir. Vil, se l’accetto, io sono.
                                 Giugne Scipione.
                                                                   O pene!
(Sin nell’altrui virtude odio il mio bene).
nota d’alma plebea, me non ingombri.
Grande è il tuo don. L’amo e l’amai; ma il tolgo
al più tenero amante, ad un cui deggio
del mio rifiuto; e Scipio non si offenda
che per mia gloria un suo favor gli renda.
Che invitto core! In Sofonisba ei vede
per piacer d’esser grato, a me la cede.
Cardenio, onoro il nobil atto e l’amo;
                                  Offrir tu il puoi, ma tutta
                                                Il mio dovere
ama più l’onor mio che il tuo piacere.
tu giudice ne sii. Che oprar dobbiamo?
Risponderò qual deggio (e non qual bramo).
L’onesto oprar libero è sempre; e fora
Tu vietarlo non puoi, perch’egli è grato;
tu sdegnarti non puoi, perch’egli è giusto.
Saria tua colpa amar ch’ei fosse ingrato.
Saria tuo scorno impor ch’ei fosse ingiusto.
Resto convinto; e il tuo rifiuto accetto.
(Ho vinto, sì; ma il cor mi langue in petto).
La mia gloria e il mio core ecco in periglio.
Sovvienmi, amico, e tua amistà mi vaglia
                                          In me costante
ne troverai la ricordanza e l’opra.
viver non posso. Il ritenerla è colpa.
sacra amistà, tu, che l’hai tolta all’onde
e che caro le sei, perché ti è grata,
l’onta e il rossor di un suo disprezzo.
                                                                   Io, duce?
Sì, confido al tuo zel l’alta mia sorte
e mi reca, se m’ami, o vita o morte.
                                                Di’, che rispondi?
                                     Caro Tersandro.
doveasi armar contra il mio core istesso
possessor del mio ben? Per me fia tratto,
quasi vittima all’ara, il mio bel nume?
E potrò farlo? E lo promisi? E vivo?
La mia Elvira qui spesso il piè rivolge.
La rapirò, la trarrò al campo; ed ivi
meglio custodirò ciò che è mio acquisto.
Me l’ottenne il valor. Roma il concede;
né può tormi Scipion la mia mercede.
Sì, godi, o cor; sì, respirate, affetti.
ve ne accertò, l’infausto laccio infranse.
decreta il cielo; e a noi soffrir conviene,
io tuo non posso, esser non puoi tu mia.
Eh! Più Cardenio il tuo dolor non sia.
                                   Men funesto e rio
Non dir così, quando sciagure apporto.
Vuol così ’l ciel. Così il dover l’impone.
Esser dei... Lo dirò?... Sì... Di Scipione.
                            Di lui che t’ama, o cara,
di lui che ti sospira e che n’è degno.
È questo il tuo destin. Questo è il mio impegno.
                                                        E te ne prego.
è un dir che non mi amasti e che non m’ami.
È un creder ch’io non t’ami o t’ami poco.
                                          Lo so e ten chieggo
l’ultimo testimon. Sii di Scipione.
                                    Col tuo rifiuto,
che mi nega un piacer, più mi tormenti.
Tormento la virtù ma piaccio al core.
Senti. Sii di Scipione o qual io sono,
suo rival, suo nimico a lui mi svelo.
sceglier possa il mio cor la men crudele.
la tua vita o il mio amor. Deh! Per pietade,
snuda l’acciaro e in questo sen l’immergi.
In questo sen, dove si chiude un core,
                                    Che sua sarai.
                                                                Disponi
di me qual brami. In tai martiri immensi
ciò ch’io voglia non so né so ch’io pensi.
sta in pena l’amor mio. Tu ne decidi
(O dio!) Leggi, o signor, su quel bel volto
                           Me fortunato!
                                                       Dillo, (A Sofonisba)
dillo tu stesso ancor, labbro amoroso;
chiamalo tuo signor, dillo tuo sposo.
                                  E sarà ver che alfine (Accostandosi a Sofonisba)
Scipio a Luceio in quel bel cor succeda?
Non mel tacer. Non mi celar quegli occhi. (Sofonisba rivolge gli occhi ad altra parte, piangendo)
quanto puossi goder ne’ miei trabocchi.
Scipion... (Più dir non posso). (Sofonisba si volge a Scipione e poi fa lo stesso che prima)
                                                         Ella mi accora.
(Ma si adempia il trionfo e poi si mora). (Luceio si mette in mezzo a Scipione e a Sofonisba)
                                              A’ tuoi diletti
non si oppone, o signor, che il suo Luceio.
tutta m’empie di lui la sua memoria.
No, di’ la fiamma sua. Vive quel prence.
ma nell’anima mia ch’era suo spirto.
Caro, non ti scoprir. (Piano a Luceio)
                                       Vive in Cartago, (A Scipione)
anzi al tuo fianco; e tu lo vedi e il senti.
                            (O perigli!) Eccolo, o duce.
In questi occhi lo vedi, ancor ripieni
dell’imagine sua. Ne’ miei lo senti
mesti sospiri. Abbi di me pietade. (Piano a Luceio. Scipione si mette in atto pensoso)
Dover mi sforza. O corrispondi o parlo. (Piano a Sofonisba)
                                     Dunque morranno (Come da sé)
benché preghi Tersandro, è ancora ingiusta.
Che tardi più? Proconsolo di Roma... (Piano a Sofonisba, poi a Scipione)
Allor nel tuo voler, ben mi sovviene,
deposi il mio. Più non contendo e serbo
la data fede. Ei tua mi vuole, o duce;
Care voci, voi siete il mio conforto.
Sì, tua sarò. Se poi verrà quel giorno (Piano a Scipione, poi a Luceio)
che a te spiaccia, o Tersandro, il fatal nodo,
nodo che offende il tuo Luceio e il mio,
ed io, in onta di amor, volli così».
Quanto ti deggio! Ad affrettar men vado
                                            E tu, mio caro, allora
ne accrescerai con la tua vista il pregio.
e più certo e più grande il mio diletto.
Hai più strali, o fortuna? Hai più sciagure?...
                                           E il tuo bel volto
non è straniero alle mie luci, Elvira.
e ne morrei pria che tradir l’arcano.
                               Tu del germano
                           Ma questo cor, sì questo,
                                        E perché amante.
Seco è Tersandro. Attenderò ch’ei parta).
mi uscì l’arcano e ritrattar nol posso.
               (Che sento?)
                                         Ed all’amor pudico
l’alto tuo merto ed il fraterno assenso.
                            (L’odo? La soffro? E taccio?)
Né mercé te ne chieggo. Alla mia fede
la gloria dell’amarti è assai mercede.
(Più resister non posso). Odi la bella
                  Ti udì, ti udì quel Marzio, ingrata,
non dal tuo onor ma dal tuo basso affetto
Ti udì tradir del tuo natal la gloria.
Ti udì posporre a vil soldato e servo
l’alto imeneo di un cavalier romano.
E questo è il tuo, questo è l’onore ispano?
Marzio, vile non è ciò che è mio voto.
                                                                    Segui.
                                          Non hai difesa,
o indegna del tuo grado e del mio amore.
E questo acciar vendicherà le offese (Dando di mano alla spada)
Su, principi da te la mia vendetta; (Facendo lo stesso)
trovi di che arrossir quell’alma ria. (Accennando Elvira)
Non è facil trofeo la morte mia. (Si battono)
Contra un tribun l’ira si volge e il ferro?
virtù ammira, o Scipion. Costei, che altera
ributtò le mie fiamme, a quelle avvampa
il suo amatore, il mio rival. Lo neghi,
se il può, l’ingrata. Io qui l’udii, né l’ira
                           Tanta viltà in Elvira?
             (Tacer mi è forza. Amor tiranno!)
del sangue mio, della mia vita istessa.
ma quell’amor, che le riscalda il petto,
non è indegno di lei. Sa qual si asconde
nel mentito Tersandro illustre oggetto.
Sa qual ei nacque e sa ch’ei nacque al trono.
Marzio il sappia e Scipion. Luceio io sono.
                                  E se quel sei fra poco
(Egli l’onor mi salva e il cor mi svena).
dell’ispano valor, mentir sé stesso;
vorrai soffrire il tuo nimico e il nostro,
mille e mille del Lazio ombre guerriere,
vuolmi il mio zelo e la comun vendetta.
e si acclami colà: «Luceio mora». (Si parte furioso)
                                             In che mi accusi?
                                        Nome e fortuna
mentir nimico? Entrar nel roman campo?
Ma nulla oprai di che temere io possa,
                           Anche rival, ti apersi
                                                        (O caro!)
                                         Perché amar deggio
più di lei la mia gloria e il mio dovere.
(Somma virtù che fa arrossir la mia!)
non trarre il piè. Colà ben tosto udrai
Qualunque sia del tuo voler la legge, (A Scipione)
e me ne assolva l’amor tuo pudico, (Ad Elvira)
fedele amante e generoso amico. (A Scipione)
                                         No, principessa,
non ti è noto Scipion. Vedrà oggi il mondo
quale egli siasi. Io farò sì che resti
più rival nell’affetto e nella gloria. (Si parte)
                              Il tollerarne l’onte
                                Per la tua vita
                                        Almeno in essa
Se il perdo per virtù, ne mostro il prezzo.
dimandano il tuo capo. Al fier torrente
qual valor, qual consiglio argini oppone?
                                                  Quel di Scipione.
cara è pur Sofonisba, eccone il tempo.
per cui deggio esser tua. Tua sol mi fece
ma se il lasci perir, tua più non sono
e con lui perdi il donatore e il dono.
serva la mia amistà. Vanne, o Luceio.
Libero è il porto e là non serpe ancora
su’ legni amici il militar contagio.
pronto i flutti aprirà. Questa è tua guida. (Mostrandoli una delle sue guardie)
Va’. Sollecita il passo. Amami e vivi.
Benché amico a Scipion, son quel Luceio
non vil nimico. Il preservarmi, o duce,
nuovi allori e trofei cingan la chioma;
                               Virtù, che nuoce
Qui del campo è il poter, non del Senato.
                                                               Ovunque
non ripugni il dover, mi è sacro il nome.
Un mio prego non val. Vaglia un mio impero,
(Sento, o povero cor, che stai penando).
vengasi omai. (Scipio, resisti e vinci).
in due nomi è un sol cor; ma questo core
d’esser vinto dal tuo non può soffrire.
                           (O dover!)
                                                 (Torno a morire).
(pur mi giovi tentar). Luceio ingrato,
questo più non si chiegga a Sofonisba
degno trofeo. N’abbia la gloria Elvira.
Ella, che è rischio tuo, sia tua salvezza.
                                                 Purché tu viva,
vederti suo, pria che vederti estinto.
                                                  Segui, che hai vinto. (Piano a Sofonisba non osservato da Luceio)
per mio rossor? Pur ti ubbidisco. Andiamo.
Perdasi un bel morir. Scipio lo chiede.
La mia fede l’impone. Andiamo. Hai vinto. (Luceio la prende per mano e ponsi in atto di partire)
(E così tu morrai, povero core). (Luceio nel voler partire s’incammina da quella parte dove è Scipione e veduto si ferma in atto pensoso)
Ahi! Che fo? Dove vo? (Giudice è Scipio
                          Che più ti arresti?
                                                              (Mori (Fra sé tenendo sempre Sofonisba per mano)
ma non mancar, Luceio, al tuo dovere).
                                       (Torno a temere). (Luceio va a Scipione)
quasi mi fe’ tradir la mia amistade.
io la feci, io la lascio; e vado a morte.
No, non morrà, s’io pur sarò qual sono...
si unì Trebellio. Anche dal campo al porto
da per tutto ella freme, esce ed inonda.
Il suo capo per lui qui t’offre Elvira.
                                           A te, gran duce,
chiede Marzio inchinarsi; e insieme chiede,
suo messo è questi, e sicurezza e fede.
m’invio sull’orme. In tal destin più temo
che l’altrui sdegno il suo coraggio estremo. (Si parte)
in morendo per lui, di un sol tuo pianto.
ma rea di tue sciagure. Odiala. È giusto.
Altro non posso odiar che il mio destino.
ed ami in te quel cor ch’ama Luceio.
tutto fé, tutto ardor, tutto costanza,
diedi i cenni opportuni. Or Marzio venga.
Tolga il cielo, o signor, che tu condanni
rei di spirto fellon Marzio ed il campo.
zelo abbiamo ed ossequio; e se in Luceio
sino la nostra colpa ha la sua gloria.
rispetti la virtù, l’ami in Luceio;
Chi ha l’amor di Scipion, degno è del nostro.
premio dell’opra mia chieggo in Elvira.
forza non fia che il reo nimico invole;
Scipio trovar non può; Marzio nol vuole.
da impor leggi al proconsolo? Al tuo duce?
né la soffre Scipion. Pur questi ed altri
tuoi gravi eccessi or simular conviene.
N’hai la mia fé; ma verrà tempo; e ancora
quella fronte vedrò, tanto or superba,
di che indegno già sei, vita e perdono.
Ciò che intanto io risolva, udrai fra poco.
solo all’idea ne inorridisco e fremo.
Né che a pro di Luceio il mio non tenti.
sarà tratto Luceio. Avrà chi in parte
che in fier tumulto alla sua morte aspira,
deluso andrà; ma sia di Marzio Elvira.
                                   A questa legge?...
                                                                     A questa
sento fra’ mali anch’io l’alma perplessa,
si consigli virtù sol con sé stessa.
che mi detti il dover, divien mia colpa.
andrei spedito alla mia parca incontro.
Ma il tuo onor mi si chiede, il tuo, germana,
che pure è il mio. Non ho coraggio e parmi
più conformi al tuo ardir. Viva Luceio
Tornar non ti spaventa al giogo indegno?
Sarà libera l’alma anche fra ceppi.
Sai qual sia Marzio? Un vincitore amante.
Sai qual sia Elvira? Un’onestà costante.
                                       A risoluto core
può la vita mancar, non mai l’onore.
a costo di una colpa? Ah! La mia morte
presso Elvira mi assolva; e Marzio apprenda
l’altrui non men che l’onor suo difenda.
rischi non temo. Andrò con Marzio al campo.
                                           Andrò per torti all’ira
Tu invan resisti. Ha stabilito Elvira.
                                      Ah! Principessa...
                  Si ascolti Elvira. Il mio consenso
chiedesi e non l’altrui. Marzio promette
ma Elvira a lui sia resa. In questa legge
l’arbitrio è mio. Neghi Luceio o assenta,
Scipio a Marzio mi renda e son contenta.
                                      La sua difesa
sarà mio impegno e il tuo timor mi offende.
Per me ti arrischi e tu ne perdi il frutto.
            Non più gare. A te convien, Luceio,
Pria morirò che a tal viltade assenta.
Scipio a Marzio mi renda e son contenta.
(Ardir che m’innamora e mi spaventa).
Che si tarda, o signor? Spiegansi al vento
l’aquile del Tarpeo. Suonan le trombe.
Si minacciano assalti e lunghi indugi, (Luceio sta pensoso)
Marzio ricusa e vuol tornare al campo.
che tu mi dai. Marzio pria venga e il patto,
ch’esser dee tuo periglio e mia salvezza,
                               Vivrà il mio caro... o dio!
(Caro il posso chiamar ma non più mio).
                                       A me ti volgi,
                                          Questo è il mio voto.
                           Questo n’è il prezzo e il giuro.
                                         Torno a’ tuoi ceppi.
                                        (Soffrir conviene).
                                    (Non mi uccidete, o pene).
                                                       Ignoto
                                                Allor soggiaccia
ma sicuro è il tuo scampo e il mio diletto.
Addio, Scipio. Addio, Elvira. Addio, Cardenio.
Già vado ove mi chiama il mio destino.
con la degna tua sposa anche i miei giorni.
s’egli alla tua pietà, se alla tua fede
Scipio il permetta... Sofonisba... Addio.
Resta a me Sofonisba; e non son lieto?
In periglio è l’onor; né gli do aita?
                     O destino!
                                           O pena!
                                                            O vita!
Su, Romani, su, amici, all’armi, all’armi. (Esce Marzio dalla città, seguito da Luceio)
Ma che? Dalla città Marzio a noi riede;
se in Luceio amo estinto il suo rivale).
d’uopo il richiegga, i detti miei seconda.
Tue parti adempi; io seguirò i miei voti. (A Marzio. Luceio si ferma in lontano; e Marzio si avanza verso Trebellio)
diventa colpa. Un’amistà il fa reo;
Scipio lo vuol. Chiamasi offeso; e quando
pronto dover, verghe minaccia e morti.
Venga; e se tanto ardisce, a noi le porti.
torri e al suo fianco uccideremo il nostro
                           Io vi precorro. Andiamo.
Primo l’ire svegliai. Primo la spada
                                      Luceio cada.
di quel guerrier la vita. (Accenna Luceio)
                                             Egli è Tersandro.
che inonderan Cartago, io pur lo serbi.
di Marzio il difensor. Libero ei vada.
                                          Luceio cada.
ite a cercar Luceio? A che in Cartago?
E di Scipione a che cercarlo al fianco?
Mal vi guida il furor. Nel campo vostro
Marzio, Marzio lo trasse ed io vel mostro.
                                         O dei!
                                                       Volgete
movi le schiere e poi ne tenti, infido,
la salvezza e la fuga? Un tanto eccesso
non fia impunito. Arde a’ Romani in volto
                           Cerco morir da forte.
Perdesti Elvira e per tua legge istessa
la perdesti per sempre. Il mio periglio
toglie a me un gran rossore, a te un gran bene.
Romani, a’ colpi. Io son Luceio; e quando
spento nel sangue mio lo sdegno avrete,
quanto di grande unqua formar gli dei.
                             Or che s’indugia a darmi
                             Allor l’avrai che n’esca
dal labbro di Scipion l’alto comando.
serbinsi, o prodi. Ei sulla loro vita (Vanno uscendo della città Scipione e gli altri)
                                           Viva Scipione.
a voi, sì, per difesa, a sé per gloria.
                                                  Invitto eroe,
diede a’ pubblici applausi anima e spirto.
schernì i miei voti, palesò sé stesso,
sfidò la morte; e fe’ arrossir noi tutti.
Ecco Marzio al tuo piè, quel Marzio audace,
sa che ha perduto Elvira, onore e fede.
Elvira che perdesti è il tuo supplicio;
ed il rimorso tuo vinto ha il mio sdegno.
Sorgi; e del mio perdon renditi degno. (Marzio si leva)
Libera sei del tuo servaggio indegno. (Ad Elvira)
Non l’ho che in Sofonisba. Io te la rendo.
                         Tu ne hai la fé.
                                                      Tu il core.
                                     E tua l’amore.
                                                         Ei meco
                                     Scelgasi Elvira.
s’ella ha per me fiamma d’affetto in seno,
(Al grande assalto or t’apparecchia, o core).
             Da te dipende.
                                          A te s’aspetta.
(Per Luceio ella avvampa. Io spero invano).
contese con virtù, gloria con gloria.
l’Iberia applauda e l’imeneo si onori.
                                Amico, ho vinto.
Vedrò anche il mondo al tuo valor sommesso,
or che con tanto amor vinto hai te stesso.
                                         Ti abbraccio, o sposo.
                                          Il mio riposo.
ne’ titoli si onora; e a lor tu aggiugni
trasse quel nome, onde più chiaro ei suona.
per te giunga a mentir. Per Scipio il fece
tai cose oprasti che han di false aspetto,
fia per cui salga all’etra il tuo gran nome.
Scipio in Ennio il trovò. Questo sol vanto
manca al tuo onor, degno di Carlo il canto.

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