sente nuovo piacer, gioia novella.
e inebrian l’aure di soavi odori.
Tutto spira diletto; e in lieta guisa
tra concenti festivi il mondo oh come
applaude già d’Elisabetta al nome;
l’Ebro, che fido un sì bel nome adora,
umil a tributar gl’ossequii sui;
tra vaghe pompe di superbe scene
attendi, o bella, alti successi in cui
sotto l’essempio altrui splender si vede
vivo il candor della tua bella fede.
sconfitto è ’l Perso, libera Palmira,
Aspasia in mio poter, Farnace avvinto
fra le assirie ritorte. Eterni dei,
i miei lauri e ’l mio regno un vostro dono.
Fregio del vincitor, speme del vinto,
Odenato, gran re, la bella Aspasia,
spoglia non vil del tuo trionfo, è degna
di tua clemenza. A pro di lei ti parla
il suo grado, il suo sesso...
Signor, nol niego. Ardo d’Aspasia; e ’l foco,
andai messaggio al re Sapor, suo padre.
e fu, se a questo pena, a quei diletto.
Ma chi arse mai per non veduto oggetto?
Io, duce, io son che n’ardo. Amo l’eccelsa
tace del ver, per non parer bugiarda.
altro non ami in lei che il tuo pensiero.
Amo in lei la virtude, amo il valore;
non da beltà, prese da gloria ha l’armi.
Re di Palmira, al tuo trionfo io reco
il non ultimo fregio. Egli è ’l superbo
distruttor de’ tuoi regni, ei che fra l’armi
le vendette di Aspasia...
che per Aspasia odio immortal ma giusto
a te deve, a te giura; e meco il giura
da un tuo rifiuto in lei sua figlia offeso.
(Anche vinto, minaccia il cor feroce).
Nobil guerrier, sotto le assirie insegne (A Zenobia)
è troppo avvezza a militar fortuna.
per cui gloria ha ’l suo sesso, invidia il nostro.
A l’armi sue deggio ’l trionfo e deggio
la vita ancor. Nel valor vostro, o duci,
parve sul campo d’ostil sangue intriso
tutto egualmente il suo gran cor diviso.
(Non men che l’alma invitta, ha bello il viso).
l’ire superbe in libertà. D’alora
che appresi a non temerle. E tu di Roma (A Decio)
freggio maggior, vanne ad Aspasia e dille
che la mia reggia, ove l’arresta il fato,
non è carcer per lei. Ne’ miei vassalli
(Decio ad Aspasia? O mio destin spietato!)
Così servo al tuo amor. (Piano a Decio)
Perdonami, o signor. Pietà imperfetta
e dì mano real non escon doni
che non sieno compiti e non sien grandi.
e le saranno i tuoi favori istessi
rimprovero crudel di sua sciagura.
Torni ella pure al ciel di Persia; ed ivi
de l’indomito sen le furie ultrici;
qual sia ’l cor, qual la man de’ suoi nemici.
l’assirio Marte a suo piacer disponga.
Vada Farnace. (Verso Farnace)
per cangiarlo in tua pena accetto il dono.
chi disarmi in tuo pro la mia vendetta;
me più possente e più nemico aspetta.
tanto t’è a cor? (Giovi scoprirne i sensi).
Deggio questo rispetto alla sua sorte.
Vanto ha di bella; e in due begl’occhi il pianto
spesso facile via s’apre ad un core.
In diffesa del mio veglia altr’amore.
il rifiuto d’Aspasia e l’armi perse.
non vedute sembianze amar chi puote?
Io che, pria d’un bel volto, amo un gran core.
Or n’amo anche i favori; e se al grand’uopo
mi difese con l’armi il suo potere,
l’amo insieme e per gloria e per dovere.
a Zenobia anche il grido; e ne’ tuoi rischi
temé di parer vile o almeno ingrata.
Bella fiamma del cor, tu sei beata.
diede natura anche condegno albergo
e fregi accresce al suo valor beltade?
Cresce l’amor, quanto più cresce il merto
E in chi s’ama virtù, beltà si brama?
Come raggio di sole in ciel sereno,
più bella è in un bel corpo la virtude.
E se onor di beltà manchi al sembiante?
A la virtù non mancherà l’amante.
Che più tacer? La vergine reale
amerò con più ardor, se ha vago il volto,
è giusta mai la sconoscenza?
Tutto anzi deve al forte.
a mortal piaga assirio duce invitto.
Chiuso ne l’elmo il prode
portò altrove la strage e la vittoria.
«quest’aurea gemma». Io qui ne serbo il dono. (Mostrando un scattolino d’oro)
L’aurea gemma rimira e lo saprai.
Che? Non intendo. O dio! Tra queste gemme
E tu, timida destra, ancor mel chiudi?
Apri. Ogn’induggio è pena. Ah! Che rimiro? (Apertolo ritrova il ritratto di Zenobia)
vi leggo il nome a ciffre d’oro impresso.
Questo è ’l suo volto. Il cor mel giura. È desso.
tien del guerrier ch’a me lo diede. O cieco!
Io cercava il mio sole e l’avea meco.
Son io più Aspasia? Io di Sapor la figlia?
Dove le mie vendette? Entro Palmira
io sperava trionfi e incontro ceppi.
Così ’l cielo mi vendica? Così
E tu m’ami così, Decio spergiuro?
giurata in Persia? Ove l’amor? Tu primo
a’ danni miei? Tu mio nemico? Ah spegni,
le infelici tue fiamme, odia l’ingrato;
e l’odia, se ’l puoi far, più di Odenato.
Odio, sì, principessa, odio ti chieggo;
misero più che reo, chieggo a’ tuoi piedi.
Odi le mie discolpe; e poi condanna,
l’alta necessità de’ falli miei.
E Decio ancor, Decio d’Aspasia ardisce
offrirsi al guardo ed insultar le pene?
vieni a goder? Vieni a cercar il vanto
de la perfidia tua sin nel mio pianto?
Contra i Persi, egl’è ver...
di un empio cor. Contra d’Aspasia armarsi
l’Asia potea, Roma, la terra; il solo
Decio non lo potea. Gli dei giurati,
la tua fede, il mio amor, tutto oltraggiasti,
di furie il sen, di acciar la destra armasti.
nuovo furor mi accenderanno in seno.
(Ma se ’l torno a mirar, l’ira vien meno).
di augusto vedi anche un vassallo e vedi
Tutto in lui può l’amor, purché l’amore
non si opponga al dover; cesare impone
guidi in favor l’armi latine.
e pur tu le guidasti, alma sleale.
insegna crudeltà, la tua compisci
nelle miserie mie; vieni, ti affretta;
accorciar questo manto; il piè mi prema
la man si stringa. E ad ostil carro avvinta
fa’ ch’io lo siegua e prigioniera e vinta.
Tu temi oltraggi ed io ti reco, o bella,
favori e libertà. Ti sia Palmira
E ognor sei schiava ove un nemico ha ’l trono.
barbaro cielo a noi fuggir conviene
l’aure odiose. Il generoso assiro,
a me tolse di man la tua vendetta,
di piena libertà l’uso ci rende.
anche la libertà mi saria pena.
vegliò tra l’armi e che per lei fedele
Ma sleal mi fu Decio, empio e crudele. (In atto di partire ma poi in lontano si ferma a mirar Decio)
(Che più ti arresti?) (Ad Aspasia)
nel duol de l’infedel la mia vendetta.
Più mesto il vuoi? La tua partenza affretta.
Andiam, Farnace; e teco resti, iniquo, (A Decio)
de l’ire mie la rimembranza e insieme
de la perfidia tua tutto il rossore. (In atto di partire)
(Io partirei, se ’l consentisse amore).
E pur sospendi il dubbio piè?
Applaudo. (A Farnace) E in te, spergiuro, (A Decio)
più di quel ch’ora t’amo, io non t’amai.
Tu ch’io qui resti? (A Decio)
ad imprese più ardite il bel comando.
in favor del mio amore alla mia gloria?)
Decio, così sospeso? è tempo, è tempo
Se tardi, il campo al tuo rival tu cedi.
Già ti precorro; e tu lo soffri e ’l vedi.
al più forte campion del perso impero,
le sue vendette affida. Ecco te lieto,
riconducila al padre. Aure propizie
già spirano a’ tuoi lini; e resti intanto
qui Decio l’infelice in mar di pianto.
Non mi movono a sdegno i tuoi disprezzi.
Tutte ora deggio le vendette e l’ire
Impotente non è cor resoluto;
mai non mancan ministri alla vendetta.
amico duce, la sdegnosa Aspasia?
Piena de l’odio tuo, de l’odio mio,
a te cerca nemici e tenta offese.
A la concessa libertà sì ingrata?
o non uscir di sua prigione.
la rabbia di Farnace e ’l mio dovere.
Ma Farnace è impotente, io son romano.
E bench’ella mercede a l’opra sia,
amo più del suo amor la gloria mia.
Quanto può, tenti Aspasia. In te mi affido
è rea talvolta od è nociva.
Poi nel parco real fa’ che disposta
sia nobil caccia. A la guerriera idea
de l’invita Zenobia offrir non posso
con la stolida forza e braccio e ingegno.
Nel mio liberator trovai la stessa;
vedine, o duce, in questo cerchio espressa. (Gli mostra il ritratto)
che non scuopra anche in voi nuove belleze.
mira il ritratto, io l’esemplar vagheggio).
ch’ella non apra in me piaghe novelle).
Luci de l’idol mio, siete pur belle.
distrutto ha l’opra d’un amor lontano,
formato da l’idea, non da l’oggetto.
l’amor, la gratitudine, la gloria,
in questo punto dal pensiero al core
e in un dal core ripassando al labbro,
vorrien pur dir; ma che dir poi non sanno;
come in vaso ricolmo umor racchiuso,
per troppa piena in su l’uscir ringorga.
Mio re, nel tuo piacer sento il mio bene;
per gioia del cor mio, dimmi che m’ami.
di parer poco amante e troppo ingrato.
A l’ardor di quegl’occhi io vengo meno.
Al ferir di quel ciglio il seno è poco.
Tu ’l vedi, a’ voti ingiusti è sordo il cielo.
Ciò che nuoce al nemico è sempre giusto.
Chi vassallo non è, non è fellone.
ti fe’ la sua vittoria; e poiché tenti
de’ suoi popoli il cor, sei un ingrato.
L’ingegno e ’l braccio al mio signor degg’io.
Va’, poiché manca il braccio, usa l’ingegno.
l’amicizia di augusto e degli Assiri
sono facili acquisti. A che più tardi?
Vanne. Fa’ che Sapor regni e trionfi.
Regnò finora e ne fur grati i cenni.
Temea ma non amava alor Palmira.
Darà nuovo timor la nuova forza.
Vinse Odenato e minacciar pur vuoi?
Chi ne accetta il regnar?
Non cedo e nuovo ardir amor mi detta.
Nobile amor sdegna le frodi. Ei chiede...
La bella io qui rispetto; e degno altrove
me ne vedrà quel cor superbo e vile.
In Farnace viltà? L’acciar... (Dà mano alla spada)
Risponda (Vedendo Aspasia che sopraviene)
a l’atto temerario Aspasia offesa.
Le tue giuste vendette ei mi contrasta.
Decio sia men amante o men nemico. (A Decio)
Ti serva ei col valor, non con l’inganno.
Tant’ira da Farnace io non pretendo;
né si cerca il mio cor di Decio in seno.
Il so. Ti duol ch’ora in periglio ei sia.
Vendetta io vo’ da te, non gelosia.
Degna di lui, degna di te. Sedurre
non è virtù ma tradimento e frode.
Lice ogni via, se a grande impresa è scorta.
Ma perde de l’impresa il frutto e ’l merto
chi la tentò senza guardar l’arcano.
Meglio pensa. D’altr’opre Aspasia è ’l prezzo.
Ma tu che oprasti, di’, per meritarmi? (A Decio)
Taci. (Purtroppo il so). Di’, che facesti?
tutto se un vero amore in me tu guardi.
Ma qual merto ha l’amor? (A Decio)
So dirlo anch’io. (A Farnace)
Ma qual merto ha l’amor che nulla giova? (A Decio)
Quello di non poter, se l’impotenza
è figlia de l’onore. Amar potresti
E Decio traditor saprebbe amarti?
(Magnanima discolpa!) Amami e parti.
D’altro parliam. Dispera i nostri voti
la costante Palmira. A l’onta mia
Sarò sciolta perciò? Sarò placata?
Cadran tutti con esso i miei nemici?
Empio sarò per Decio. Aspasia veggo.
Vedi Zenobia. Ella è in Palmira e aggiugne
la sua presenza un crudo scherno al danno.
Nemica l’odio e non rival. Mi sprona,
più del bel che mi usurpa, il mal ch’io soffro.
La salvi dal tuo sdegno il di lei sesso.
Cercano i torti miei sfogo maggiore.
Pensa; è sagace alor ch’è grande amore.
Pensai. Nel real parco oggi la caccia
vuole Odenato. Io là ben cauto i miei,
che meco han libertà, trarrò in aguato.
Tu al mio fianco sarai. Zenobia ed esso
cadranno in tuo potere; e ’l fido legno,
ch’io disporrò dove vicino al bosco
trarrà con noi di tua vendetta i pegni.
Ma Decio? S’ei riman, potrà seguirne
con maggior stuolo e a noi ritor la preda.
No, vo’ ch’ei viva e veda
ch’anche ne l’ira estrema ho regio il core.
Fingi virtù ma in te favella amore.
Deh, non perdiam l’ore propizie.
meglio che al tuo sospetto, al cenno mio.
Anche Decio. Aspasia, addio.
Si lusinghi Farnace; o bella sorte,
se agl’amanti superbi i lacci io rendo,
e più bella se Decio... Io taccio e fingo. (Vedendo Zenobia e Odenato)
Eh, signor, Zenobia è bella.
col tuo volto il tuo nome.
Tal più non sei. Ti giovi ed a te piaccia
abbia il fasto maggior dagl’occhi tuoi.
Mi arride il cielo. Io là verrò, se vuoi.
Vieni, ma lieta, e l’ire acerbe ammorza.
Lieta dov’è Zenobia? Un’alma grande
non soffre senz’orror pubbliche l’onte;
né più mi fermo, ove del mio rifiuto
e la cagione e ’l reo presenti io veggio.
Né l’amo né la temo. Io tuo mi giuro.
Pensi ch’io ne diffidi? Entro il mio petto
non giugne un basso affetto. Ella pretese;
ma la tua fé m’accerta. Un core augusto
arderà sempre per chi pria l’accese.
Tu l’accendesti e per te avvampa il mio.
Ne fu l’esca primiera il tuo gran nome,
l’altra stirpe e ’l saper che, appena uscita
del terzo lustro, hai tanta gloria in fronte.
Ma poiché giunse il guardo ove giungea
sol con amor la speme, il foco crebbe;
e ’l cor desia che nel suo ardore accenda
un reale imeneo le sacre tede.
sono la gloria ed il piacer de’ miei.
(Ah! Che sovvienmi, o dei!)
Che? Si turban degl’occhi i rai vivaci?
Teco sarò, meco sarai felice.
Arde; ma ’l mio dover l’empie di gelo.
Lascia che al nostro duol l’aura s’avvezzi.
io per scoprir, tu per saper l’arcano.
(Che mai sarà?). Svelami...
se non la mia sciagura, il tuo dolore.
Nol so temer, se non lo fa il tuo core.
Lagnati di Zenobia, o core amante,
Essa fe’ la tua pena. Essa ti tolse
la bella libertà d’esser felice.
Sì sì, sono mie colpe i fasti miei;
e mi trovo più rea, dacché ravviso
il prezzo di quel ben che già perdei.
veglio cauto e fedele. Io qui d’intorno
ogni varco spiar più volte il vidi.
Nulla teme colui che nulla spera;
ma tutto fa temer chi nulla teme.
Tengono il vicin colle i miei romani,
pronti al cenno primiero. Ei venga. Ei tenti.
la mia fama sarà, sarà il mio zelo.
Sempre è custode a re, ch’è giusto, il cielo.
de la comun vendetta. A lei vi sprona
de la Persia il decoro e l’onor vostro.
che val mille vittorie. Andiamo, amici;
esempio al vostro cor quel di Farnace.
Principessa, che pensi? È tema o sdegno
Vengo. (Ma Decio qui non veggo ancora).
Se hai spavento di fiere, a me ti accosta.
Frenar nol dee che la vendetta.
(Né giunge Decio). (Come sopra)
Attendi uopo migliore e datti pace.
(Un sollecito ardir temo in Farnace).
(Tenta insidie Farnace). Eccomi, o bella.
E poi resti tua preda. (Ad Aspasia)
Avrem prede più illustri; e qui vedrai
doma cader la più superba fiera.
Siegua or lieta la caccia; e in essa accenda
e più chiara e più bella amor la face.
Or ne la caccia il mio furor trionfi.
Ah codardi! (Verso i suoi che fuggono)
Non più, rendi quel ferro. (Tenendogli la spada al petto)
Lascia l’acciar. (Lo incalza e lo disarma)
per vantar l’alta impresa. Io teco, teco
e Zenobia e costui rapir volea
fra le perse catene. Or se il destino
vuol che infelice il mio pensier si scuopra,
al dispetto del caso ancor mi resta
la gloria de l’idea, se non de l’opra.
traggasi a’ lacci ed ivi aspetti e vegga
un estremo fallir la pena estrema.
L’aspetto e la vedrò ma senza tema. (Parte condotto da’ romani)
Era quella la fiera, era la preda.
Conobbi le sue frodi e le prevenni.
Al tuo valor la libertà degg’io.
E l’egual benefizio onoro anch’io.
(Soffri, sdegnato cor. Quel che tu adori
Non perdoni a Odenato ed è innocente;
col non crederti rea del suo delitto.
Non credo in lei così crudel desio.
Non mi discolpo e non mi accuso. Addio.
Decio verrà. Di te tal guida è degna. (Ad Aspasia)
Va’; e col tuo amor men crudeltà le insegna. (A Decio)
ch’io sappia il mio destin.
gli affanni tuoi, troppo raddoppia i miei.
S’hai grande amor, quella che cerchi è grande.
La pavento maggior, se non mi è nota.
Deh! Perdona a l’amor, perdona al zelo
Basti a me del saperla e ’l duolo e ’l danno,
e lascia che sia mio tutto il dolore.
divider suol con chi ben ama amore.
Basta, basta così. Mi fanno audace
i rimproveri tuoi. Senti.
(O dio! Vorrei pur dirlo e non vorrei).
E perché t’amo, io parlo.
T’amo; ma ch’io sia tua, che tu sii mio
Fosti il mio solo amor e ’l sarai solo.
e poi turbi, se taci, il mio riposo.
Ahi! Senza tuo dolor, senza tuo rischio
esser puoi l’amor mio, non il mio sposo.
Fede giurata? A chi? Rispondi.
Del mio goder rivale il cielo? E come?
Odi e fa’ cor. Dal fasto mio rapita,
a’ numi protestai, promisi e, o dio!
giurai che al seno mio degno consorte
che me vincesse in singolar cimento.
O protesta! O promessa! O giuramento!
Scorgo la pena tua. Dubbio ti veggo
e l’amara conquista. A te frattanto
racconti questo pianto, anima mia,
quant’io detesti il mio feroce orgoglio.
come del voto suo si penta l’alma.
il mio grave rimorso, or che m’avvedo
che tardi e invan de la mia fé mi pento.
O protesta! O promessa! O giuramento!
la mia felicità? Poss’io col ferro
cercar quel cor che de’ miei voti è ’l segno?
Pria nemico che sposo, anzi nemico
dee vedermi Zenobia? Io pugnar seco,
per seco esser contento? Un duolo atroce
funesta la vittoria. Un lutto eterno
succede a la sconfitta. Infausto voto!
Tu fai la mia sciagura; e in ogni sorte
veggio in te il mio rossore e la mia morte.
dono, signore, il reo Farnace.
a pro del tuo rival voti al mio scettro?
Di Aspasia i cenni or son miei voti.
ne condanno la man ma ’l cor ne assolvo.
Ragion non te ne rendo e Aspasia sono.
può meritar mia fede, a l’infelice
lo avran reso più saggio.
per lui da nuove offese; il cor feroce
tutte lasci al mio piè le sue vendette.
Così Aspasia per lui giura e promette.
del magnanimo Decio il reo concedo.
Ma Zenobia vi aggiunga il regio assenso,
oltraggiò troppo iniquo e troppo audace.
rara felicità che a te desio.
Resti il tuo amor qui più contento; addio.
vendica e assolve l’ire mie.
del misero Odenato è mio spavento.
Temer ti convenia pria di oltraggiarmi
esser sempre nemico o sempre amante.
Bella, non più. Reo vuoi ch’io sia? Reo sono.
empiamente Odenato e ne ha perdono.
La facile pietà fomenta i torti.
fa che amando disperi un cor fedele.
Ora il vedrai, crudele. (Mostrando di voler partire)
Fra’ Daci il piede o fra gli Sciti
l’infausto nome a funestar quell’aure
che tu respiri; o solo giunga alora
che, a l’estremo sospir chiusi i suoi lumi,
con pietà troppo tarda a te ’l richiami.
(Fingo così, perché mi creda e m’ami). (Come sopra)
avvilirmi così? Già so ch’ei finge.
Non partirà). Che più ti arresti? Parti.
Venga meco un dolor ch’è disperato.
Teco resti un furor ch’è vendicato.
Non richiamarmi più. Già parto. Addio.
(Ei parte). Ah! No, cor mio.
il felice amor tuo; sugl’occhi istessi
del tuo fiero rival parli più lieto.
n’è la mia libertà. Mi toglie Aspasia
dal piede i ceppi, ond’io gli sciolga al core.
Vuol così la crudel. Parli il tuo amore.
da figlia di Sapor, da tua regina.
assai per me fece il tuo braccio; assai
De la Persia a l’onor fido servisti,
al comando del padre, a l’odio mio;
ma servisti anch’insieme al tuo dovere.
ha per gloria e per legge ogni vassallo.
fermar il volo a certi affetti. Basta...
Tu m’intendi, o Farnace, ed al tuo merto
ch’io, tua sovrana, abbia il tuo amor sofferto.
Soffrir quel di Farnace è mia mercede,
Voglio così. Tu datti pace. Ho detto.
Non contrasto i tuoi voti. Ama a tua voglia.
Ed a me resti in libertà lo sdegno. (Dando un’occhiata a Decio)
Se per Decio favelli, ei nulla teme.
Suol le altezze ferir nembo che freme.
Odi, Farnace. Inutili vendette
più non ti chiede Aspasia e te le vieta.
libero uscisti; il tuo rival ne ha il merto;
io ne diedi la fede. Ad Odenato
debitrice son io de’ tuoi disegni.
Tu per tema de’ miei, reggi i tuoi sdegni.
Mal si soffre un rival, quando è felice.
rispettar devi il mio voler.
Anche il mio amor, se ’l vuoi,
lo difenda per me dagl’odi tuoi.
(Quanto parla in amor gioia che tace!)
disarmar mie vendette. Io le comincio
da l’odio del mio amor, prole mal nata
di core incauto e di beltà spietata.
me n’apre il campo; io pugnerò; qualunque
io n’avrò gloria e tu dispetto ed onta.
Orgoglio di beltà vede con ira
torsi a le sue catene un cor amante.
vivi nel sen, dimmi, quel cor che pensa?
Che risolve? Che fa per mio riposo?
e in talamo real l’avrò poi sposo?
Ah! Se ’l trovo nemico, ov’è ’l suo amore?
ov’è la gloria mia? No no, Odenato,
Diverria tuo trionfo il mio possesso;
ma mio scorno saria la tua vittoria.
esser devi, o Zenobia, il prezzo illustre.
necessità di fatal voto astretta;
tocca il primo cimento, a me che t’amo,
più di quanto amar posso, e che ho dolore
di non poterti amar quanto vorrei.
desti avrà nel tuo sen spirti guerrieri.
Già penoso ti sembra ogni momento;
e già sei col pensier nel gran cimento.
e che osar non dovrei? Ma ch’io la cerchi
la sacrilega man piaghi il tuo seno?
sudo, agghiaccio, vacillo e vengo meno.
Che? Col rossor di un vil consiglio in fronte
per svenare a’ tuoi piè le mie speranze.
Pria che offender quel sen, pria che piagarti,
disperare, morir ma sempre amarti.
la fiachezza del sesso; e volger l’armi
in petto femminil stimi viltade.
non volgar fama e non ignobil grido,
degno oggetto e trofeo del tuo valore.
cader per te; ma nol consente amore.
Se da l’amor prendi consiglio, ei t’armi,
egli al campo ti guidi, egli al trionfo.
non son io sposa tua, se son tua palma?
M’ami la tua bell’alma e son contento.
o ch’è debole amore o tosto pena.
Sia pur misero il mio, pria che crudele.
E non è crudeltà voler ch’ei pianga
quando esser può felice e generoso?
fedel ma sconsigliato. Attendi pure
ch’altri, con men di fede e più di ardire,
di te che fia? Che fia di me? Previeni
la comune sciagura. Armati e vinci;
o se a me de la pugna arride il fato,
chi vincermi potrà, vinto Odenato?
Su, fa’ più core. In campo
del tuo amor vien guerriero. Ecco ti chiedo
Zenobia... Ahi, che promisi? Io l’empio acciaro
volger nel tuo bel seno? Io pugnar teco?
a’ colpi del tuo braccio offrirò il petto,
o bellissima man, qui ’l ferro immergi.
l’immagine gentil de’ tuoi begl’occhi».
Tanto piacer di un sì fatal cimento?
si misura il piacer de la vendetta.
E che? Son io cagion che ’l mio nemico
cerchi nel rischio suo la sua fortuna?
Zenobia col suo voto è la crudele.
Essa è la sua miseria e ’l mio contento.
Or venga pur, combatta pur. S’ei perde,
il suo dolor val l’onta mia. S’ei vince,
di Zenobia il rossor paga i miei torti.
Basta un di questi sfoghi a’ miei pensieri.
Decio m’ami e Decio speri.
Basta, basta così, già i due campioni
del fasto e de l’amor Palmira attende.
Mio terror, mia speranza è ’l dubbio evento.
Vediam come il destin serva al mio sdegno.
Non più. Chi diè speranza
ad un timido amor, disse abbastanza.
o vinta o vincitrice, esser degg’io?
ma contrasta la gloria al suo desire.
ma la sconsiglia un innocente affetto.
Odenato... Zenobia... Ah perché mai
brame così diverse in un sol core?
o meno di valor... Ma che favello?
di sedur l’eroina; e si difenda
con più di gelosia del ciel un dono;
amo; ma che? Grande e Zenobia io sono. (Si ritira in disparte)
che a’ tuoi voti amorosi apre la sorte.
sì ch’io scemi il rossor de l’esser vinta
o si aggiunga un gran fasto al vincer mio.
(Che far, che dir poss’io?)
se non eguale, almen non vile a fronte.
Esso fece il mio voto ed esso ancora
qui sosterrà del voto mio la fede.
un tentar la vittoria? A che ne vieni!
Chi qui ti trasse? Impallidisci e taci?
Nel mio pallor, nel mio silenzio mira...
che ministra esser dee del tuo godere.
Quell’ira generosa... (Se gli accosta)
Qui mi trasse l’amor. Egli egualmente
regge i miei voti e l’opre mie consiglia.
Ciò che l’amor m’insegna.
Mi piace; ecco il mio brando e il mio valore. (Mette mano alla spada)
Stringi l’acciar. (Lo provoca)
Ella de l’amor mio solo è la meta.
Di acquistarla ecco il campo.
Ma ’l mio cor non vedesti.
Ah! Ben vegg’io (Abbassa la spada)
sino a farti infelice il cieco affetto.
Credi tu che al mio petto amor perdoni?
Che tutto il mio pensier sia la mia fama?
Amo anch’io, bramo anch’io; ma poich’osservo
l’alta necessità, ch’è nostra legge,
e gli sforzi d’amor virtù corregge.
Sin qui l’amante, or la nemica ascolta. (Ritirandosi addietro)
su, quel ferro decida. (Alzando il ferro verso lui)
ne l’induggio ostinato il mio disprezzo.
chi ricusa acquistarmi. Or custodisci
il viver tuo che de’ miei sdegni è reo.
Morir saprò ma non sarò crudele.
Il rischio più mortal fora l’ardire.
Rispondimi con l’armi. Io tel comando.
se avesse il cor la tempra egual col brando.
Quella, che tu non curi, è mia ragione.
Zenobia è premio a tutti ed il suo voto
la strada de l’acquisto apre a Farnace.
Il soffrirai? (A Odenato)
Pronto ti attendo. (A Zenobia)
Ferma. È mio quel cimento. (A Farnace, tirandolo addietro)
Mi arma rivalità. (Mette mano alla spada)
(Veggon gl’astri il mio cor). (Si mette in atto di pura difesa)
(L’evento aspetto). (Si ritira in disparte)
al zelo del valor quel dell’affetto).
non vinsi, no; né so dover al caso
vittoria tanto illustre. Il ferro prendi. (Le rende il ferro, Zenobia lo prende e torna mettersi in atto di combattere)
E col ferro la gloria. Or ti difendi
Io così mi difendo. Ecco il mio seno. (Getta la spada e le presenta il petto)
È ver. Meco or si provi il tuo valore. (A Zenobia avanzandosi)
Frena l’inutil brama. Egli mi vinse (A Farnace)
pria col braccio guerriero, indi con l’atto
del cor gentil. Sì, mi vincesti, o caro. (A Odenato)
Son tua. Sei mio. Più contrastar non lice
al linguaggio del ciel. (Decio ed Aspasia scendono intanto dal loro posto)
perché compiuto è ’l voto.
per non odiarti più prendo le leggi.
per amar il tuo Decio. Ei ben n’ha il merto.
Del mio cor sii pur certo. (A Decio)
tu la mia man, voi l’amistà sincera (A Odenato e Zenobia)
e una pace tranquilla abbia Palmira.
Io per l’Assiria ed immortal la giuro.
Al nostro applauda anche l’Eroico Amore.
Tacciano ormai de’ placidi concenti
che con più dolci, amabili magie
d’Elisa il nome risonar d’intorno;
«Elisa, Elisa» susurrar tra fronde
sentesi ognor; «Elisa, Elisa» ancora
con dolce mormorio replican l’onde.
degl’Elisi il piacer provano l’alme,
solo in virtù de’ dolci accenti tui
l’aspre tempeste fai volgere in calme;
sospira la tua sorte, o cielo ibero,
ma con gara d’amor l’Adda e ’l Sebeto.
d’esser fatto seren da sì bel volto.
N’arde d’invidia ancor quanto si serra
fra Battro e la divisa ultima Tile,
che già non v’è del mondo estranio lido,
ove non va di sua bellezza il grido.