vinta è Cartago e di un sol giorno è il frutto
l’altra, del nostro impero emula antica,
Cartago il crederà. Seco ne trema
l’Africa, ond’ella è cinta; e il valor nostro,
già fra quanti ella chiude, è il suo gran mostro.
abbia il mondo a servir scritto è ne’ fati.
ne affretta il corso. In sì verdi anni oprasti
col zelo mio, col braccio vostro, il grande
genio di Roma. A lui dell’opra il merto,
sia la turba cattiva. Avvinti e domi
vegga Cartago i suoi, Roma li vegga,
quella in suo disonor, questa in suo fasto.
più in ostaggio che in odio. Il lor riscatto
sarà per voi, forti guerrieri, un nuovo
premio della fatica e del trionfo.
Grande hai la fama ed hai più grande il core.
(Ma fra le glorie il fe’ suo schiavo amore).
Invitto eccelso duce, a’ tuoi trionfi
che il ben usarli. Ispana son. Mi diede
pari al natal spiriti illustri il cielo.
non è l’affanno mio. Stretto anche il piede,
seguirò Scipio e soffrirollo in pace;
sacra onestà, la militar licenza
questa, è questa, o signor, mia pena e tema.
tu difensor. Se l’umil voto e giusto
dall’armi illeso e dal poter di Roma
anche a costo di sangue, il proprio onore.
(In sen di donna ha cor di eroe). Qual fia,
la beltà del suo sesso e tutta insieme
che in fertil suolo agl’Illergeti impera.
mio fu l’onor del suo servaggio. (Ah! Ch’io
restai sua preda e tu lo sai, cor mio).
bando al nobil timor. Roma ha per legge
di onorar la virtù, non di oltraggiarla.
anzi alla tua virtude. Essa tra noi
ospite sia, non schiava. Amisi in lei
e la rara beltade a noi soggetti
vegga, al par de’ nemici, anche gli affetti.
Ben degno sei della tua fama...
o, vicina a morir, lotta con l’onde.
Che?... Sofonisba?... O dio!... Come?...
dall’alta torre, onde sul mar si stende
libero il guardo, ella gittossi e il fece
che invan si accorse a rattenerla...
Già troppo intesi. Empio destin, trovasti
con che atterrirmi. Invan sei forte, o core;
né in te sento l’eroe, sento l’amante.
di sì illustre dolor sì strano caso.
Che giova inutil pianto? Ite, Romani;
cerchisi scampo. Ite. Pietoso il mare
del suo sepolcro. Ite veloci. (Ah! Scipio (Partono alquanti de’ soldati romani)
restar tu puoi? Colà ti chiama, o core,
il tuo amor, la tua pace, il tuo dolore).
Aman anche gli eroi. Scipio anche serve
Fiamma gentil, che a nobil cor si apprende.
(Tal per Luceio anche quest’alma avvampa).
si sdegnerà che Marzio n’arda e l’ami?
Arda egli pur; ma per Elvira ei formi
corregga il volo a’ suoi mal nati affetti.
gl’incendi miei. Non condannate un’opra
del poter vostro o la punite in voi.
E in me la punirò. Da Sofonisba
prenderò esempio e legge. In sì ria sorte
il men che mi spaventi è la mia morte.
Con ritrosa beltà non giovan preghi;
vendichi il vincitor. Mia voglio Elvira.
piace e lice il consiglio, amor lo inspira.
nel sordo mar quasi ti trasse a morte?
Quella del mio destin. Veggo in un giorno
la città presa, i miei disfatti, il padre
ferito e schiavo. I ceppi suoi compiango,
compiango i miei. Scipio mi vede e accresce
con l’amor suo le mie sciagure. Il grido
mi giunge alfin della tua morte. A questo
più non resisto. Odio la vita. A’ flutti
mi spingo in seno, o disperata o forte.
Mi opprime il mar. L’onda qua e là mi volve;
poi non so come in sulla spiaggia asciutta
riapro gli occhi e a te mi trovo accanto,
a te, mio ben, sì sospirato e pianto.
Non fur meno de’ tuoi strani i miei casi.
cedé il punico Marte e il Marte ibero,
ritraggo il piè. Giungo ove giace un nostro
soldato estinto e col favor dell’ombre
copro me del suo usbergo e lui del mio.
che morto io sia. Questa mi giova. Intanto
chieggo di te. T’odo prigion. Mi aggiro
presso Cartago. Entro quell’onde veggio
donna cader dall’alta torre. All’uopo
te in lei sottraggo, anzi me stesso, o cara,
nel sen di Sofonisba era la mia.
del rigor vostro, o dei, più non mi dolgo.
Né dolerci convien. Salda costanza
ch’io sono ibero e che ti tolsi all’onda.
sì odioso son io che men ti sembra
grave il morir? Con qual oltraggio un tanto
dolore io meritai nel tuo periglio?
se in me temi un nemico, hai cor che è ingiusto.
Se in me abborri un amante, hai cor che è ingrato.
di usbergo il sen, benché di allor la chioma,
senza oltraggiare o Sofonisba o Roma.
Signor, perdita lieve era a’ tuoi fasti
Volli morir; ma il mio destin ne incolpa;
io non conto, o Scipion, l’esser tua schiava.
mi ha ridotto il rigor di un’empia sorte,
sin la pietà di chi mi tolse a morte.
senza mercé né senza gloria. Vieni,
qualunque sii, fra queste braccia, amico.
sono gli eroi; né di quel sen gli amplessi,
ove palpita un cor tutto grandezza,
merta uom di sangue e più di fama oscuro.
All’opra mia premio non devi. Io tutto
trovo la gloria mia, la mia mercede.
Chi per te nulla oprò, nulla ti chiede.
non lo additano uom vil. Qual sia, ti è noto,
Nacqui fra’ boschi. Il mio
fu romper glebe e maneggiar vincastri.
cangio marra ed aratro; e di Luceio
sotto l’insegne a militar mi spinge
cader sul campo e trionfar del nostro
pena e viltà. Volgo a Cartago il piede
e cerco i tuoi, sol per morir da forte.
ma la salvo a Luceio. In quel bel core
e la parte più cara e la migliore.
Quel magnanimo ardir che sulle labbra
e quel nobile aspetto, in cui ti ammiro,
smentisce i tuoi natali o gli condanna.
Qualunque sii, t’apro il mio core. In prezzo
della vita servata a Sofonisba
la nimistà di Roma io ti perdono;
ti voglio amico e libertà ti dono.
(Salvo è Luceio e fortunata io sono).
son grandi, è ver; ma di Tersandro il core
Il perdono tu m’offri e non lo voglio.
e viltà mai non cape in petto ispano.
La libertà mi rendi e non l’apprezzo.
a chi oppresso è da mali, un mal di meno.
L’amistà mi offerisci e non l’accetto.
di volgar prezzo e di sì pochi instanti.
che di Luceio un suddito leale
esser non puote amico al suo rivale.
sin con l’offese). Orsù, Tersandro, vieni
meco in Cartago. In testimon ti voglio
dell’opre mie per meritarti amico.
Seguirò il mio destin, più che i tuoi passi.
(Così sarò di Sofonisba al fianco).
mi fia quel cor, benché nimico e rio;
la fierezza del tuo più mi spaventa,
mi dica: «Ama Scipione, io tel comando»
il mio cor cesserà d’esserti ingrato.
Nel suo volere il mio voler rimetto.
Tu mio giudice il rendi ed io l’accetto.
gran beltà Sofonisba. E quella e questa
mia speranza diviene e mio terrore.
Temo che quella ceda a un sì bel volto.
Temo che a questa piaccia un sì gran merto.
vorrei questo men grande e pur mi giova;
vorrei quello men vago e pur mi piace.
Ma che? Dove è virtù, lunge la tema,
forze accresce a virtude e non le scema.
la tenda è questa; e qui di Elvira attendi,
la real tua germana, il presto arrivo.
dovrò a te il gran piacer del rivederla.
generoso Cardenio, io più ti deggio.
il mio liberator. Dal re tuo padre
libertà m’impetrasti e ti son grato.
Riconoscenza in nobil alma ha sede.
il mio affetto ti giuro e la mia fede.
L’amata in quella e la germana ho in questa.
forza di onor. Seguo la legge e sento
che si chiede un gran colpo al braccio invitto.
che un atto di virtù sembri delitto.
Offese non minaccio. Amor richieggo.
amante impuro è l’offensor più rio.
piaccia lo sposo; e d’imeneo la face
in me purghi le fiamme, in te le accenda.
Io nata al trono, a vil tribuno io sposa?
patria mi sia, perché al mio sangue a fronte
scemin gli ostri reali anche di prezzo.
Tribuno in campo e cavaliere in Roma,
più di quel ch’io ne tragga, a te do fregio.
Ed un tal fregio, o cavalier tribuno,
più degna sposa. Elvira schiava, Elvira
nata in cielo stranier tanto non merta.
La scelta mia ti onora; e qui di Marzio
l’amor ti è gloria ed il voler ti è legge.
tal legge non pavento. Amante e sposo
e ti abborro del pari e ti rifiuto.
di mia bontà. Son vincitor. Sei mia.
Ho poter. Ho ragion. Posso, se voglio.
ti lascio in libertà. L’utile indugio
sia consiglio al voler, freno all’orgoglio.
Già dissi. Tu risolvi. E posso e voglio.
misera io son che temer posso un’ira?
Un’ira che m’insulta e non mi uccide?
l’alma dal sen? Dov’è un acciar? Chi, o dio,
all’empia brama, al barbaro comando?
Di Elvira il core e di Cardenio il brando.
di tua virtude; e qui ti reco, o cara,
un rio soccorso, una pietà crudele.
e l’onorata spada in sen m’immergi.
l’ire feroci. Il vecchio padre abbracci
grata la morte e la memoria mia.
prima non tinsi entro il rio sangue il ferro?
non ti togliea. Nell’ostil campo ancora
potea far nuovi amanti il tuo bel viso;
né tutto era il tuo scampo un Marzio ucciso.
Sol mio scampo è il morir. Destra fraterna
caro mel rende e in te ne bacio il ferro
che dee la strada al cor pudico aprirsi,
ove del mio Luceio impresso è il nome.
colpa innocente, un amor casto e degno;
amor che verrà meco anco agli Elisi.
Or che più tardi? Accresce ogni dimora
il rischio mio, perché è tuo rischio ancora.
core alla mia. Quella mi regga e quella
Morir per l’onestà non è sciagura.
(Barbaro onor!) Già ti compiaccio e il nudo
dell’ire mie. Mori, lascivo.
tu pagherai, da questo acciar trafitto,
della tua crudeltà, del tuo delitto. (Si battono)
Olà. Marzio, qual’ire? Onde quell’armi?
Da un cieco altrui furor. Costui di Elvira
feci col mio dell’innocente al seno;
volse l’acciar contra il mio petto istesso.
E te chi spinse a così enorme eccesso?
Forza di onor. Tu che sei giusto, o duce,
e assolva i falli miei l’altrui misfatto.
Cardenio son. Mi è suora Elvira. Oltraggi
medita Marzio all’onestà di lei.
(Il mio rivale è questi).
(Quegli è il mio ben. Come di Scipio al fianco?)
vo’ sottrarla col ferro. Egli mi arresta.
Tento punirlo. Non uccisi Elvira.
Marzio ancor vive; e la mia colpa è questa.
e la salva onestà n’era il gran prezzo.
Marzio, che m’insultò, Scipio anche offese;
reo dell’altrui perfidia anch’ei si rende.
Così rispetti un mio comando?
restò mia schiava e sovra lei mi danno
l’armi e le leggi autorità che è giusta.
Ma non sovra il suo onor. Tu ne perdesti,
con abusarne, ogni ragion. Trebellio.
sia la prima tua pena, o cor lascivo.
(Pena crudele! Io perdo Elvira e vivo).
(Sempre maggior scorgo il rivale).
de’ miei sudori a pro di Roma è il frutto?
Questa del sangue sparso è la mercede?
l’aquila innalzo e le difese espugno.
E di tanti trofei la sola spoglia
anzi al tuo amor. Ma del riscatto il prezzo
Scipio, in quest’alma un mercenario affetto.
A torto tu mi offendi. A torto illeso
di più colpe trionfa. Egli nemico
entrò nel campo. Ei di un roman tribuno
portò furtivo entro la tenda il passo.
Ei m’insultò col ferro; e pur si soffre.
Duce, del torto mio ragion non chieggo,
del pubblico la chieggo; e se impunito
tel giuro, i miei guerrieri e i tuoi pur anco
sapran punirlo anche di Scipio al fianco. (Si parte co’ suoi)
tolsi l’oggetto e l’onor tuo difesi.
che del tuo ardir prenda la pena anch’io.
Cedi l’acciar, nemico a Roma e mio.
Aggiungi, e tuo rival. L’odio in te cresca
con la ragion di quella fiamma ond’ardi.
entro Cartago il prigionier.
col tuo voler di me decreti il fato,
rammenterò che hai l’onor mio difeso
e morrò col rossor d’esserti ingrato.
n’è interprete più fido. Onde il tuo duolo?
Da te, Scipio, da te. Spandesi in tutti
la tua beneficenza. In me de’ mali
In che? Ne’ ceppi altrui.
Or tu mi offendi in lui. Le sue catene
che in te insieme non miri il mio tiranno.
Suo giudice or son io. Deggio punirlo,
perché l’odi rival. Sol nel tuo core
lo fa reo Sofonisba ed il tuo amore.
Ami sua libertade? (Esce Sofonisba)
qual vuoi, più dura legge. Eccomi pronto.
Giungi opportuna, o principessa.
di Scipio l’ira e di Tersandro il voto.
tosto rechisi a me gemmato acciaro.
Per un rival troppo ti esponi, o caro. (Piano a Luceio)
peso guerrier, pria tu mi cedi.
lieto succedo. Eccoti il ferro e sappi
Giurati amico mio. La legge è questa.
di un mio rival, per liberarne un altro).
Più che non pensi. (Vien presentata a Scipione una spada gioiellata)
Ma lo vuole il destin. Giuro...
brando lo giura, indi il gradisci in dono.
Giura Tersandro; ed or tuo amico io sono.
E sia pegno di fé l’illustre acciaro
che in tuo servigio al guerrier fianco appendo.
onde Cardenio a libertà sia reso.
venga ancor Sofonisba. Amor vien meco.
Ah Luceio! Ah mio ben! Come unir puoi
l’amistà di Scipione a te rivale,
l’amor di Sofonisba a te diletta?
la gloria e il merto alla virtù si aspetta.
e misura il mio amor dal mio gran core.
perder anche mi può senza dolore.
non minaccia per poco; e a Roma ignoto
E di Tersandro il voto. (Scipione sopragiunge)
M’hai vinto, o duce, e con l’onor difeso
e co’ lacci disciolti. Altro non posso
che un grato ossequio, un’amistà sincera.
perché men perigliosa e meno incerta.
l’odio non muor, se ben la forza è doma;
e se vinco così, più vinco a Roma.
Attendi. Al campo, o fido, (Prima a Cardenio e poi a Trebellio)
va’ tosto. I tuoi raccogli e Marzio osserva.
L’alma conosco torbida e proterva.
eccoti in libertà. Serbai la fede
e due cori acquistai con un sol dono.
E se libero egli è, tuo amico io sono.
sol tua virtude a mio favor ti mosse.
Io per te nulla oprai; né di quel volto
vestigio alcun tengo nell’alma impresso.
A te anche ignoto era Luceio istesso.
mi trasse, o duce, oltra il dover nell’ira.
È ver. Perdona. Avea perduto Elvira.
tolse molto al tuo error, molto al mio sdegno.
Or discolpa maggior n’è il tuo rimorso.
Cardenio mi oltraggiò. Più non n’esigo
e un fratello di Elvira ancor mi è caro.
In Marzio or sì ravviso un cor romano.
Ma non Marzio in Scipion. Benché sì chiara
la fama tua, sta d’atre nebbie involta.
Sofonisba è il tuo amore, Elvira il mio.
Questa è mia spoglia; e tuo possesso è quella.
pari le leggi. E pur mi è tolta Elvira,
perché con l’amor mio la disonoro.
Ma in tuo poter, benché tu n’arda amante,
So che puro è il tuo foco e che non entra
in petto di Scipion vile disio.
l’ignaro vulgo, i più sublimi avvezzo
nobili affetti a misurar dai suoi.
Se giusto sei, se l’onor tuo ti è caro,
con cui giudichi gli altri, anche te stesso.
priva il tuo amore o ancor l’altrui consola.
O con tua pena o a mio favor risolvi.
O rendi Elvira o Sofonisba assolvi.
(Di te si tratta, o core).
Pianga, se il mio non gode, anche il suo amore.
folgorar de’ tuoi lumi arse quest’alma.
qual per onda gran fiamma, il mio bel foco;
e amai la tua virtù sin con mia pena.
oppon livida nube ombre funeste.
e pera il mio piacer. Già da quest’ora
libera ti dichiaro; e poiché sorte
invida ti rapì (soffri, alma mia)
(Generoso ei sarà ma sventurato).
un oprar con virtù? Biasmi od applaudi?
O dio! Che fo? Lodo o condanno? Il primo
fa torto a Sofonisba e l’altro al giusto.
Benefico un tuo prence e stai sospeso?
Signor, ti loda assai stupor che tace.
(Nascesti, o cor, per non aver mai pace).
E tu, bella, che pensi? Assenti o neghi?
(Che dir dovrò? Manco alla fé se assento,
Perde in Scipion con pena un che l’adora.
Scipio, sarò di chi m’impon la sorte.
(Ma sarò di Luceio o pur di morte).
tu senza Sofonisba, io senza Elvira.
Quai grazie a te poss’io?
tutte a Tersandro. Addio. (Se qui mi arresto
vacilla la costanza e vince amore). (Si parte)
Bella, alla mia felicità non manca
che io vegga ne’ tuoi lumi un raggio amico.
Mirali; e in lor vedrai sol pianto e lutto.
Il tuo estinto Luceio ancor t’ingombra
E l’amerò dopo la tomba ancora.
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
E tu, caro Tersandro, a che sì mesto?
Tu sei solo mio duol, tu mia sventura.
che Sofonisba a me sia cruda e ria.
lieto nell’amor suo, sveglia in quel core
per me qualche pietà. Fa’ che più lieta
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
Fatta è la tua virtù comun sciagura.
Sciagura esser non può s’è da virtude.
Cardenio a’ ceppi suoi, ne fa infelici.
Ricusargli un soccorso era fierezza.
e del mio ben oprar, cara, or ne sento
Questo solo pensier basta a svenarmi.
abbia fisso il destin che tu non possa
pianger, penar, morir ma sempre amarti.
crudelissime leggi! Aspri doveri!
Ne’ funesti sponsali uno perisce,
l’altro è in periglio. Il mio consenso è un torto
della mia fede; e il mio rifiuto espone
la mia fama al rossor ch’ami Scipione.
Caro Luceio, irresoluta l’alma
corre, dovunque pieghi, al suo naufragio.
mi ottenne libertà. Per lui mi è dato
posseder Sofonisba. Ella è mia sposa.
ond’è che impallidisci e ne sospiri?
Più di quel che ne pensi alto è l’arcano.
Segui e m’apri il tuo cor.
germe sublime, in bassi affetti?...
i non giusti rimproveri. Non amo
Tersandro in esso. Amo in Tersandro altrui.
Dirollo infine; amo Luceio in lui.
de’ Celtiberi prence, è desso, è desso.
Morto non è? Son di stupore oppresso.
Vive l’invitto. Io ben più volte il vidi;
Vanne e per me tutto confida e spera.
Speme che è mio conforto, o falsa o vera.
trovo il rival. Quanto opportuno ei giunge!
(Ma se oprai con virtù, di che mi dolgo?)
se da cupi pensieri io ti distolgo.
non è il fregio minor l’esser sincero.
Piacemi. Or di’. Nell’ultimo conflitto
ei spira in libertade aure di vita.
che in sen per Sofonisba amor gli accese.
Non può spegnerla in lui tempo, né morte.
(Ora, cor mio, sii generoso e forte).
Ah principe! Ah Luceio! Il grado e il nome
ben puoi mentir, l’alto valor non mai,
che dall’opre, dal labbro e dal sembiante,
quasi raggio per vetro, in te traluce.
Tu sei Luceio, il grande eroe...
non si conti il mio amor, né l’odio mio.
tua nobiltà, me di catene hai tolto,
de’ miei voti il più caro, anzi de’ tuoi;
e a prezzo del tuo duol me fa beato.
così belle speranze al mio dovere.
Sofonisba ricuso. Amarla io posso,
più non posso accettarla. Ella è tuo merto;
in onta ancor d’ogni speranza mia.
che tormi non poté fortuna avversa,
era la mia virtù. Tu col gran dono
mel vuoi rapir. Vil, se l’accetto, io sono.
libero corro ove mi chiama il mio.
(Sin nell’altrui virtude odio il mio bene).
nota d’alma plebea, me non ingombri.
Darmi ti piacque Sofonisba in sposa.
Grande è il tuo don. L’amo e l’amai; ma il tolgo
al più tenero amante, ad un cui deggio
quanto posso dover. Soffri la forza
del mio rifiuto; e Scipio non si offenda
che per mia gloria un suo favor gli renda.
Che invitto core! In Sofonisba ei vede
per piacer d’esser grato, a me la cede.
Cardenio, onoro il nobil atto e l’amo;
Offrir tu il puoi, ma tutta
è mia la libertà del ricusarlo.
Anche un rifiuto è offesa.
ama più l’onor mio che il tuo piacere.
tu giudice ne sii. Che oprar dobbiamo?
Risponderò qual deggio (e non qual bramo).
L’onesto oprar libero è sempre; e fora
Da generoso opra Cardenio e il move
Tu vietarlo non puoi, perch’egli è grato;
tu sdegnarti non puoi, perch’egli è giusto.
Saria tua colpa amar ch’ei fosse ingrato.
Saria tuo scorno impor ch’ei fosse ingiusto.
Resto convinto; e il tuo rifiuto accetto.
(Ho vinto, sì; ma il cor mi langue in petto).
La mia gloria e il mio core ecco in periglio.
Sovvienmi, amico, e tua amistà mi vaglia
ne troverai la ricordanza e l’opra.
viver non posso. Il ritenerla è colpa.
Solo un nodo pudico essermi puote
sacra amistà, tu, che l’hai tolta all’onde
e che caro le sei, perché ti è grata,
l’onta e il rossor di un suo disprezzo.
Sì, confido al tuo zel l’alta mia sorte
e mi reca, se m’ami, o vita o morte.
(Anche questo, o destin?)
O fede! O gratitudine! O amistade!
del misero amor mio tutte vi uniste?
doveasi armar contra il mio core istesso
e farsi suo carnefice e tiranno.
possessor del mio ben? Per me fia tratto,
quasi vittima all’ara, il mio bel nume?
E potrò farlo? E lo promisi? E vivo?
E del povero cor non ho pietade?
O fede! O gratitudine! O amistade!
Scipio sia generoso. Io sono amante.
La mia Elvira qui spesso il piè rivolge.
La rapirò, la trarrò al campo; ed ivi
meglio custodirò ciò che è mio acquisto.
Me l’ottenne il valor. Roma il concede;
né può tormi Scipion la mia mercede.
Sì, godi, o cor; sì, respirate, affetti.
ve ne accertò, l’infausto laccio infranse.
decreta il cielo; e a noi soffrir conviene,
io tuo non posso, esser non puoi tu mia.
Eh! Più Cardenio il tuo dolor non sia.
Non dir così, quando sciagure apporto.
Vuol così ’l ciel. Così il dover l’impone.
Esser dei... Lo dirò?... Sì... Di Scipione.
Di lui che t’ama, o cara,
di lui che ti sospira e che n’è degno.
È questo il tuo destin. Questo è il mio impegno.
Crudel! Tuo impegno ancora?
è un dir che non mi amasti e che non m’ami.
È un creder ch’io non t’ami o t’ami poco.
l’ultimo testimon. Sii di Scipione.
che mi nega un piacer, più mi tormenti.
Tormento la virtù ma piaccio al core.
(Tirannico dover, dove mi guidi?)
Senti. Sii di Scipione o qual io sono,
suo rival, suo nimico a lui mi svelo.
O di te stesso e più di me tiranno,
fermati e mi concedi un sol momento,
sceglier possa il mio cor la men crudele.
la tua vita o il mio amor. Deh! Per pietade,
snuda l’acciaro e in questo sen l’immergi.
In questo sen, dove si chiude un core,
pegno immortal del mio pudico amore.
Ecco Scipion. Luceio è risoluto.
Sofonisba risolva. O cedi o parlo.
di me qual brami. In tai martiri immensi
ciò ch’io voglia non so né so ch’io pensi.
sta in pena l’amor mio. Tu ne decidi
(O dio!) Leggi, o signor, su quel bel volto
la tua felicità. Tua è Sofonisba.
dillo tu stesso ancor, labbro amoroso;
chiamalo tuo signor, dillo tuo sposo.
E sarà ver che alfine (Accostandosi a Sofonisba)
Scipio a Luceio in quel bel cor succeda?
Non mel tacer. Non mi celar quegli occhi. (Sofonisba rivolge gli occhi ad altra parte, piangendo)
quanto puossi goder ne’ miei trabocchi.
Scipion... (Più dir non posso). (Sofonisba si volge a Scipione e poi fa lo stesso che prima)
(Ma si adempia il trionfo e poi si mora). (Luceio si mette in mezzo a Scipione e a Sofonisba)
non si oppone, o signor, che il suo Luceio.
tutta m’empie di lui la sua memoria.
No, di’ la fiamma sua. Vive quel prence.
ma nell’anima mia ch’era suo spirto.
Caro, non ti scoprir. (Piano a Luceio)
Vive in Cartago, (A Scipione)
anzi al tuo fianco; e tu lo vedi e il senti.
(O perigli!) Eccolo, o duce.
In questi occhi lo vedi, ancor ripieni
dell’imagine sua. Ne’ miei lo senti
mesti sospiri. Abbi di me pietade. (Piano a Luceio. Scipione si mette in atto pensoso)
Dover mi sforza. O corrispondi o parlo. (Piano a Sofonisba)
Dunque morranno (Come da sé)
così le mie speranze? E Sofonisba,
benché preghi Tersandro, è ancora ingiusta.
Che tardi più? Proconsolo di Roma... (Piano a Sofonisba, poi a Scipione)
Allor nel tuo voler, ben mi sovviene,
deposi il mio. Più non contendo e serbo
la data fede. Ei tua mi vuole, o duce;
Care voci, voi siete il mio conforto.
Sì, tua sarò. Se poi verrà quel giorno (Piano a Scipione, poi a Luceio)
che a te spiaccia, o Tersandro, il fatal nodo,
nodo che offende il tuo Luceio e il mio,
ed io, in onta di amor, volli così».
Quanto ti deggio! Ad affrettar men vado
ne accrescerai con la tua vista il pregio.
e più certo e più grande il mio diletto.
Hai più strali, o fortuna? Hai più sciagure?...
che tu noto a me sia. Di Sofonisba
spesso al fianco ti vidi.
non è straniero alle mie luci, Elvira.
e ne morrei pria che tradir l’arcano.
sciogliesti le catene e ti son grata.
Ma questo cor, sì questo,
Seco è Tersandro. Attenderò ch’ei parta).
mi uscì l’arcano e ritrattar nol posso.
l’alto tuo merto ed il fraterno assenso.
(L’odo? La soffro? E taccio?)
Né mercé te ne chieggo. Alla mia fede
la gloria dell’amarti è assai mercede.
(Più resister non posso). Odi la bella
inimica d’amor come favella!
Ti udì, ti udì quel Marzio, ingrata,
non dal tuo onor ma dal tuo basso affetto
Ti udì tradir del tuo natal la gloria.
Ti udì posporre a vil soldato e servo
l’alto imeneo di un cavalier romano.
E questo è il tuo, questo è l’onore ispano?
Marzio, vile non è ciò che è mio voto.
In quel Tersandro... (Ove trascorro?)
o indegna del tuo grado e del mio amore.
Marzio, tu indegno sei, tu mentitore.
E questo acciar vendicherà le offese (Dando di mano alla spada)
Su, principi da te la mia vendetta; (Facendo lo stesso)
trovi di che arrossir quell’alma ria. (Accennando Elvira)
Non è facil trofeo la morte mia. (Si battono)
Contra un tribun l’ira si volge e il ferro?
né mi credea la prima volta in petto
il decoro di Elvira, offeso a torto.
virtù ammira, o Scipion. Costei, che altera
ributtò le mie fiamme, a quelle avvampa
che le accese nel sen face plebea.
il suo amatore, il mio rival. Lo neghi,
se il può, l’ingrata. Io qui l’udii, né l’ira
(Tacer mi è forza. Amor tiranno!)
Io parlerò. Viva la fama, o duce,
di vergine real. Viva anche a costo
del sangue mio, della mia vita istessa.
ma quell’amor, che le riscalda il petto,
non è indegno di lei. Sa qual si asconde
nel mentito Tersandro illustre oggetto.
Sa qual ei nacque e sa ch’ei nacque al trono.
Marzio il sappia e Scipion. Luceio io sono.
(Egli l’onor mi salva e il cor mi svena).
dell’ispano valor, mentir sé stesso;
vorrai soffrire il tuo nimico e il nostro,
Roma nol soffrirà. Vanno anco inulte
mille e mille del Lazio ombre guerriere,
vuolmi il mio zelo e la comun vendetta.
e si acclami colà: «Luceio mora». (Si parte furioso)
mentir nimico? Entrar nel roman campo?
Ma nulla oprai di che temere io possa,
strada a quel core e tuo lo feci.
più di lei la mia gloria e il mio dovere.
(Somma virtù che fa arrossir la mia!)
non trarre il piè. Colà ben tosto udrai
Qualunque sia del tuo voler la legge, (A Scipione)
e me ne assolva l’amor tuo pudico, (Ad Elvira)
fedele amante e generoso amico. (A Scipione)
A difesa del misero Luceio
qui ti parli, o signor...
non ti è noto Scipion. Vedrà oggi il mondo
quale egli siasi. Io farò sì che resti
del fatale amor mio chiara memoria;
più rival nell’affetto e nella gloria. (Si parte)
Non dovevi, o Luceio, a pro di Elvira
il mio sacrificai dolce riposo.
dovevi amar di Sofonisba un dono.
Se il perdo per virtù, ne mostro il prezzo.
Ah! Che quasi vorrei nel mio dolore
che fosse in te men generoso il core.
Dal feroce tribun mosse le schiere
dimandano il tuo capo. Al fier torrente
qual valor, qual consiglio argini oppone?
Qual fa scudo al tuo sen?...
cara è pur Sofonisba, eccone il tempo.
per cui deggio esser tua. Tua sol mi fece
ma se il lasci perir, tua più non sono
e con lui perdi il donatore e il dono.
Alla bella pietà di Sofonisba
serva la mia amistà. Vanne, o Luceio.
Libero è il porto e là non serpe ancora
su’ legni amici il militar contagio.
pronto i flutti aprirà. Questa è tua guida. (Mostrandoli una delle sue guardie)
Va’. Sollecita il passo. Amami e vivi.
Benché amico a Scipion, son quel Luceio
non vil nimico. Il preservarmi, o duce,
nuovi allori e trofei cingan la chioma;
amico a me ma cittadino a Roma.
al pubblico interesse, è fellonia.
Diemmi il Senato autorità sovrana.
Qui del campo è il poter, non del Senato.
Deh! Fuggi. Amico, io te ne prego.
non ripugni il dover, mi è sacro il nome.
Un mio prego non val. Vaglia un mio impero,
Del romano proconsolo Scipione
(Sento, o povero cor, che stai penando).
vengasi omai. (Scipio, resisti e vinci).
ti cedé Sofonisba. Ella è suo dono.
in due nomi è un sol cor; ma questo core
d’esser vinto dal tuo non può soffrire.
(pur mi giovi tentar). Luceio ingrato,
questo più non si chiegga a Sofonisba
degno trofeo. N’abbia la gloria Elvira.
Ella, che è rischio tuo, sia tua salvezza.
(Qual novo assalto al cor?)
teco ella sia; teco sul legno ascenda
e le speranze mie teco ella goda.
vederti suo, pria che vederti estinto.
Deh! Non mi affligger più.
Segui, che hai vinto. (Piano a Sofonisba non osservato da Luceio)
Qual fosca nube a te parer fa impura
per mio rossor? Pur ti ubbidisco. Andiamo.
Perdasi un bel morir. Scipio lo chiede.
La mia fede l’impone. Andiamo. Hai vinto. (Luceio la prende per mano e ponsi in atto di partire)
(Tu trionfi così, mio fido amore).
(E così tu morrai, povero core). (Luceio nel voler partire s’incammina da quella parte dove è Scipione e veduto si ferma in atto pensoso)
Ahi! Che fo? Dove vo? (Giudice è Scipio
(Mori (Fra sé tenendo sempre Sofonisba per mano)
ma non mancar, Luceio, al tuo dovere).
(Torno a temere). (Luceio va a Scipione)
questa mia debolezza. Un troppo amore
quasi mi fe’ tradir la mia amistade.
Eccoti Sofonisba. A te consorte
io la feci, io la lascio; e vado a morte.
No, non morrà, s’io pur sarò qual sono...
si unì Trebellio. Anche dal campo al porto
sparsa è l’ira feroce; e sitibonda
da per tutto ella freme, esce ed inonda.
Il suo capo per lui qui t’offre Elvira.
chiede Marzio inchinarsi; e insieme chiede,
suo messo è questi, e sicurezza e fede.
m’invio sull’orme. In tal destin più temo
che l’altrui sdegno il suo coraggio estremo. (Si parte)
non ozioso spettator, lo seguo.
preservarti Luceio e avere il vanto,
in morendo per lui, di un sol tuo pianto.
rival non ti dirò, perché infelice,
ma rea di tue sciagure. Odiala. È giusto.
Altro non posso odiar che il mio destino.
ed ami in te quel cor ch’ama Luceio.
Chi vide mai più generoso core,
dove rivalità genera amore?
Siegui ad amar Luceio, anima mia,
tutto fé, tutto ardor, tutto costanza,
senza speranza e senza gelosia.
diedi i cenni opportuni. Or Marzio venga.
Tolga il cielo, o signor, che tu condanni
rei di spirto fellon Marzio ed il campo.
zelo abbiamo ed ossequio; e se in Luceio
un nimico si cerca e questa è colpa,
sino la nostra colpa ha la sua gloria.
rispetti la virtù, l’ami in Luceio;
esser potria per noi fatal, difendi.
Chi ha l’amor di Scipion, degno è del nostro.
Io lo trarrò fuor delle tende illeso
scorta ne avrà da me sicura e fida.
premio dell’opra mia chieggo in Elvira.
Rendimi questa e salverò Luceio.
Ma senza Elvira, al militar tumulto
forza non fia che il reo nimico invole;
Scipio trovar non può; Marzio nol vuole.
e donde avesti autorità cotanta
da impor leggi al proconsolo? Al tuo duce?
né la soffre Scipion. Pur questi ed altri
tuoi gravi eccessi or simular conviene.
N’hai la mia fé; ma verrà tempo; e ancora
quella fronte vedrò, tanto or superba,
ed implorar da mia clemenza in dono,
di che indegno già sei, vita e perdono.
Ciò che intanto io risolva, udrai fra poco.
solo all’idea ne inorridisco e fremo.
al mio intrepido cor rechi spaventi.
Né che a pro di Luceio il mio non tenti.
sarà tratto Luceio. Avrà chi in parte
che in fier tumulto alla sua morte aspira,
deluso andrà; ma sia di Marzio Elvira.
vivrà Luceio. Risolvete; e mentre
sento fra’ mali anch’io l’alma perplessa,
si consigli virtù sol con sé stessa.
che mi detti il dover, divien mia colpa.
andrei spedito alla mia parca incontro.
Ma il tuo onor mi si chiede, il tuo, germana,
che pure è il mio. Non ho coraggio e parmi
che sia quasi ragion la sconoscenza.
più conformi al tuo ardir. Viva Luceio
e al tribuno in poter ritorni Elvira.
Tornar non ti spaventa al giogo indegno?
Sarà libera l’alma anche fra ceppi.
Sai qual sia Marzio? Un vincitore amante.
Sai qual sia Elvira? Un’onestà costante.
può la vita mancar, non mai l’onore.
E mi stima sì vil l’empio tribuno
a costo di una colpa? Ah! La mia morte
presso Elvira mi assolva; e Marzio apprenda
l’altrui non men che l’onor suo difenda.
i miei voti esaudì. Per l’onor mio
rischi non temo. Andrò con Marzio al campo.
Tu invan resisti. Ha stabilito Elvira.
e della mia sia giudice Scipione.
Si ascolti Elvira. Il mio consenso
chiedesi e non l’altrui. Marzio promette
ma Elvira a lui sia resa. In questa legge
l’arbitrio è mio. Neghi Luceio o assenta,
Scipio a Marzio mi renda e son contenta.
che decreti Scipion, s’oda Luceio.
sarà mio impegno e il tuo timor mi offende.
Per me ti arrischi e tu ne perdi il frutto.
Nol perderò, se tu ne resti illeso.
Vita invano si reca a chi vuol morte.
Disperato furor non è mai forte.
Non più gare. A te convien, Luceio,
Pria morirò che a tal viltade assenta.
Scipio a Marzio mi renda e son contenta.
(Ardir che m’innamora e mi spaventa).
Che si tarda, o signor? Spiegansi al vento
l’aquile del Tarpeo. Suonan le trombe.
Si minacciano assalti e lunghi indugi, (Luceio sta pensoso)
Marzio ricusa e vuol tornare al campo.
Torni ma con Elvira. Addio, Luceio.
che tu mi dai. Marzio pria venga e il patto,
ch’esser dee tuo periglio e mia salvezza,
Vivrà il mio caro... o dio!
(Caro il posso chiamar ma non più mio).
E me fuor di Cartago e fuor del campo
Questo n’è il prezzo e il giuro.
(Non mi uccidete, o pene).
mi fa perir fra le tue schiere?
No. Tua pena allor sia perder Elvira,
ma sicuro è il tuo scampo e il mio diletto.
Addio, Scipio. Addio, Elvira. Addio, Cardenio.
Già vado ove mi chiama il mio destino.
con la degna tua sposa anche i miei giorni.
s’egli alla tua pietà, se alla tua fede
sol per colpa di amor non rese amore.
dipartita funesta... all’amor mio
Scipio il permetta... Sofonisba... Addio.
Parte Luceio; e Sofonisba è viva?
Resta a me Sofonisba; e non son lieto?
Ottenni la vittoria; e ancor pavento?
In periglio è l’onor; né gli do aita?
ancor si nega di Luceio il capo?
Su, Romani, su, amici, all’armi, all’armi. (Esce Marzio dalla città, seguito da Luceio)
Ma che? Dalla città Marzio a noi riede;
e forse di Luceio a noi reciso
se in Luceio amo estinto il suo rivale).
d’uopo il richiegga, i detti miei seconda.
Tue parti adempi; io seguirò i miei voti. (A Marzio. Luceio si ferma in lontano; e Marzio si avanza verso Trebellio)
diventa colpa. Un’amistà il fa reo;
arma in danno comun l’ire civili.
Scipio lo vuol. Chiamasi offeso; e quando
pronto dover, verghe minaccia e morti.
Venga; e se tanto ardisce, a noi le porti.
Ma lo prevenirem. Sin dentro a quelle
torri e al suo fianco uccideremo il nostro
Primo l’ire svegliai. Primo la spada
merita il zelo mio, mi si conceda
di quel guerrier la vita. (Accenna Luceio)
Gratitudine vuol che dalle stragi,
che inonderan Cartago, io pur lo serbi.
di Marzio il difensor. Libero ei vada.
ite a cercar Luceio? A che in Cartago?
E di Scipione a che cercarlo al fianco?
Mal vi guida il furor. Nel campo vostro
Marzio, Marzio lo trasse ed io vel mostro.
né forse invendicato, il mio morire.
tu traditor? Tu di Luceio a’ danni
movi le schiere e poi ne tenti, infido,
la salvezza e la fuga? Un tanto eccesso
non fia impunito. Arde a’ Romani in volto
una giusta vendetta; e non li frena,
di render più crudele a te la pena.
anima troppo audace, e che presumi?
libero favellar. Marzio, deluse
Perdesti Elvira e per tua legge istessa
la perdesti per sempre. Il mio periglio
toglie a me un gran rossore, a te un gran bene.
e tu vivrai ma infame e sfortunato.
Romani, a’ colpi. Io son Luceio; e quando
spento nel sangue mio lo sdegno avrete,
quanto di grande unqua formar gli dei.
dal labbro di Scipion l’alto comando.
serbinsi, o prodi. Ei sulla loro vita (Vanno uscendo della città Scipione e gli altri)
a voi, sì, per difesa, a sé per gloria.
(Ma qui Marzio e Luceio?)
sol la virtù del valoroso ibero
diede a’ pubblici applausi anima e spirto.
Dal suo intrepido core egli sospinto
schernì i miei voti, palesò sé stesso,
sfidò la morte; e fe’ arrossir noi tutti.
Ecco Marzio al tuo piè, quel Marzio audace,
che in loco di perdon pena ti chiede;
sa che ha perduto Elvira, onore e fede.
Elvira che perdesti è il tuo supplicio;
ed il rimorso tuo vinto ha il mio sdegno.
Sorgi; e del mio perdon renditi degno. (Marzio si leva)
Libera sei del tuo servaggio indegno. (Ad Elvira)
rendere a merti tuoi premio bastante?
Non l’ho che in Sofonisba. Io te la rendo.
Perdona. Sofonisba è già tua sposa.
nostro giudice omai sia Sofonisba.
Ella saria giudice insieme e parte.
Egli è roman. Cardenio eleggo.
s’ella ha per me fiamma d’affetto in seno,
alla rival non cederà il suo amore).
(Al grande assalto or t’apparecchia, o core).
(Per Luceio ella avvampa. Io spero invano).
Tra Luceio e Scipion virtù sinora
contese con virtù, gloria con gloria.
sì eroiche gare amor tra voi decida.
Egli, che unì con immortal catena
di Sofonisba e di Luceio i cori,
l’Iberia applauda e l’imeneo si onori.
Vedrò anche il mondo al tuo valor sommesso,
or che con tanto amor vinto hai te stesso.
Al maggiore Scipione applauso e pregio
e a te, massimo Carlo, il dà la nostra
e il darà la ventura. Egli di forte
ne’ titoli si onora; e a lor tu aggiugni
quei di pio, di felice e quanti mai
n’ebbe in guerra od in pace alma reale.
trasse quel nome, onde più chiaro ei suona.
E per tante da te genti già dome
tu l’odrisio, il pannonico tu sei,
annoverar di tua grandezza i fasti
che confondon col numero e col vero?
per te giunga a mentir. Per Scipio il fece
che lo disse e il vantò figlio di Giove.
Tu, degli austriaci eroi germe sublime,
tai cose oprasti che han di false aspetto,
tanto passan del vero oltre i confini;
col dir meno del ver, fede ottenerne.
fia per cui salga all’etra il tuo gran nome.
Scipio in Ennio il trovò. Questo sol vanto
manca al tuo onor, degno di Carlo il canto.