Metrica: interrogazione
1003 endecasillabi (recitativo) in Scipione nelle Spagne Barcellona, Figueró, [1710] 
vinta è Cartago e di un sol giorno è ’l frutto
l’altra, del nostro impero emula antica,
l’Affrica, ond’ella è cinta; e ’l valor nostro,
già fra quanti ella chiude, è ’l suo gran mostro.
abbia il mondo a servir scritto è ne’ fati.
ne affretta il corso. In sì verd’anni oprasti
col zelo mio, col braccio vostro, il grande
genio di Roma. A lui de l’opra il merto,
Quella in suo disonor. Questa in suo fasto.
più in ostaggio che in odio; il lor riscatto
sarà per voi, forti guerrieri, un nuovo
Grande hai la fama ed hai più grande il core.
(Ma fra le glorie il fe’ suo schiavo amore).
Invitto, eccelso duce, a’ tuoi trionfi
pari al natal spiriti illustri il cielo.
non è l’affanno mio. Stretto anche il piede,
questa, è questa, o signor, mia pena e tema.
tu difensor. Se l’umil voto e giusto
da l’armi illeso e dal poter di Roma
anche a costo di sangue, il proprio onore.
(In sen di donna ha cor di eroe). Qual fia,
la beltà del suo sesso e tutta insieme
                                         In lei tu scorgi,
che in fertil suolo agl’Illergeti impera.
mio fu l’onor del suo servaggio. (Ah! Ch’io
restai sua preda e tu lo sai, cor mio).
in difesa e in favor. Roma ha per legge
di onorar la virtù, non di oltraggiarla.
vegga, al par de’ nemici, anche gli affetti.
                                                         Ah! Duce...
                                   O Sofonisba è morta
                                                          Poc’anzi
da l’alta torre, onde sul mar si stende
libero il guardo, ella gittosi e cadde
                                                             Ah! Basta,
già troppo intesi. Empio destin, trovasti
con che atterrirmi. Invan sei forte, o core;
né in te sento l’eroe, sento l’amante.
di sì illustre dolor sì strano caso.
del suo sepolcro. Ite veloci. Ah! Scipio
restar tu puoi? Colà ti chiama, o core,
il tuo amor, la tua pace, il tuo dolore.
Aman anche gli eroi. Scipio anche serve
Fiamma gentil che a nobil cor si apprende.
(Tal per Luceio anche quest’alma avvampa).
si sdegnerà che Marzio n’arda e l’ami?
corregga il volo a’ suoi mal nati affetti.
gl’incendi miei; non condannate un’opra
prenderò esempio e legge. In sì ria sorte
il men che mi spaventi è la mia morte.
vendichi il vincitor. Mia voglio Elvira.
piace o lice il consiglio, amor lo inspira.
                                    Tu mio Luceio?
Quella del mio destin. Veggo in un giorno
la città presa, i miei disfatti, il padre
ferito e schiavo. I ceppi suoi compiango,
compiango i miei. Scipio mi vede e accresce
con l’amor suo le mie sciagure. Il grido
mi giunge alfin de la tua morte. A questo
più non resisto. Odio la vita. A’ flutti
mi spingo in seno, o disperata o forte.
Mi opprime il mar. L’onda qua e là mi volve,
poi non so come in su la spiaggia asciutta
riapro gli occhi e a te mi trovo a canto,
Non fur meno de’ tuoi strani i miei casi.
cede il punico Marte e ’l Marte ibero,
rittraggo il piè. Giungo ove giace un nostro
guerriero estinto e, col favor de l’ombre,
cuopro me del suo usbergo e lui del mio.
che morto io sia. Questa mi giova. Intanto
chiedo di te. T’odo prigion. M’aggiro
donna cader da l’alta torre. A l’uopo
te in lei sottraggo, anzi me stesso, o cara,
del rigor vostro, o dei, più non mi dolgo.
                                                  A lui si asconda
ch’io sono ibero e che ti tolsi a l’onda.
grave il morir? Con qual oltraggio un tanto
se in me temi un nemico, hai cor ch’è ingiusto,
se in me abborri un amante, hai cor ch’è ingrato.
di usbergo il sen, benché di allor la chioma,
Signor, perdita lieve era a’ tuoi fasti
Volli morir; ma il mio destin ne incolpa;
io non conto, o Scipion, l’esser tua schiava.
mi ha ridotto il rigor di un’empia sorte,
qualunque sii, fra queste braccia, amico.
sono gli eroi; né di quel sen gl’amplessi,
merta uom di sangue e più di fama oscuro.
Né a l’opra mia dei maggior premio. Io tutto
Chi per te nulla oprò nulla ti chiede.
non lo additano uom vil. Qual sia, ti è noto,
                               Guerriero ispano,
                         Nacqui fra’ boschi. Il mio
fu romper glebe e ’l maneggiar vincastri.
pena e viltà. Volgo a Cartago il piede
e quel nobile aspetto in cui t’ammiro
smentisce i tuoi natali o gli condanna.
Qualunque sii, t’apro il mio core. In prezzo
son grandi, è ver; ma di Tersandro il core
Il perdono tu m’offri e non lo voglio.
La libertà mi rendi e non l’apprezzo.
a chi oppresso è da mali, un mal di meno.
L’amistà mi proponi e non l’accetto.
di volgar prezzo e di sì pochi istanti;
sin con l’offese). Orsù, Tersandro, vieni
Seguirò il mio destin più che i tuoi passi.
                                     Odimi, o duce,
mi dica: «Ama Scipione, io tel comando»
il mio cor cesserà d’esserti ingiusto.
Tu mio giudice il rendi ed io l’accetto.
gran beltà Sofonisba. E quella e questa
Temo che quella ceda a un sì bel volto;
temo che a questa piaccia un sì gran merto.
vorrei questo men grande e pur mi giova,
forze accresce a virtude e non le scema.
la tenda è questa; e qui di Elvira attendi,
                                Trebellio amico,
dovrò a te il gran piacer del rivederla.
libertà m’impetrasti e ti son grato.
il mio affetto t’impegno e la mia fede.
L’amata in quella e la germana ho in questa.
che si chiede un gran colpo al braccio invitto;
in me purghi le fiamme, in te le accenda.
Io nata al soglio, a vil tribuno io sposa?
patria mi sia, perché al mio sangue a fronte
più di quel ch’io ne tragga, a te do freggio.
E d’un tal freggio, o cavaglier tribuno,
più degna sposa. Elvira schiava, Elvira
ti è gloria il nodo ed il voler ti è legge.
ti lascio in libertà. L’utile indugio
sia consiglio al voler, freno a l’orgoglio.
Già dissi. Tu risolvi. E puosso e voglio.
misera io son che temer puosso un’ira?
Un’ira che m’insulta e non mi uccide?
l’alma dal sen! Dov’è un acciar? La morte
mancar può a l’infelice? Eterni numi,
Di Elvira il core e di Cardenio il brando!
l’ire feroci. Il vecchio padre abbracci
prima non tinsi entro il reo sangue il ferro?
non si togliea. Ne l’ostil campo ancora
né tutto era il tuo scampo un Marzio ucciso.
Sol mio scampo è ’l morir. Destra fraterna
caro mel rende e in te ne baccio il ferro,
che dee la strada al cor pudico aprirsi,
ove del mio Luceio impresso è ’l nome.
il rischio mio, perch’è tuo rischio ancora.
Barbaro onor! Già ti ubbidisco e ’l nudo
                                            Fermati, o crudo.
                                                 Il fio
tu pagherai, da quest’acciar trafitto,
de la tua crudeltà, del tuo delitto. (Si battono)
Olà? Marzio, qual’ire? Onde quest’armi?
volse l’acciar contro il mio petto istesso.
Ma te chi spinse a così enorme eccesso?
Forza di onor. Tu che sei giusto o duce,
e assolva i falli miei l’altrui delitto.
Cardenio son. Mi è suora Elvira. Oltraggi
                                        (Il mio rivale è questi).
(Quegli è ’l mio ben; come di Scipio al fianco?)
vuo’ sottrarla col ferro. Egli mi arresta.
Marzio ancor vive; e la mia colpa è questa.
e l’istessa onestà n’era il gran prezzo.
Marzio, che m’insultò, Scipio anche offese;
reo de l’altrui perfidia anch’ei si rende.
                                                          Elvira
Ma non sovra il suo onor. Tu ne perdesti
sia la prima tua pena, o cor lascivo. (A Marzio)
                                                                Ah! Questo
de’ miei sudori a pro di Roma è ’l frutto?
                              A te la tolgo, è vero,
anzi al tuo amor; ma del riscatto il prezzo
Scipio, in quest’alma un mercenario affetto.
entrò nel campo. Ei di un roman tribuno
Ei m’insultò col ferro; e pur si soffre,
che più? Fa’ ch’ei m’uccida e ’l tronco capo
mostri in trionfo a’ tuoi soldati e a’ miei.
tel giuro, i miei guerreri e i tuoi pur anco
sapran punirlo anche di Scipio al fianco. (Parte)
tolsi l’oggetto e l’onor tuo difesi.
che del tuo ardir prenda la pena anch’io.
E aggiungi tuo rival. L’odio in te cresca
con la ragion di quell’amor ond’ardi.
rammenterò che hai l’onor mio difeso;
e morrò col rossor d’esserti ingrato.
                                  In su la fronte, o duce,
n’è interprete più fido. Onde il tuo duolo?
                                     In che ti offendo?
                                              Non anche intendo.
                                 È ver. D’Iberia il cielo
che in te insieme non miri il suo tiranno.
                                   Ma dirà ’l mondo
                                     Ed amo in essa
                         Sta in tuo poter.
                                                         M’imponi
qual vuoi più dura legge. Eccomi pronto.
                                                             Il fato
di Scipio l’ira e di Tersandro il voto.
(Per un rival troppo ti esponi, o caro). (A Luceio)
                                                        Intendo.
                                     (Virtù funesta).
di un mio rival per liberarne un altro).
                                      Più che non pensi.
                                                      Su questo
brando lo giura, indi il gradisci in dono.
Giura Tersandro ed or tuo amico io sono.
E sia pegno di fé questo, che or prendo,
e in tuo serviggio al guerrier fianco appendo.
                              A la città mi affretto,
la gloria e ’l merto a la virtù si aspetta.
                                   Breve disastro
                               E pur lo toglie a’ ceppi
di Scipio il cenno. (Scipione sopragiugne)
                                    E di Tersandro il voto.
la possanza del braccio, arriva il core.
Mi hai vinto, o duce, e con l’onor diffeso
e co’ lacci disciolti. Altro non posso
che un grato ossequio, un’amistà fedele.
l’odio non muor, se ben la forza è doma;
                                        Attendi. Al campo, o fido, (Prima a Cardenio e poi a Trebellio)
va’ tosto. I tuoi raccogli e Marzio osserva.
vestiggio alcun tengo ne l’alma impresso.
Quanto feci in tuo pro vien dal tuo merto.
per fede e per valor, fregio e sostegno.
Cor non trovai de l’amor mio più degno.
mi trasse, o duce, oltre il dover ne l’ira.
tolse molto al tuo error, molto al mio sdegno.
Or discolpa maggior n’è il tuo rimorso.
Cardenio mi oltraggiò. Più non n’esiggo
e un fratello di Elvira ancor mi è caro.
Ma nol veggo in Scipion. Benché sì chiara
la fama sua sta d’atre nebbie involta.
                                            Soffrilo e ascolta.
Sofonisba è ’l tuo amore, Elvira è ’l mio.
Questa è mia spoglia; e tuo possesso è quella.
pari le leggi. E pur mi è tolta Elvira,
Ma in tuo poter, benché tu n’arda amante,
So che puro è ’l tuo foco e che non entra
l’ignaro volgo, i più sublimi avvezzo
Se giusto sei, se l’onor tuo ti è caro,
con cui giudichi gli altri, anche te stesso.
priva il tuo amore o ancor l’altrui consola;
ch’io manchi al dover mio sol perché amante?
                             (Di te si tratta, o core).
Pianga, se il mio non gode, anche il suo amore.
                                 Principessa, al primo
folgorar de’ tuoi lumi arse quest’alma,
qual per onda gran fiamma, il mio bel foco;
e pera il mio piacer. Già da quest’ora
                       (Ahi! Che dirà?)
                                                        Cardenio sia.
                         (O me infelice!)
                                                         (O me beato!)
un oprar con virtù? Biasmi od applaudi?
(O dio! Che fo? Lodo o condanno? Il primo
offende Sofonisba e l’altro il giusto).
(Nascesti, o cor, per non aver mai pace).
E tu, bella, che pensi? Assenti o nieghi?
(Che dir dovrò? Manco a la fé, se assento,
                                          Pensosa ancora?
Perde in Scipion con pena un che l’adora.
Scipio, sarò di chi m’impon la sorte;
                                             Marzio ti ammira;
                                              Prence, le devi
tutte a Tersandro. Ei di tua sorte è ’l fabbro.
vacilla la costanza e vince amore). (Parte)
ch’io vegga ne’ tuoi lumi un raggio amico.
non vedrai che il mio pianto e ’l mio martoro.
Intendo, il tuo Luceio ancor t’ingombra
                              O dio! Morir.
                                                         Cotanto
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
lieto ne l’amor suo, sveglia in quel core
per me qualche pietà. Fa’ che più lieta
Deh! Non cercar di più. Lasciami in pace.
Sciagura esser non può, s’è da virtude.
Cardenio a’ ceppi suoi, ci fa infelici.
                                 Il prence in lui,
                                        A tua richiesta
                                 Fui generoso;
                                   Oprar da forte; e quando
l’altro è in periglio. Il mio consenso è un torto
de la mia fede; e ’l mio rifiuto espone
la mia fama al rossor ch’ami Scipione.
anche in morir per te, la morte è vita.
                                        Vi applause e tacque;
e dal suo voto il mio piacer sol nacque.
Più di quel che ne pensi, alto è l’arcano.
                                                L’amo, o germano.
                                                          Affrena
Tersandro in esso. Amo in Tersandro altrui.
                              Il tuo rival, l’eccelso
de’ Celtiberi prence, è desso, è desso.
Morto non è? (Son di stupore oppresso).
Vive l’invitto. Io ben più volte il vidi;
a me bene, a te gioia e gloria al regno.
Speme ch’è mio conforto e falsa e vera.
trovo il rival. Quanto opportuno ei giugne?
(Ma se oprai con virtù di che mi dolgo?) (Tra sé)
non è ’l fregio minor l’esser sincero.
Piacemi. Or di’. Ne l’ultimo conflitto
                                  (Quale richiesta!)
                      Ei ne uscì illeso.
                                                      Entro Cartago
che in sen per Sofonisba amor gli accese.
col suo obblio, col suo gel tempo né morte.
Ah principe? Ah Luceio? Il grado e ’l nome
ben puoi mentir, l’alto valor non mai,
che da l’opre, dal labbro e dal sembiante,
                                                     Più tosto
non si conti il mio amor né l’odio mio.
il più bel de’ miei voti, anzi de’ tuoi;
e ne pianga il mio cor. Ben posso amarla,
più volerla non posso. Ella è tuo merto
e tuo aquisto anche sia; non ho da offrirti
non ti resti il piacer d’averlo ingrato.
mel vuoi rapir. Vil, se l’accetto, io sono.
                                 Giugne Scipione.
                                                                   O pene!
(Sin ne l’altrui virtude odio il mio bene).
segno è d’alma plebea. Nota sì oscura
grande è ’l tuo don. L’amo e l’amai ma il tolgo
che per mia gloria un suo favor gli renda.
per piacer d’esser grato a me la cede).
Cardenio, ammiro il nobil atto e ’l lodo;
                                  Offrir tu ’l puoi; ma tutta
                                                Il mio dovere
ama più l’onor mio che il tuo piacere.
Contesa illustre, ove un gran ben si perde
Risponderò qual deggio (e non qual bramo).
L’onesto oprar libero è sempre; e fora
Tu vietarlo non dei, perch’egli è grato;
tu sdegnarti non puoi, perch’egli è giusto.
Saria tua colpa amar ch’ei fosse ingrato,
saria tuo scorno impor ch’ei fosse ingiusto.
Resto convinto e ’l tuo rifiuto accetto. (A Cardenio)
(Ho vinto, sì, ma ’l cor mi langue in petto).
                                          In me costante
viver non posso. Il trattenerla è colpa.
                                           Ah! Per la nostra
sacra amistà, tu, che l’hai tolta a l’onde
l’onta e ’l rossor di un suo disprezzo.
                                                                   Io, duce?
Sì, confido al tuo zel l’alta mia sorte
                                                Di’, che rispondi?
                                     Caro Tersandro.
doveasi armar contra il mio core istesso
possessor del mio ben? Per me sia tratto,
quasi vittima a l’ara, il mio bel nume?
meglio custodirò ciò ch’è mio acquisto.
Me l’ottenne il valor. Roma il concede;
ve ne accertò, l’infausto laccio infranse.
decreta il cielo e a noi soffrir conviene.
Io tuo non posso, esser non puoi tu mia.
                                   Ah! Men funesto e rio
Vuol così ’l ciel, così ’l dover m’impone.
Esser dei... Lo dirò?... Sì... Di Scipione.
                            Di lui che t’ama, o cara.
Di lui che ti sospira e che n’è degno.
È questo il tuo destin. Questo è ’l mio impegno.
                                                        E te ne priego.
è un dir che non mi amasti e che non m’ami.
È un creder ch’io non t’ami o t’ami poco.
                                          Lo so e ten chieggo
                                    Col tuo rifiuto,
che mi niega un piacer, più mi tormenti.
levi a’ suoi voti il più funesto inciampo.
sceglier possa il mio cor la men crudele.
la tua vita o ’l mio amor. Deh! Per pietade,
snuda l’acciaro e in questo sen l’immergi.
pegno immortal di mio pudico amore. (Piange)
                                    Che sua sarai.
                                                                Disponi
ciò ch’io voglia non so né ciò ch’io pensi.
palpita l’amor mio. Tu ne decidi (Luceio si avanza verso Scipione e Sofonisba sta ritirata come in disparte)
(O dio!) Leggi, o signor, su quel bel volto
                           Me fortunato!
                                                       Dillo, (A Sofonisba)
                                       E sarà ver che alfine (A Sofonisba accostandosele)
Non mel tacer, non mi celar quegli occhi. (Sofonisba rivolge gli occhi ad altra parte, piagnendo)
Scipion... (Più dir non posso) (Guarda Scipione e poi fa lo stesso che prima)
                                                        Ella mi accora
ma si adempia il trionfo e poi si mora. (Luceio si frappone tra Scipione e Sofonisba)
                                              A’ tuoi diletti
non si oppone, o signor, che il suo Luceio.
No, di’ la fiamma sua. Vive quel prence.
                                           Vive in Cartago, (A Scipione)
anzi al tuo fianco e tu lo vedi e ’l senti.
                            (O perigli!) Eccolo, o duce;
de l’immagine sua. Ne’ miei lo senti (Scipione si mette in atto pensoso)
mesti sospiri. (Abbi di me pietade). (Piano a Luceio)
Dover mi sforza. O corrispondi o parlo. (Piano a Sofonisba)
                                 Dunque morranno
benché prieghi Tersandro, è ancora ingiusta?
Che tardi più? Proconsolo di Roma. (A Sofonisba poi a Scipione)
D’allor nel tuo voler, ben mi sovviene,
Sì, tua sarò. Se mai verrà quel giorno (Piano a Scipione poi a Luceio)
che a te spiaccia, Tersandro, il fatal nodo,
nodo che offende il tuo Luceio e ’l mio,
                                            E tu, mio caro, alora
ne accrescerai con la tua vista il pregio.
e più certo e più grande il mio diletto.
                                           E ’l tuo bel volto
                               Tu del germano
                           Ma questo cor, sì questo,
                                        E perché amante.
Seco è Tersandro. Attenderò ch’ei parta).
mi uscì l’arcano e ritrattar nol posso.
                                      Ed a l’amor pudico
l’alto tuo merto ed il fraterno assenso.
                            (L’odo! La soffro! E taccio?)
                  Ti udì, ti udì quel Marzio, ingrata,
non dal tuo onor ma dal tuo basso affetto
E questo è ’l tuo? Questo è l’onore ispano?
Marzio, vile non è ciò ch’è mio voto.
                                                                    Siegui.
                                          Non hai difesa,
e quest’acciar vendicherà le offese (Dà di mano alla spada)
Su, principi da te la mia vendetta; (Fa lo stesso)
trovi di che arrossir quell’alma ria. (Accenando Elvira)
Non è facil trofeo la morte mia. (Si battono)
Contra un tribun l’ira si volge e ’l ferro?
virtù ammira, o Scipion. Costei, che altera
se ’l può, l’ingrata. Io qui l’udii né l’ira
                           Tanta viltà in Elvira? (Ad Elvira)
             (Tacer mi è forza. Amor tiranno!)
ma quell’amor, che le riscalda il petto,
non è indegno di lei. Sa qual si asconde
Sa qual ei nacque e sa ch’ei nacque al trono.
Marzio il sappia e Scipion. Luceio io sono.
                                 E se quel sei, fra poco
(Ei l’onor mi difende e ’l cor mi svena).
vorrai soffrire il tuo nemico e ’l nostro,
e si acclami colà: «Luceio mora». (Parte furioso)
                                             In che mi accusi?
                                        Nome e fortuna
                           Anche rival ti apersi
                                                          (O caro).
                                        Quanto amar puossi.
                                         Perché amar deggio
più di lei la mia gloria e ’l mio dovere.
non trarre il piè. Colà ben tosto udrai
Qualunque sia del tuo voler la legge, (A Scipione)
e me ne assolva l’amor tuo pudico, (Ad Elvira)
fedele amante e generoso amico. (A Scipione)
non ti è noto Scipion. Vedrà oggi il mondo
più rival ne l’affetto e ne la gloria. (Parte)
                              Il tollerarne l’onte
                                Per la tua vita
                                        Almeno in essa
Se ’l perdo per virtù, ne mostro il prezzo.
qual valor, qual consiglio argini oppone?
                                               Quel di Scipione.
per cui deggio esser tua. Tua sol mi fece
Ma se ’l lasci perir, tua più non sono
A la bella pietà di Sofonisba (A Sofonisba)
Libero è ’l porto e là non serpe ancora
pronto i flutti aprirà. Questa è tua guida. (Mostrandoli una delle sue guardie)
Va’. Sollecita il passo. Amammi e vivi.
né infamia tua. Cada il mio capo, al tuo
                               Virtù, che nuoce
Qui del campo è ’l poter, non del Senato.
                                                 Un furor cieco
                                                              Ovunque
non ripugni il dover, mi è sacro il nome.
Un mio priego non val. Vaglia un mio impero.
ti acompagni  e ti siegua. Allontanarti
da lei, ch’è l’alma tua, non è un salvarti.
in due nomi è un sol cor; ma questo core
d’esser vinto dal tuo non può soffrire.
                           (O dover!)
                                                 (Torno a morire).
degno trofeo. N’abbia la gloria Elvira.
Ella ch’è rischio tuo sia tua salvezza.
                                                    Purché tu viva,
                                                  Siegui, che hai vinto. (Piano a Sofonisba)
per mio rossor? Pur ti ubbidisco. Andiamo.
lo impone la mia fede. Andiamo. Hai vinto. (La prende per mano)
(E così tu morrai, povero core). (Luceio nel voler partire s’incamina da la parte dov’è Scipione e vedutolo si ferma in atto pensoso)
                          Che più ti arresti?
                                                              (Muori (Fra sé tenendo ancor Sofonisba per mano)
                                       (Torno a temere). (Luceio va a Scipione)
                                                     (Anima forte).
No, non morrà, s’io pur sarò qual sono
si unì Trebellio. Anche dal campo al porto
Il suo capo per lui qui t’offre Elvira.
                                          In tal periglio
quale scampo? Qual forza? E qual consiglio?
m’invio su l’orme. In tal destin più temo
che l’altrui sdegno il suo coraggio estremo. (Parte)
in morendo per lui, di un sol tuo pianto.
ma rea di tue sciagure. Odiala. È giusto.
Altro non posso odiar che il mio destino.
Tolga il cielo, o signor, che tu condanni
Chi ha l’amor di Scipion, degno è del nostro.
premio de l’opra mia chieggo in Elvira.
forza non v’è che il reo nemico invole;
Scipio non può trovar, Marzio nol vuole.
Né la soffre Scipion. Pur questi ed altri
N’hai la mia fé; ma verrà tempo e ancora
Ciò che intanto io risolva, udrai fra poco.
Parla pure, o signor. Non v’è periglio,
Né che a pro di Luceio il mio non tenti.
che in fier tumulto a la sua morte aspira,
                                   A questa legge?
                                                                  A questa
sento fra’ mali anch’io l’alma perplessa,
Ma ’l tuo onor mi si chiede, il tuo, germana,
che pure è ’l mio. Non ho coraggio e parmi
Sarà libera l’alma anche fra’ ceppi.
Sai qual sia Marzio? Un vincitore amante.
Sai qual sia Elvira? Un’onestà costante.
                                 A risoluto core
nel tuo bel cor mi assolva; e Marzio apprenda
l’altrui non men che l’onor suo difenda.
rischi non temo. Andrò con Marzio al campo.
                                           Andrò per torti a l’ira
O dei! Di mie sciagure è questo il sommo,
mi s’insidi la gloria. Ah! Principessa...
                  Si ascolti Elvira. Il mio consenso
chiedesi e non l’altrui. Marzio promette
l’arbitrio è mio. Nieghi Luceio o assenta,
                                      La sua difesa
sarà mio impegno; e ’l tuo timor mi offende.
Per me ti arrischi e tu ne perdi il frutto.
            Non più gare. A te convien Luceio
questa volta esser vinto; io te ne accerto,
Che si tarda, o signor? Spiegansi al vento
Tutto è in armi o in terror. Più lunghi indugi
che tu mi dai. Marzio pria venga e ’l patto,
ch’esser dee tuo periglio e mia salvezza,
                               Vivrà il mio caro, o dio!
                                       A me ti volgi,
                                          Questo è ’l mio voto.
                           Questo n’è ’l prezzo e ’l giuro.
                                         Torno a’ tuoi ceppi.
                                        (Soffrir conviene).
                                    (Non mi uccidete, o pene).
                                                       Ignoto
Quel che men si provede. Arbitro è ’l fato
                                         Alor soggiaccia
ma sicuro è ’l tuo scampo e ’l mio diletto.
Addio, Scipio. Addio, Elvira. Addio, Cardenio.
s’egli a la tua pietà, se a la tua fede
                     O destino!
                                           O pena!
                                                            O vita!
Su, Romani, su, amici; a l’armi, a l’armi.
d’uopo il richiegga, i detti miei seconda.
Va’, l’opra adempi. Io seguirò i miei voti. (Si ferma in lontano)
                           Io vi precedo. Andiamo.
                                      Luceio cada.
di quel guerrier la vita. (Acenando Luceio)
                                             Egli è Tersandro.
                                      Luceio cada.
Marzio, Marzio lo trasse ed io vel mostro.
                                         (O dei!)
                                                           Volgete
non andrà impune. Arde a’ Romani in volto
anima troppo audace, e che presumi? (A Luceio)
                           Cerco morir da forte.
toglie a me un gran rossore, a te un gran bene.
                             Or che s’indugia a darmi
                             Alor l’avrai che n’esca
serbinsi, o prodi. Ei su la loro vita (Sortono da la città Scipione e gl’altri)
                                          Viva Scipione.
                                                  Invitto eroe,
diede a’ publici applausi anima e spirto.
sfidò la morte e fe’ arrossir noi tutti.
Ecco Marzio al tuo piè, quel Marzio audace,
ed il rimorso tuo vinto ha ’l mio sdegno.
Sorgi; e del mio perdon renditi degno. (Si leva)
Libera sei del tuo servaggio indegno. (Ad Elvira)
Non l’ho che in Sofonisba. Io te la rendo.
                         Tu ne hai la fé.
                                                      Tu il core.
                                     E tua l’amore.
                                             Egli è romano.
                                       Eleggo Elvira.
s’ella ha per me fiamma d’affetto in seno,
(Al grande assalto or ti apparecchia, o core).
                                          A te s’aspetta.
(Per Luceio ella avvampa. Io spero invano).
L’Iberia applauda e l’imeneo si onori.
                                Amico, ho vinto.
Vedrò anche il mondo al tuo valor sommesso,
or che con tanto amor, vinto hai te stesso.
                                         Ti abbraccio, o sposo.
                                          Il mio riposo.

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