Come, o signor? Quando già vinto e domo
la tua virtù tragge in catene il fasto
che le belle opprimea sponde vassalle,
sei col tuo amor l’augusta moglie...
a la comun felicitade insulta?
Pena, ch’è ria, fremer non puote occulta.
Perdona. Onde il tuo duolo?
che scoperta più duole e più infierisce.
Gran rimedio è virtù ne’ casi avversi.
Ma negli estremi anche il rimedio è pena.
Sire, nel tuo dolor ti muova almeno
di Engelberta l’amor; sono gelosi,
perché teneri sono in lei gli affetti;
diverria la ragion de’ suoi sospetti.
il soave piacer del rivederti.
Ma che dir deggio ad Engelberta?
Pensa al tuo amore e non curar del mio.
recai gli ordini eccelsi. Ei frettoloso
da la città ver te già muove i passi.
Si ritiri ciascun. (Povero core!)
(Donde nasca m’è noto il suo dolore).
di vane lodi ambiziosi omaggi.
Libero parla e non celarmi il vero.
Legge è di Ernesto un favellar sincero.
Pria di partir duce guerriero al campo,
ad Engelberta e a te commisi il freno
tosto fa noia a giovanil beltade.
Ne corregge l’ardor cauta onestade.
Qui legga Ernesto; (Mostrandogli una lettera)
ma pria giuri silenzio e fé prometta.
(Comincia a respirar la mia vendetta). (Legge)
ardono impuri affetti; e se non riedi,
ad offuscar de la tua fama i rai.
Pronto rimedio a vicin mal si chiede.
Serve chi tutto è zelo e tutto è fede».
Che lessi mai! (Godi, alma mia). (Rendendogli la lettera)
cui, me lontano, unir di augusta al fianco
le pubbliche del regno ardue vicende,
di’, chi svegliò l’ardor? Chi de l’iniqua
il tuo sovrano o se lo temi, parla.
Nol niego; errò Engelberta; e in basso affetto
Amò, volle, tentò; ma risospinta
penò ne l’ozio de’ suoi voti e tacque;
perché più non poté la scelerata;
è altrui virtù quanto non è sua colpa.
Ah, ch’egli è reo che non volendo ancora
A le tue piante il vedi... (S’inginocchia)
Sì, vedi prostrato il reo vassallo
che tu in esso punisca un non suo fallo.
Io quel sono, io l’infelice
che piacque ad Engelberta e parve oggetto
di facile trofeo, di debol fede.
Me stesso odiai, dacché l’intesi; e senza
lasciata avrei la fatal reggia e ’l regno,
di viver più, di più mirarti indegno.
m’era il tuo error, se mi toglieva Ernesto.
O raro esempio d’amistà e di fede!
più che il tuo re, strigni il tuo amico.
Ciò ch’io pur deggio adempio.
nel più cupo del sen l’alto segreto.
Mancherò al viver mio, pria che al dovere.
l’attenderò per mio riposo.
grato le fia. Gode esser solo amore.
a la pubblica vista il mio dolore.
dovrò un bene maggior, la mia vendetta.
de’ cesarei custodi, opra è di Ernesto;
un’alma grata, è sol mio voto, o prence.
Ma per qual via giunse al monarca il foglio?
Ne la sua tenda, ove il deposi, ei scosso
Vada or l’altera e quell’amor rifiuti
che le offersi in trofeo, spoglia non vile.
Amor solo soggiorna in cor gentile.
Vada or l’ingrata e le minacce e l’onte
ciò che di grande ella portò sul soglio.
Da quella man, che ne sostiene il fasto,
già cesare la crede e forse il cenno,
parla un tenero amor nel cor di lui.
l’odio comun; sai che qual tu nemico
ributtò le tue fiamme, io perché avversa
i gradi meritati a me contese.
Te ne l’amore e me nel fasto offese.
Il mio zelo e ’l tuo periglio
darà stimolo a l’opra, arte al consiglio.
augusta è donna; è offesa e ’l fatal foglio,
cui gli affetti affidai, di mia ruina
esser può lo strumento. Eccoti, Ernesto,
necessario l’error. Più reo ti rendi
col lasciar d’esser reo. La nuova colpa,
perch’è necessità, l’altre discolpa.
Sì, duce, più sollecito e più amante
in cesare vorrei trovar lo sposo.
conti cesare alfine il tuo timore.
a dissipar ciò che d’ignoto affanno
gli serpe in seno e gli traspar da’ lumi.
da’ trionfi a una moglie?
di serenarlo avrà la gioia e ’l vanto.
Lo spererei, se mel rendesse amore.
Con sì gran merto invan diffida il cuore.
Il so, Bonoso, il so. La tua grand’alma
prese alto volo e agl’imenei reali
che del primo consorte a me già nacque.
Il tuo natal, la tua virtù, il tuo merto
giustificò i tuoi voti; e riguardolli
la figlia con affetto, io con istima.
che de’ cesari al trono alzò Engelberta,
al trono di Aquitania alza Metilde.
de l’Aquitania il fortunato erede.
Ella n’ha ’l mio comando, ei la mia fede.
v’incenerì, liete speranze? E d’altri,
La mia cara Metilde? Ah non più mia!
Sospiri nel piacer del rivedermi?
Poss’io non sospirar, quando ti perdo,
Chi può di questo cor torti il possesso?
Quel comando crudel che ti vuol d’altri.
E dipende l’amor da l’altrui cenno?
Al cenno di una madre invan contrasta
spesso è forte l’amor più che il dovere.
non esige da te tanta costanza.
che te al mio soglio e me al tuo seno unisca.
più sdegnosa e più fiera. E che? Gli affetti,
più che dal genio e da la fede, Arrigo,
nascono dal comando; e amar degg’io
col voler de la madre e non col mio?
era pena al mio cor, torto al mio grado.
la tua grandezza e la trovai più giusta.
Se giustizia ti rende il suo consenso,
te la rende anche pari il mio rifiuto.
Col mio amor tu rifiuti anche il mio soglio.
Questo, o prence, non curo e quel non voglio.
vi ostinerete, o miei reali affetti?
al par del tuo comando è da Metilde.
Tua Metilde sarà. Cesare istesso
ne approverà l’illustre nodo. Altrove
un suo cenno mi attende e Otton mel reca.
Meco verrà la figlia. Io là t’aspetto.
Già impegno di mia fede è ’l tuo diletto.
cerco riposo e non lo trovo a’ miei.
Nel consorte sovran l’hai già vicino.
t’agiti inutilmente. Il cor di augusto,
spiega il volo a più fiori e un sol ne sugge;
a più lumi s’aggira e un sol lo strugge.
non fu ’l suo amor, com’ei fu solo il mio?
Cesare ne la reggia è fido sposo.
licenza militar, con l’altre leggi
anche quella d’amor tace e si obblia.
(Si fomenti in costei la gelosia).
(Smanie d’alma fedel, purtroppo, o dio,
me ne foste presaghe). Intendo, intendo;
la segreta cagion del suo dolore
è la sua infedeltà. Mesto egli riede,
e fugge questa reggia, ov’ei mi diede
che con la mia pietà mi è forza offrirti
l’opra mia a tuo sollevo.
a quel verme letal che il sen ti rode.
Qual arte giunge e qual potere a tanto!
Di pregiato liquor sol una stilla.
de la sua libertà mel diè poc’anzi.
Uso ne feci e non indarno. Un sorso,
ammorzerà quel mal concetto ardore
che al suo dover lo toglie ed al tuo core.
non ravviva per sorsi. A nuova vita
può richiamarlo pudicizia e fede.
a quella man che può sanarlo.
ove augusto ci attende; amante e sposo
me lo diede e mel serbi amor pudico.
(Non fia sempre a’ miei voti il ciel nemico).
dirai che a’ passi miei diè l’ali amore.
Ah! Tua bontà sia fausta a’ voti miei.
ch’Engelberta son io, ch’Ernesto sei.
Mal cominciasti. Io mi credea
che, se non la mia gloria, il braccio almeno
di un cesare vicin frenar dovesse
del tuo letto custodi, e a te lo giuro.
e l’offesa e l’ardir; questo è ’l mio affanno
più del gastigo il fallo. Esser dee tale,
in chi ben si ravvede, il pentimento.
(Se ingannata mi crede, io son contento).
più la bontà del mio signor che l’ira;
ch’egli in me trovi un reo, un ingrato, ah questo,
(M’intenerisce). Ernesto,
qui mi scordo il tuo error. Per me non fia
tuo giudice il mio sposo. Usa di questa
generosa pietà, s’ella ti è cara;
e da la mia virtù virtude impara.
(Deludasi l’incauta). Ah! Col mio errore
che ne fu lo strumento. Agli occhi miei,
perch’io più mi confonda, egli si renda.
No. Resti a me, non testimon del fallo
ma pegno del rimorso e de l’emenda;
(Giunge il sovran, l’arte or mi giovi). Al cielo (Alzando più al solito la voce)
ne rinnovo la fé. Mai non fia vero
ch’arda d’impura fiamma il cor di Ernesto.
Un suddito dover così rispetta
di Engelberta nel sen l’onor d’augusto.
Sposo, signor, pur mi ti rende amore.
Pur d’un lungo languir... Ma qual mi accogli?
(L’infedel! Ma si finga). Addio, Engelberta.
Addio Engelberta? Ov’è di sposa il nome?
Ove il piacer di rivedermi?
(Ingrata). (Verso ad Ernesto)
abbia Ernesto; ei n’è degno. Io non mi offendo.
Ma ch’io turbato in lor miri il tuo core,
se non è mio sospetto, è mio dolore.
(Frena l’ira, o signor). (Piano a Lodovico)
(Ti sento, o gelosia. Tornò ma infido).
Sposo, siam soli. In libertà poss’io
d’una ria lontananza a te, mio bene,
Han le pene amorose in cor di donna
Sì, s’ella è moglie e moglie augusta.
Sensi di gran virtù. (Con ironia)
So, me lontan, quanto penasti amante.
le fatiche, i perigli ed or son miei
Fede ugual fosse in te; ma quel sembiante
gli uffici tuoi, sinch’io pugnai fra l’armi?
(Qual favellar!) Dopo il mio amor, le cure
pubbliche dell’impero e ’l fido Ernesto...
degno sostenne ognor le veci. Ernesto....
L’indegna fiamma e ’l vile
disio mi è noto e già la pena è pronta.
(Il seppe). Un cieco error talvolta al grado
Colpa, che fu segreta, è assai men grave.
È pubblico l’error, se offende un soglio.
Il testimon di un foglio.
(Tutto è palese). Al cieco ardir si oppose
Pentimento sincero assolve i falli.
Il non poter fallir non è un pentirsi.
Spera pietade un cor che a te fu caro.
Perché caro mi fu, più reo lo trovo.
è dovuta la pena anche a l’idea.
per maturar la pena) i voti miei
pubblicare il destin di chi mi offese
Per ora io non l’assolvo e nol condanno.
a la mia fé nulla rispondi?
si confessa infedele e vanta fede?)
con altre fiamme in seno.
mi tradisce, lo afferma e pur mi accusa).
Va’. Sdegnoso ti fingi e sotto l’ira
l’incostanza nascondi, anima ingrata.
Già m’è noto il tuo core.
Va’ del tuo fallo altera, iniqua donna,
se un tenero dolor chiama in soccorso
Per farmi sventurato, altro non manca
che il tuo assenso sovran.
il suo destin. Pur rasserena il ciglio;
ed in tuo pro quanto mi lice attendi.
Se ho da te un sì gran ben, vita mi rendi.
Senza veder Metilde? O dio! Non posso.
A lei portar, prender da lei degg’io
l’ultimo mio sospir, l’ultimo addio.
(Moro di duol). Mia principessa, io parto.
Forse il mio volto, parla,
di Bonoso a le luci oggi è molesto?
Il duce è mio rival. (A Metilde)
Che importa questo? (Ad Arrigo)
Metilde, un de’ tuoi sguardi è la mia sorte.
No, qui trattienti. (Di nuovo lo ferma)
e perderti non sa senza morire.
Questo è troppo favor, quel troppo ardire. (A Metilde e poi a Bonoso)
Ascolta, io son la rea. (Ad Arrigo)
La sua speme, il suo amor mia colpa fassi
né l’avresti rival, s’io non l’amassi.
Per me parlò Metilde; a lei rispondi.
Cessin le gare e l’ira; e la presenza
di vergine real meglio rispetta.
Le condanni Metilde e qui le cedo.
Non fa la sorte il merto. In minor grado
Io degno non ne son? Bella, perdona;
qui t’invito con l’armi e là ti aspetto.
Vieni re qual io sono e alor t’accetto.
e men... Dir lo potrò? Sì, meno amante.
Qual tiranno pensier? Dir puoi d’amarmi?
E volermi infedel? Bramarmi ingrata?
Mio rossor, mio tormento è la tua fede,
perché ti ruba al soglio. Ah! Credi, o cara,
che non senza dolor questa ti lascio
spietata libertà de’ tuoi affetti.
Sì, cessa pur d’amarmi e se fia d’uopo
agli odi tuoi, se vai con essi al trono.
Fido m’ami il tuo cor, questo è ’l mio regno.
Taci; la mia virtù tanto non chiede.
Io trionfo di lui, perché più forte.
Più ’l tuo ben che il tuo amor cercar degg’io.
Non più, cara Metilde, addio.
Parte da me il mio bene e mi dimanda,
in premio di sua fede un tradimento.
Ma non fia vero; ovunque ei volga il passo,
seguirallo il mio cor. Saremo entrambi
duoi prodigi, io di fede, ei di valore,
duoi esempi, ei di zelo ed io di amore.
Qui, Otton, qui l’infedel di un solo sguardo
L’egro ch’ama il suo mal, pietà non merta.
Sposa non mi chiamò. Que’ dolci accenti,
non uscir dal suo labbro e in lui trovai
Lodovico bensì ma non l’amante.
mirar quel che tradì, già caro oggetto,
Chi mai detto mi avria, cesare ingrato,
ch’io dovessi penar con più di senso
ne lo stesso piacer del rivederti?
Se ricusi il rimedio, a che dolerti?
Dacché m’odia il crudel, qual più mi resta
Ch’egli torni ad amarti e vegga il torto.
E non m’inganni, Otton? Puote una stilla
spegner nel mio signor gl’impuri affetti?
E renderlo fedele a’ tuoi desiri.
rendermi un ben che io meritai con fede.
Sempre il merto non ha la sua mercede.
E gioverà. Pentito ed amoroso
vedrai solo a’ tuoi lumi arder lo sposo.
tu, che la inspiri a me, tu la difendi.
ad un’alma fedel la gelosia.
D’irreparabil morte è ria bevanda.
Ottone, o dio! Se la gelosa augusta
previen le trame e al credulo consorte
Nel sollecito oprar tutta consiste
tradimento accusar l’augusta donna?
La fingesti impudica; ed hai rimorso
di fingerla omicida? Il primo eccesso
ti convenia temer; ma nel secondo,
cerca la tua discolpa e la tua pace.
de la mia debolezza io t’apro i sensi.
Non ho pace, non tregua. A la vendetta
amor che, come face appena spenta,
presso l’ardente fiamma, in me rinasce.
Qual fiamma appunto egli è di augusta il core.
quanto può in alimento al suo furore.
Già la spero pentita; idee sovente
pena temuta a nove colpe invita.
Negli applausi, che diede a’ miei trionfi,
Dopo il tuo onore insidia a la tua vita.
ad un tosco letal l’empie speranze.
Ma de la trama onde l’arcano avesti?
a fida ancella il conferia. Fu meco
presente Otton; n’ebbe orror meco e vide
il vaso e ’l luogo, ov’ella chiuse il tosco.
(Quando si udì maggior perfidia?) Ottone,
M’empie ancor l’alma, o sire,
E dove ascose il rio liquor, ti è noto?
Spinto dal zelo mio, con piè furtivo
ne le sue stanze osai seguirla e ’l vidi.
Va’ tosto e qui mi reca il mortal vaso.
del giardino real l’aure respira.
fa’ che il velen sopra il rubello Argonte
del suo poter mostri gli effetti e l’opra.
Chi punir dee la frode, il ver ne scuopra. (Parte)
genio mio tutelar, vanne e mi attendi
ne le contigue stanze. Uopo è ch’io resti
sol col mio affanno in libertà di sfogo.
Compatisco i tuoi casi e col mio sangue
ripararne vorrei la pena e ’l senso.
Cor del tuo più leal mai non si vide.
Mio dovere e mia gloria. (Il ciel mi arride).
a quell’amor che ti fe’ augusta? A quello
Tu per me sì sleal? Tu sì spietata?
E ’l frutto de’ miei doni è ’l farti ingrata?
Interesse del cielo è la tua vita.
(Certo è l’error). Sul contumace Argonte
perdé il misero i sensi, i lumi chiuse
e finì con la vita i suoi spaventi.
Vien Engelberta. Il tutto taci e parti.
qui mi trattiene inosservato).
Con qual volto ella vien? Con qual riposo?
con qual temerità diran: «Mio sposo».
Sposo adorato e caro, ah! perché mai
giugne or a te sì mal gradito, ei ch’era
la delizia e ’l piacer? Di’, perché mai?
A te stessa il richiedi e lo saprai.
Ch’io ’l chieda a me? Per esser giudicata,
di tua giustizia al tribunal mi appello.
quel che sfuggir non puoi.
che più vede e più sa la mia innocenza,
quel faccia nel tuo cor la mia sentenza.
questo liquor? Lo riconosci?
che diemmi Otton, come in poter d’augusto?)
di tua malvagità ravvisi il pegno?
Onesto è il fine e fien malvagi i mezzi?
ne le tue stanze a che serbar?
audacia ancor sen vanta?) E chi un disegno
Non più, se’ da te stessa
in Engelberta una fedel consorte,
perché vuol la tua fé?...
Sei rea di morte. (Parte)
perdon si niega, anche il più reo paventi.
sì tranquillo quest’aure? Ernesto, vedi
la mia bontà. T’invola al colpo e parti.
Di tua bontà mercé ti renda il cielo.
ritrarre il piè ne le tue stanze. In questi
(A sospettar comincio). E a te s’impone
Da un cesare oltraggiato.
E ne adoro il voler; ma pria...
non lasciar che l’indegna a me si appressi.
L’ire accresce l’indugio. (Ad Engelberta )
E fido appelli... (A Lodovico)
giugne opportuno). Amico.
mi toglie a’ tuoi favori; uopo è ch’io parta.
E lascerai la tua Metilde?
di cederla al rival, purché ella regni.
(Venga Metilde). E sei sì generoso?
Tanto puote l’amor, quando è virtude.
ti resta la mia fede. Io te la giuro.
E ’l giuramento accetto. Or meco fremi
pria d’orror, poscia d’ira. Evvi chi offende
Empio voto! Ardire infame!
Vuol da te l’onor mio, vuol la mia vita
scampo e riparo. E del valor, del zelo
fia ’l testimon de la sincera offerta.
Da la rea. L’infedele a me poc’anzi
confessò la perfidia e ’l tradimento.
de’ miei torti il rossor. Dove più folto
sorge il bosco vicin, sola ti siegua.
Del suo finto dolor, de’ vani prieghi
sappia che il colpo è mia vendetta.
Sì, da quel fido acciar trafitta cada.
a la destra ed al sen, questa è la strada.
Metilde, io so qual fiamma
strugga il tuo cor. Non arrossir. Bonoso
de le tue brame è nobil meta e degna.
Applauso tal de’ miei affetti è gloria.
qui gli confido e la tua man li giuro.
Tu affretta il suo valore. Usa un consiglio
che può far te felice e lui contento.
So ch’è facondo amor. Tu qui l’ascolta. (A Metilde)
servi al cor di Metilde e a la tua speme.
le sue gioie e le mie mira Bonoso?
meglio conosci e più ti muova omai.
Qual sia ’l tuo cenno, anima mia, non sai.
Né tu sai cosa è amor, se qui più resti.
Perch’io nol son, tale mi chiami.
Lo so. Mel disse il cor. Tu più non mi ami.
Vedi s’io t’amo, o bella. A costo ancora
del mio dolor, vado a ubbidirti. Addio.
Vanne. Il premio ti affretta e torna mio.
Dirò: «Vieni, mio ben; vieni, mio sposo».
(Onde sì tardo ad acquistarmi?)
ma tornerà di te, sua cara, in breve
di un amor temerario il volo arresti.
Pensi al suo grado e onori il mio.
Non ti spaventi, Arrigo, il suo rigore.
vile amor puote alzarsi ed esser caro.
Alfin che pro? Così dal sol chiamato
sorge il vapore al ciel; ma sorto appena,
sente in cader de l’ardir suo la pena.
Mi seconda la sorte. Il tutto intesi.
Augusta è condannata; e qui dal ferro
di Bonoso ella dee cader trafitta.
vi chiamo a parte. La superba cada
importuna pietà su l’altrui braccio
sospenda il colpo, a voi l’onor si dia
di compir l’opra e la vendetta mia.
qui mi chiama un comando. Ombre romite,
taciti orrori, solitarie fonti,
sin che del mio destin giunga il momento,
nel suo torto temé le mie querele.
del mio sposo e signor qui attendo il cenno.
Dolente il reco e ne fa fede il volto.
del suo sovran mai non adempie i voti.
chiedessero al mio braccio un atto vile?
L’alto comando ogni viltà gli toglie.
chiedessero al mio braccio un colpo iniquo?
(Che mai sarà? Quel favellar confuso
mi è nuncio di sciagure). Esponi omai
l’ancor dubbio tenor del mio destino.
(E ’l potrò dir?) M’impose...
a te ubbidire, a me soffrir. Non tolga
né in te vana pietà né in me vil tema.
e moglie e serva anche ne l’ora estrema.
(Prova è d’alma innocente alma sì forte!)
Ma di’, per qual delitto ei vuol ch’io mora?
O mi discolperò, s’ei rea mi crede;
o mi condannerò, s’ei rea mi chiede.
e ti oppone il velen. Tal ne l’onore
oltraggiato lo avresti e ne la vita.
Duce, io sono innocente e son tradita.
Del tosco, ond’ei m’accusa, Otton ne renda
fede e ragione; e dagl’impuri affetti
pietà, pria mi trafiggi e poi lo reca
non dubbio testimon di mia innocenza.
Tanto a te giuro e ne ricevi in pegno
la mia pietà. Darti di più mi è tolto.
Né ti chiedo di più. Vieni e la dura
Resti in esso sepolto un atto ingiusto,
di Lodovico ingiurioso al nome.
né ti arresti il saper ch’ebbe in lui vita
quella Metilde, a te sì cara e solo
dal mio comando a te contesa e tolta.
Vendica in me de la ripulsa il torto;
fieno le caste membra, ivi le lascia
levane il cor. L’abbia il mio sposo; il veda
candido e puro e d’un sospir l’onori.
al mio tiranno e al mio uccisor perdono...
Timida che mi fugga il caro bene,
non è sempre il più caro il più importuno.
E importuno tu chiami il più fedele?
Gli affetti tuoi da questa fede assolvo.
Odiar chi t’ama è crudeltà, o Metilde.
Amar chi t’odia è stolidezza, o Arrigo.
Col voto della madre, amo la figlia.
Nieghi la figlia il suo, l’altrui che giova?
sia di augusto un comando ed io l’accetto.
(Speri il superbo e quell’assenso ei tenti
che Bonoso già ottenne. Oltre il costume,
T’intendo, ecco a te viene il tuo diletto).
Spirò pur l’alma infame e del reo sangue
ne stilla ancora il punitor mio brando.
or sarà tua conquista e tua mercede.
Sarà eterno l’amor che ti giurai.
Non dirai più così, quand’il saprai.
quel colpo che sol dee renderti mia.
Sì, mio fedel. Nel seno di Engelberta
punita avrà l’infamia e ’l tradimento.
(Qual freddo orror m’empie le vene e l’ossa?)
mira la mia vendetta e a me fa’ core,
a me che l’empia donna amai cotanto.
saper ch’io la cagion sia del tuo pianto.
Sire, è vero; spirò sotto il mio ferro
l’anima scellerata e ’l cor fellone
(Infelici mie furie, io vi detesto). (In atto di voler partire)
Fra gli orrori lasciai di cieca selva
degno di aver per tomba il sen de’ mostri.
la speme ai prieghi, alle discolpe il tempo.
Rigor che assicurò le mie vendette.
(Qui è periglio o tormento ogni dimora).
No, non partir. Tutto non dissi ancora.
favor estremo all’infelice. In questo
foglio i suoi falli e l’altrui fé ravvisa. (Porgendo a Lodovico la lettera di Engelberta)
che attender posso? Un pentimento? È tardo.
Tanto a me dona, io te ne prego, o sire.
Ti si compiaccia. Ecco già l’apro e ’l leggo. (Lo prende e l’apre)
Deh! Sommi dei! Che veggo!
cui sian dirette e qual ne sia l’arcano?
Or tel rammento; ascolta.
o convien che divampi o che mi strugga.
Ardo a’ tuoi lumi e pietà chiedo o morte.
Qualunque sia del tuo voler la legge,
regno, o bella, non hai di quel di Ernesto».
(Nieghisi tutto. Il mio periglio il vuole).
Tu sì fellon? Tu l’empie brame, Ernesto,
alzare al disonor sin del mio letto?
per cent’opre è palese. Odio e livore
cercano di annerirla. Ah, ne dilegua
tu l’atre nebbie e l’impostor confondi.
Ma questo foglio chi vergò? Rispondi.
Invidia a’ danni miei troppo ingegnosa.
Tu per augusta impuri voti in seno
concepisti, o sleal. Tu l’empio foglio
da la ripulsa. L’accusasti. Ottone
ne fu complice teco. Il rio liquore
fu inganno suo ma tua calunnia.
in faccia del monarca e delle genti,
col ferro in mano io sosterrò che menti.
Di tua perfidia è chiara prova il foglio.
ne’ dubbi casi è sol permesso.
vuol l’onor tuo che si sostenga in campo
l’onestà di Engelberta e l’innocenza.
punirò la tua accusa e ’l tuo ardimento.
Concedo il campo ed a la pugna assento.
sia l’impedir ch’egli non fugga. Duce,
l’innocenza mi rendi e non la vita.
O comando crudel. Barbara fé!
va’, le raccogli, ond’io le onori almeno
di degno avello e poi su loro esali
la tua pietà. Sai che vivendo augusta
si anticipò la tomba. Io là poc’anzi
ripor ne feci i sanguinosi avanzi.
E là mi chiama il mio dolore, o dei.
e dannarla a morir come potei?
tu meriti i miei sdegni, alma spietata.
Su, compisci l’opra e uccidi
dopo la madre anche la figlia.
lo prezzo del misfatto? Al parricida
No, darò prima ire, vendette e quegli,
che ’l tuo capo e ’l tuo cor mi rechi in dono.
Tuo stimolo fu ’l colpo e reo non sono.
di mia semplicità. Voti innocenti
che accresce le mie pene il rimirarti.
Tu mi amasti, o crudel? No, che avria amore
nel seno di Engelberta anche il mio core.
Metilde, appunto io ti chiedea.
a me giugni opportuno. Io ti dispenso
per le mie nozze dal cesareo assenso.
Bonoso, tuo rival, mio parricida.
strigni l’acciar, pugna, trionfa e t’amo.
Non compro rischi e disonor non bramo.
la chiarezza del mio né portar voglio
la figlia di Engelberta in sul mio soglio.
A torto offendi un nome...
rinuncia a le tue nozze. Or sia Bonoso
per grado e per virtù tuo degno sposo.
Infelice Metilde, amante e figlia!
la speme che mi resta è una vendetta
che mi faccia più misera; il dovere
in onta de l’amor me la consiglia.
Infelice Metilde, amante e figlia!
Vedi, signor. L’ultima pompa è questa
Vacilla il passo e gir non osa il guardo,
ove lo chiama un disperato amore.
Se nol vede Engelberta, e chi mi assolve?
e perché sia maggiore il pianto e ’l duolo,
in braccio a’ mali miei lasciami solo.
poiché giugner non puote il mesto pianto
a richiamare in voi l’alma smarrita,
deh! soffrite che imprima in su quest’urna
il mio povero amore un bacio almeno.
le tombe han vita?... Ove son io?... Che miro?...
che tua direi, se tua più fosse; miri
che condannasti a morte e che, fra questi
più che ne la tua reggia ha ’l suo riposo;
quella miri, empio mostro, iniquo sposo.
È gioia? È speme? È error? Sogno? Traveggio?
Non sogni, no; de la tradita moglie
queste son le sembianze. Essa ti parla,
essa che un empio, un traditor ti chiama.
E tal tu vieni a la mia tomba? Ancora
qui de l’anima mia turba la pace?
Falso il mio pianto? Ah! S’egli è ver che ’l core
Già ’l vidi. Un cor che cieco
mancò a l’amor col non udirlo, un core
che complice si fa del tradimento,
È ver; ma ’l mio dolore è tua vendetta.
Duol che l’onte non toglie, accresce l’onte
e pena gli si dee, più che perdono.
Parti; né più ti vegga un’alma offesa
Con l’odio di Engelberta?
rispetto insegni e non audacia a’ rei.
Il tuo amor, la mia fé toglier dovea
a te il sospetto, a me il periglio. Vanne.
Ti plachi il sangue, ove non giova il pianto.
che sia l’alma infelice, a lei tu almeno
né ricusarle un dolce sguardo, in segno
se a quest’ultimo voto almen consenti.
l’odio mio, vivi, o sposo. Un sì bel nome
Vanne. Augusto e marito, a l’innocenza
e l’onor tuo ne l’onor mio difendi;
poscia il perdon, se pur lo brami, attendi.
Sì, la vendetta avrai; l’avrai dal ferro
l’avrai dal mio dolor, da la tua fama;
e vivi sospirando; ad Engelberta,
piace il tuo pentimento e la tua vita.
Affetti miei, qui trionfar vedrete
de la madre l’onor, qui de l’amante
E qui a Metilde, o bella,
la gloria d’esser mia render io voglio.
La figlia di Engelberta in sul tuo soglio?
fortuna è de la figlia. Un certo grido,
che innocente la fa, qui mi richiama
Chi una volta ne uscì, più non vi rieda.
qui comando al mio sen che nol riceva.
Questo è campo di pugna e non di amori.
la vita di Engelberta; e al tuo valore
confido l’onor suo, confido il mio;
e l’amor di Metilde è la tua speme. (Va a seder nel suo posto)
Vinci; ma nel tuo sen difendi ancora
di me la miglior parte, idolo mio.
Tempo è di pugna e non di vezzi. Andiamo.
lo vincerò, Metilde. Un sol tuo sguardo
Ti arrida il ciel, come ti arride amore. (Va a sedere)
l’onestà di Engelberta e la sua fede,
e la destra e l’acciar. De la vittoria
il premio sarà mio, vostra la gloria.
cieco furor? Tutto l’inferno io chiudo.
Che fai? Cerchi il nemico? In me lo vedi.
Al cimento la tromba omai ti sfida. (Suonan le trombe in segno di combattimento)
e col ceffo peggior de’ suoi spaventi.
Quali smanie? Ove vai? Questo è ’l nemico. (Bonoso si mette in atto di combattere. Ernesto lo guarda attento e poi torna alle prime sue furie)
Le furie? Ove m’ascondo?... È ver... Tentai
Parla il suo fallo. (Verso Lodovico)
Dov’è il mio cor? Ma veggio Otton. Di’, giunse
l’ingegnosa calunnia a Lodovico?... (Verso una delle guardie)
Il foglio mio, deh! rendimi, Engelberta;
Prevenirò le accuse. Ottone, Ottone,
e tu dalle un veleno. Or son contento.
Non più, confessa il torto o qui ti sveno.
o solo per pietà passami il seno. (S’inginocchia dinanzi a Bonoso e getta la spada)
ben custodito al suo supplizio infame.
O quanti mostri! Io vi ravviso. Siete
la calunnia, l’inganno e la menzogna;
O non v’è più Cocito o l’ho nel petto. (Ernesto parte tra le guardie e Lodovico scende con gli altri dal suo posto)
rendimi l’amor suo. Vive, Metilde,
ma non vive per me la dolce sposa.
dopo sì gravi offese? Onde, Metilde,
più chiaro è l’error mio.
a la mia crudeltà? Né questo è inganno
Sposo, abbracciami pur, che tua son io.
Al tuo amor la serbai. Trafitto cadde
Otton nel bosco, ove l’insidie ordia
contro Engelberta e nel cader l’arcano
svelò de l’impostura e l’empie frodi.
Eccone la mercé. (Mostrandogli Metilde)
Ingrata esser potrei? Dal tuo soccorso
Metilde, a lui porgi la destra.
Vendicato son io, poiché ti veggo
Con l’innocenza oggi trionfa amore.
Con l’innocenza oggi trionfa amore.