Popoli, in breve età, quanti monarchi
vi tolse invida parca! Unningo giacque,
per cui l’Orse natie fur più temute.
Torilda a lui consorte, a me germana,
che con virtù tenne due lustri ’l regno,
con le ceneri sue, quelle di Unningo.
prima sposa di Unningo, a lui fu madre.
al cui zel fu commesso il regio erede,
di sua morte immatura a voi fa fede.
Or che vedovo è il trono, il re voi siete.
date al soglio un monarca. In Roderico
a me lice proporlo, a voi gradirlo.
al gotico destin legge e consiglio
di Olao il nipote e di Torilda il figlio.
(Nel regio amante il mio destin pur gode).
(Dove applaude il timor, l’applauso è frode).
Roderico, nipote, i detti serba.
Non l’hai da me; l’hai dall’amor di questi
che tuoi gli rende il loro dono augusto.
che il ciel la Gozia alla Norvegia unisce,
che provocar l’armi comuni or tenta,
tema il suo fato e del suo ardir si penta. (Al suono di trombe e timpani resta coronato da Olao Roderico)
al legitimo re nega quel serto).
(Gli dà fregio il diadema. Ahi, Sigiberto). (Roderico s’avvicina al suo trono)
Popoli, duci, io vi precedo e giuro
immortal vassallaggio e fé costante.
Asmondo, nel tuo zel leggo il tuo amore.
(Finge così, quando ben serve un core).
sire, al tuo fato e a te dal cielo impetra,
in durevole impero, anni felici.
Regal germe di eroi, bella Ildegonda,
sono i tuoi voti i miei più cari auspizi.
(Un novo regno in quel bel sen sospiro).
(Più che al suo core, al suo diadema aspiro). (Si ritira)
gioia e splendor, sire, al tuo novo impero.
Già del gotico ciel l’aure respira
tua illustre sposa. Al nodo eccelso applause
è il suo regio natal, la sua grandezza.
non ha che il gentil volto. Il core e i sensi
solo l’eroe dov’ella pensi ed opri.
che la Sarmazia arda ora teco in guerra,
seco vien di guerrieri armato stuolo.
Maggior n’arma la Dania; e per te in breve
sotto peso maggior la terra e l’onda.
Prence, Olao strinse il nodo e Olao risponda. (Scende dal trono e fa lo stesso Olao)
Amico Sigiberto, o se al tuo brando
il destino dell’armi o se al tuo seno
della corona il grave affar s’affidi,
sei del gotico regno e braccio e mente.
ferma il diadema a Roderico in fronte.
l’alta donzella all’imeneo felice.
resti dell’armi il sommo impero; e in breve
stenda l’invitto oltre il sarmazio lido
del suo valor, del poter nostro il grido.
Sire, l’onore è assai maggior del merto.
(Forza è ch’odi un rivale in Sigiberto).
(Su l’altrui tempia ancor vedrò quel serto). (Si parte)
questo esige da te primo dovere,
che si sveni ’l tuo affetto al mio piacere.
ma più ingiusto è l’amor che in me lo desta.
Di quale amor, dacché è regnante e sposo,
Di quel che m’arde in sen per Ildegonda.
Gli eroi, qual Sigiberto,
altro oggetto non han che la lor gloria.
altro impegno non han che la lor fede.
E chi per Ildegonda a te la diede?
tu da un re successor spera altri premi.
poiché mi neghi i meritati...
chi ti parla conosci. Ove ho la reggia
rival non soffro. Di un regnante il voto
si riceva in comando e si ubbidisca.
Si ubbidisca il comando, o Roderico,
da chi suddito nacque; io, di te al pari,
fuorché da Sigiberto, e le ha più giuste.
sia di amori e di glorie a te feconda.
Qui sia re Roderico e sua Ildegonda.
di nobil alma. Andiam; ma pria si cerchi
desio di regno o fedeltà di amore.
Perché non sei di Sigiberto un dono).
reggia un tempo a me cara ed ora ingrata,
l’ultimo addio prender convienmi. Cedo,
più che al destin che mi è nimico, a quello
che ti chiede regina e ti vuol grande.
tal riede Sigiberto? E questa arreca
al mio tenero amor gioia crudele?
(Cor d’Ildegonda, io ti vorrei fedele).
Un felice rival non ben si soffre.
Sigiberto ha il mio core.
con più liberi sensi. Invan t’infingi.
Già col desio scettro possiedi e stringi.
Sa il cielo, il sa quest’alma, il sai tu stesso
coronato di lauri il core eccelso,
godei che tu mi amassi e s’io ti amai.
quasi onda a scoglio si dibatte e frange.
già fu degli avi miei lungo possesso.
Tu ancor l’avrai lor figlia; e già t’inchina
Sigiberto in un dì sposa e regina.
Deh, perché non poss’io di Gozia al trono
il talamo anche unir di Sigiberto?
esca pur del tuo seno. Un cor diviso
a me fa più d’orror che un cor nimico.
Mal vi stan Sigiberto e Roderico.
Sceglie appena il desio che allor si pente;
e il miglior si figura in quel che lascia.
gli toglie anche il piacer di quel che ottiene.
Questi del goto impero, a cui mi tragge
un reale imeneo, son pure i lidi.
Come appena vi fermo il piè sovrano,
che l’alma il frena e ne condanna i passi?
con rimorso e con tema. Ah, non intendo...
il noto grado e il chiaro nome onoro.
col labbro mio ti espone. A’ nostri numi,
poiché salva giungesti, altro non chiede
fermargli su la fronte il suo diadema.
Se il sostien la ragion, nulla si tema.
Quale ragion? (Ma taci, Asmondo).
(A Regnero si giovi). Armato il zio,
trasse il nipote al soglio, è ver, ma...
Lice il temer? Già Roderico è grande.
l’amor de’ suoi, troppo ha vicin l’inciampo.
Manca l’amore a chi già regna? E regna
ciò che si soffre. Ogn’impotenza è freno.
Non son vassalli a Roderico i Goti?
loro nel seno antica fede impresse.
In ogni core ha il trono suo Regnero.
Lieve guerra può far rivale estinto.
Tronco favelli! Asmondo, parla.
che innocente ti lasci il mio tacere.
Vien, regina, a regnar, vieni a godere.
Svela gli arcani; io la mia fé ti giuro.
(Regni ’l mio prence). Odi, gran donna. Vive,
il gotico monarca. Un fido inganno,
per sottrarlo a’ perigli, estinto il disse.
L’arte fu mia. Di Olao, di Roderico
già scuoto il grave giogo; e per Regnero
si dichiara il mio amore. Ei vive. Almeno
se al suo regno, al suo nome, alla sua vita
è crudele il destin, nol sia Svanvita.
(Or sì v’intendo, oh stelle). Ove soggiorna?
In quel monte, in quel tetto ha la sua reggia.
Tosto a me il guida. Al re de’ Goti, Asmondo,
Regnero sia, non Roderico. A lui
dee la Dania quest’armi. Io il vo’ sul trono.
a lui sol porgerò, forte e pietosa,
pria la man di guerriera e poi di sposa.
Servasi al giusto. A Roderico io tolgo
quella parte di me che il mio dovere
mi avea rapita. Sigiberto.
L’eroe maggior che stringa
ch’io serva a Roderico. Io parto offeso
e il mio torto è comune anche a Svanvita.
per non esserne a parte. Io sarò teco.
servir la sconoscente? Amar l’ingrata?
Ingrata e sconoscente? Ella che in Dania
mi giurasti fedele al tuo bel foco?
Ildegonda è il suo ardore.
solo il suo amor; ma in te, regina, è offesa
la tua fé, l’onor tuo, la Dania intera.
Veggio l’offesa e l’offensor ne pera.
Co’ duci tuoi meco t’invito all’opra.
che salva la tua gloria. Odi e risolvi.
Della Gozia Regnero è il solo erede.
Ei vive. Io so che hai core; io so che hai fede.
Ho fede, ho cor. Regni, se vive.
il valoroso ardir. Meco quel prence
sarà fra poco. Alle tue schiere intanto
porta il nome reale. Io nelle mie
spargerò la pietà, l’onta, lo sdegno.
A’ Goti il lor monarca oggi prometto.
Ed io per lor giuro al monarca il regno.
Scende Regnero. Il cor, che in sen mi balza,
forse teme in que’ rai le sue ferite.
che la mia povertade è un’innocenza.
forse cortese il ciel segna le mete.
Mai ciò che piace al ciel non è sciagura.
Quel regio aspetto e quel gran cor mel dice.
la Dania intera, a cui la Gozia...
del nome il merto e la beltà del volto.
(Tel predissi, mio cor; non sei più sciolto).
mi aspetti e vendicata. A Roderico
goda il suo amore e in me lo tema; e dica
ch’io venia sposa e giungerò nimica.
(Ch’odo! Ildegonda). Ubbidirò. Tu intanto
Risponde la vendetta a chi mi accoglie
Regna; ma non è tale. Hanno i miei voti
altre speranze, altro sovrano i Goti.
(Egli si asconde). Ignoto
a queste spiagge è di Regnero il nome?
Noto ma senza pro. Morì quel prence.
(Prudente ancor diffida). E tu, chi sei?
Parlan le spoglie, onde mi vedi involto.
Eh, le spoglie talor smentisce il volto.
virtude e nobiltà. Di un sangue augusto
l’onor già leggo in quel rossor sincero.
Parla; ardisci; abbi fé. Tu sei Regnero.
Regina, poiché in me di lui non resta
io lo tacea per mio minor cordoglio.
tutto mi tolse. A me pendea sul capo
che per cenno real mi custodia,
cauto me n’involò; morto mi finse
per serbarmi, felice, un giorno al trono.
La mia sorte, i miei danni e il viver mio
a Svanvita fidai. Regnero io sono.
E ben tutto fidasti. Or quanto tacque
a una fuga onorata il tuo soccorso?
credute avrei le mie grandezze infami.
Poteano armarsi i tuoi. Fidi ti sono.
Amo il sangue de’ miei più che il mio trono.
Marte ad Astrea. Giova allo scettro il brando.
piacque regnar su l’alme e il lor diadema
cercar più nell’amor che nella tema.
E nell’amor si cerchi ’l tuo. La Dania
della Gozia la fede. In Sigiberto,
che già prevenne a tuo favor le schiere,
ti prometto un campion. Donna è Svanvita
ma donna tal che fia tuo scudo e tale
che già scema le glorie al tuo rivale.
mi rimanea la libertà dell’alma;
oggi la perdo ed è mio fregio. Accetta,
vergine illustre, il sacrifizio e il voto
che tua virtude e tua bellezza onora.
E l’accetta Svanvita, (E s’innamora).
resti con te. Dal mar trarrò sui lidi
le forze nostre; e là ti attendo. Addio.
Ah, non senza un sospir partir poss’io.
quella che di regnar speme sicura
oggi mi nasce in seno. Un voto solo
mi resta e voi lo secondate. Meco,
se ho da regnar, regni Svanvita ancora,
in cui quest’alma un’opra vostra adora.
Minaccia, ch’è lontana, è lenta o breve.
Chi con l’odio è vicin non è mai lunge.
Temasi il disonor, se non il danno.
che d’ingiusto ti accusa o almen d’ingrato.
Solo non è chi può dar legge all’armi.
Prima legge de’ Goti è Roderico.
Ma primo amor dell’armi è chi le regge.
Cotanta gelosia d’un brando solo?
Spesso in man di un eroe val molti regni.
Esser può finto il volto.
nunzio infelice. Offesa e vendicata
Per Roderico d’Ildegonda amante,
sua nimica verrà, non più sua sposa.
Non nego amor sì bello e nol discolpo.
provvede a’ tuoi sponsali? È poco saggia
di Sigiberto il duol. Giusto è lo sdegno
di Svanvita. A placarlo io volgo i passi.
Rendi al duce il suo amor. Rendi a te stesso
il comando di un zio, di un re il consiglio.
A me venga Ildegonda. E tanto irata
Colpa di amor. Si scorderà dell’onta;
lascierà la vendetta a’ piè del trono.
Sì lievi di quel cor l’ire non sono.
Ecco Ildegonda; ella vien mesta e solo
fa il nodo di Svanvita il suo gran duolo.
Maraviglia non fia, mio re sovrano,
se, a chi ’l cor ne possiede, il duolo è noto,
Compiango anch’io la tua sciagura. Un bene,
vedersi tolto e non sentirne affanno,
stupidezza saria più che costanza.
Giusto è il tuo senso; e necessario sfogo
a perdita sì ria non si divieta.
(Vo’ farla più gelosa e poi più lieta).
Non m’infingo, signor. Perder l’oggetto,
che fu gloria e piacer de’ voti miei,
pare un colpo per me troppo spietato.
Così volea l’ardua ragion di stato.
Non più pene, non più. Rotto è quel nodo
che da te, caro ben, mi dividea.
converrà di altro sposo. Il soglio e il letto
di Roderico a te comun sol sia.
Son tuo; sgombra ogni duolo, anima mia.
I rai del tuo diadema e del tuo affetto
dileguar ben dovean nubi sì fosche.
di lungo amor tu mi perdona. Ancora,
non si rammenta il cor di Sigiberto.
rese questa giustizia ad una vampa
che moribonda ancor fuma e divampa.
No, questa fiamma arda immortal. (L’ingrata...)
gl’incendi suoi sin sul tuo trono augusto.
Sforzo sì grande alla tua fé non chieggo.
l’invito ami del genio, in Roderico
A lui l’amor ti unisce, a me l’orgoglio.
è la gloria e il piacer de’ voti tuoi.
Vanne. Ancor gli dei qualche sospiro.
Per Sigiberto arde l’ingrata e n’arde,
con benefica man le spargo in seno.
Ah, facciamla pentir. Toglile, o core,
Il seguirla ad amar con cieca fede
è tua viltà, forse è tuo rischio ancora.
La punisca il suo esempio e la confonda;
e Svanvita succeda ad Ildegonda.
il dano Marte ed in Regnero addita
al soglio il successore, il re a’ vassalli.
serve, più che al mio fasto, alla tua fama.
E regnante ti vuol chi re ti chiama.
Qui gli arnesi guerrieri. E armato meco
al comando verrai. (Fa cenno a’ suoi danesi, alcuni de’ quali entrano nel padiglione)
Son leggi mie del tuo favor gli auspici. (Ritornano dal padiglione e portano la spada e l’elmo per Regnero)
la maestà di quella fronte augusta.
le magnanime idee questo t’inspiri
e questo le protegga. Il tuo diritto
tu col braccio sostieni ed io con l’armi.
che, tua mercé, sul capo mio risplenda
l’elmo al diadema ed allo scettro il brando.
Il mio valor tu sei. Sperate, o Goti;
paventate, o Norvegi. Il primo acciaro
della mia destra è di Svanvita un dono.
(E di quel bel primo trionfo io sono).
l’altrui sangue non già, non l’altrui pianto.
Ma se convien, se piace a voi che m’apra
sol questo acciar le chiuse vie del trono,
facciasi. Vi ubbidisco. Io già lo stringo,
stromento alle conquiste; e questo un giorno,
in atto umile all’are vostre appeso,
dirà che fu mia speme e poi mio voto.
che fia grato Regnero anche a Svanvita.
l’alto dover di un benefizio illustre.
(Godi, mio cor). Né t’obbliar regnando
del nome mio la rimembranza almeno.
Mai non si obblia nome ch’è scritto in seno.
Vanne dunque a regnar. Le sue fortune
già perdé il tuo rival. Quell’alma ingrata
del giurato imeneo distrusse i voti.
Al tuo piede, signor, che ben ravviso
nel ciglio il grado, ubbidienti e fide,
e della Frisia e della Gozia hai l’armi.
e stimolo di queste è Sigiberto.
Duce, il chiaro tue nome, il braccio invitto
Vieni al mio seno e ti risponda il core. (Lo abbraccia)
Ben si dee quel bel posto al tuo valore.
con esse il campo intero; e generoso
a’ torti di Regnero offre il riparo. (I goti abbassano le insegne a’ piedi di Regnero in atto di riconoscerlo per loro re)
Più dell’offerta il vostro amor mi è caro.
Che più si tarda? Impaziente omai,
chiede anche il campo il suo monarca. È d’uopo
la presenza real, perché sia lieto,
il pubblico desio, perché sia certa
(Piacer ch’è pena mia). Va’ e tosto riedi.
poca parte rimanga. A te consegno,
duce, l’amor de’ Goti (e la mia vita).
Non fia lungo l’indugio. Addio, Svanvita.
Quegli amor, questi pace. Ambi del regno
Da’ sdegni tuoi le sue grandezze io spero.
Regina, onde tant’ire? Ov’è de’ patti
la ferma legge? Armata vieni e sposa
contro la Gozia? E questi son gli affetti?...
E morte e guerra un che mi offende aspetti.
ch’escono da que’ rai, morte ma quella
che divampò per breve tempo e lenta.
E che il timor, non il dover ha spenta.
Comanda amor che al pentimento umile
di questo errore è colpa grave; e grave
delle minacce tue. Basti, o Svanvita.
senza colpir chi lo disprezza. È vano
cercar amori ed impetrar perdono.
Sposa non più ma tua nimica io sono.
(Già la mia fé vede Regnero in trono).
le nostre colpe e per punirle vieni.
Ch’io venga? Invan lo chiedi.
per comprarmi l’onor di là servirti.
Eh vieni. Vieni a far due re felici.
vieni sposa felice e gran regnante.
Qual talamo? Qual trono? E chi mi chiama?
Lasciar Regnero? No. Maggior contrasto
far non si può. Di Sigiberto alfine
mi assicura il valor, de’ miei la fede
Andiam. Ancor ti annunzio e guerra e morte. (Ad Olao e Roderico)
Tanta bellezza e tanto sdegno?
Ma qual campion con Sigiberto?
è il sommo duce, al cui gran braccio illustre
fidò la Dania il regal pegno e l’armi.
Mel disse il cor, pria che il tuo labbro. In lui
In fresca età merto sì grande? Attendi.
regge Svanvita il suo voler.
tieni ’l posto primiero e che Svanvita
Qui la guidasti alle mie nozze?
Or sdegnata è la bella. Non più sposa
ma nimica si giura. Amico, io bramo...
Taci, taci un tal nome. Roderico,
se Svanvita oltraggiò, m’abbia nimico.
gran parte dell’affronto e dello sdegno.
meco si regge, a una mortal vendetta
stimolarla degg’io, pria che al perdono;
e se la vuole, il primo a farla io sono.
non è più la mia fiamma. Essa riaccenda;
e l’esser dono mio più t’innamori.
vo’ sol doverla; e perch’io l’ami, è d’uopo
ch’ella sia mia conquista e non tuo dono.
Tanto ti offendi? Or via. La Frisia armata
e tu, suo duce, i torti tuoi palesa.
La vendetta dirà qual fu l’offesa.
Sigiberto, mio sire, è questo il tempo
oppose a’ sdegni suoi. Anche la forza
minacciò. Che potea con pochi armati
si oppone il vostro amor. Non conosciuto,
Il non seguirla è il mio maggior periglio.
là meco venga. Della bella all’uopo
ceda la vita mia, ceda il mio impero.
Essa pria si difenda e poi Regnero.
Duce, parte Regnero; e il cor di Asmondo
Vanne; e compisci, o fido,
il pietoso tuo inganno. Olao ti crede
a sé fedel. Serbi al desio de’ Goti
l’util menzogna il vero erede. Vanne.
la fortezza da te, da me l’ingegno.
Cieli, a voi del mio sen, della mia spada
nota è la fé. La giusta causa io reggo,
e s’io bramo Ildegonda, in essa il core
cerca la sua beltà, men che il mio onore.
che unir le stelle in simpatia di affetti.
Olao vi applaude e Roderico il chiede.
al tuo piacer quel generoso core.
(Deggio regnar. Soffrilo in pace, amore).
mi si rende lo sposo, or ch’è tuo dono.
l’alta virtù del genio eccelso ammiro.
né meno all’incostante un sol sospiro).
Al vicin campo omai col novo giorno
volgi spedita il passo. Ivi di scorta
l’imeneo si festeggi. Il suon guerriero
dia novi applausi alla beltade, al merto.
Sì, sposa sia Ildegonda a Sigiberto.
(Speranze ambiziose, omai tacete).
l’alta serenità del regal ciglio).
l’alma in quel seno? Andrai contenta e sposa
superbe soglie rimarrà Svanvita...
Beltà nata fra gli ostri è più gradita.
Siasi. Maggior di ogni grandezza è il core
Spensi fiamma con fiamma.
con amor di virtù voti di orgoglio.
Tuo non sarà più d’Ildegonda il seno.
Tuo non sarà più della Svezia il soglio.
che dissi, amai? Quel vano affetto, ond’arsi,
fu fantasma all’idea, non macchia al core,
e spense la ragion ma non l’amore.
Questa è la reggia, oh dio!
dove han comando i tuoi nimici.
dacché la premi, è il mio più caro albergo.
Qui tutto può di Roderico un cenno.
Siane, che pro? Le mie ripulse e gli odi
faranno disperar la sua possanza;
qui potria spaventar la mia costanza.
Qual periglio per me? Qui a tutti ignoto
e nell’idea de’ miei nimici estinto,
Il può sugli occhi istessi
del tuo rivale un mal guardingo amore,
il tuo regio sembiante, il tuo gran core.
colà nel campo ed ei mi crede il duce
Ei fia deluso e l’amor mio ne gode.
languir lo sdegno in que’ begli occhi? Ed opra
fia de’ consigli tuoi quel dolce nodo
che di più regni e di più cori è il voto?
l’affar si tratta. Ella risponda e sola
l’interprete ella sia de’ suoi voleri.
non insinua il consiglio. Il cor li detta.
piacer con l’altrui labbro; e nell’amore
vincer l’alma conviene e non sedurla.
S’altri ti è necessario a far ch’io ti ami,
o fiacco il merto in te conosci o credi
in me facile il genio; e fai che sia
l’amore o debolezza o bizzaria.
Per gradir al tuo cor ne addita i mezzi.
Non cerco i mezzi, ove non amo il fine.
Tra noi, regina, è stabilito il nodo.
Politica l’unì, ragion lo scioglie.
Né d’infido amator mai sarò moglie.
prova è di tua beltade e di mia fede.
A chi già fu infedel non ben si crede.
Ove parlano i re, taccia chi è servo.
Servo solo a Svanvita; e a te non lice
quel zelo condannar ch’ella discolpa.
Quando è indiscreto, anche un gran zelo è colpa. (A Regnero)
Ragion rende il tuo esempio al mio disprezzo.
Dunque la renda anche al tuo amor.
pria si scorda chi ’l fa che chi ’l riceve.
E un’offesa real non è mai lieve.
silenzio imponi. Il mio soffrir già è stanco.
con quel di Roderico. Ei, re sovrano,
vuole i nostri sponsali; e può, se vuole.
dal suo voler nulla dipende il mio.
E s’egli è re, sono regina anch’io.
A’ dani tuoi anche i miei goti aggiungo.
M’offri un soglio non tuo. Quando Regnero
meco il divida o a te lo ceda, allora
e della Dania e della Gozia ancora.
Giace estinto Regnero e in te vaneggia...
Al suo sesso, al suo grado, all’amor mio
ch’ella è fuor della Dania e ch’io qui regno.
Per minacce giammai gran cor non cede.
Gran cor spesso si ammira e si compiange.
Mai non manca a virtù scampo e difesa.
chi difenderla può da un mio comando?
La ragion delle genti e questo brando.
il dovuto rispetto a Roderico?
A chi ’l perde a Svanvita, io più nol deggio
Il mio vantaggio è questo,
che ignoto ancora a chi mi è noto io parlo.
Parlo al danico duce e trovo in esso...
un rival fortunato. Ei sol mi toglie
e amor lui fa superbo e lei crudele.
Meglio si osservi e al regal zio si esponga
la gelosa ragion de’ miei sospetti.
vinto di vago sen l’odio ritroso
e doma in fier rival la brama audace,
la vendetta e l’amor, la vostra pace.
ornamento e difesa, anime invitte!
ch’oltre il Baltico mar meco portaste
lo spavento e il trionfo, a voi già s’apre
L’opra è degna di voi. Tal sia l’evento
l’età presente e l’avvenir nol creda.
Regnero è il vostro re, nome che basta
valore e fede a risvegliarvi in petto.
Giusto dover già vi richiama all’armi.
se ancor si tarda. Andiam; per noi si serbi;
regni per noi. Facile impresa e giusta.
la proteggono i Dani, il ciel vi applaude.
Ma già l’ardir, che ne’ vostri occhi io leggo,
più della fé che dell’invito è figlio.
grand’opra, eterna fama e niun periglio.
Prence, per breve indugio al pronto Marte
delle conquiste tue, le prime prede,
d’Ildegonda gli affetti, il cor, la fede.
di una colpa innocente a me il rimorso.
Que’ son fuori di me; questo in me vedi.
Chi ’l richiamò? L’amante ingrato? Parla.
Vuol perdonar chi le discolpe invita.
da questo petto amor; solo si ascose;
a forza discacciollo idea di regno,
pianger dentro al mio cor, vicino a quella
ch’ei vi stampò tua cara immago e bella.
Ei, del non certo errore,
in questi, non già miei ma suoi sospiri,
se pentito lo vuoi, pentito il miri.
sovente ei sospirò. Dillo, Ildegonda.
Sospirò per il re, non per l’amante.
Più non porge il mio cor voti all’orgoglio.
e quale a me ritorni, a te mi rendo.
Perché troppo è il piacer, non ben l’intendo.
reco in me stessa a Sigiberto un dono
che per lor cenno io ti possegga. Vanne;
ma vanne mia. Tale ti serba e tale
ti trovi ’l mio valore. A me giungesti
nunzia di giusta guerra a chi m’offese.
mosse Regnero il prime passo. Vive
tua vendetta, Ildegonda, o fia tua gloria,
porta il primo spavento a’ suoi nimici;
annunzia il primo colpo al suo rivale.
In vendetta e in amor m’avrai leale.
Giusto valor del suo trionfo è certo.
Con voi vien la ragion, vien Sigiberto.
Chiamisi Asmondo. E nel guerrier de’ Dani
non sia tutto il timor di Roderico.
se non aure di vita, aure di amore.
s’ama, s’applaude e dà pretesto all’armi.
Ed un’ombra di re dee spaventarmi?
la ragion del temer, tanto è più forte.
Se vero fia della sua vita il grido,
sinché non manchi a noi virtù e ragione.
Del magnanimo core adoro i sensi;
l’odio in Svanvita, in me l’amor.
il non certo rival fa’ che a me venga.
Consiglio o forza i mali miei prevenga.
o me ha deluso o altrui sedotto. Il vero
ne vo’ scoprir. (Va a sedere)
(E il vo’ per mia vendetta o per mia pace).
cedé Torilda, amai che in Roderico
Attendi. Io lo bramai; ma non volea
sacrificar la mia virtù, il mio nome.
M’era noto in Regnero il regio erede.
Tu lo giurasti estinto e la sua morte
Attendi ancor. Vola or d’intorno il grido
che sia vivo Regnero e questa voce
Non più riguardi, Asmondo. Eccomi pronto.
Rendo alla Gozia il successor, s’ei vive.
L’inganno tuo più non mi lasci ingiusto;
assolvi la mia fama e i miei sospetti.
Il destino del prence a me confida.
D’allor parlai che il dissi estinto.
Fu sincero l’avviso o fu bugiardo?
Giovò, qualunque fosse, a Roderico.
l’utile non desia, desia l’onesto.
Onesto è sempre ciò che porta al trono.
(Sfugge ad arte il cimento). Eh, più sicuro
parla ad Olao. Morto è Regnero o vive?
Vive nel cor de’ suoi ma non nel soglio.
esser può che s’aggiri, ombra amorosa.
Ma con l’ossa onorate ove riposa?
Oscuro ei visse e sconosciuto ei giaccia.
A chi ’l regno doveasi, almen di un’urna
chi vivo non gli ottenne, i tardi onori.
costui si guardi. Un parlar dubbio e lento
te fa più reo, me più dubbioso. Io voglio
opporre al comun grido il solo Asmondo.
della loro perfidia o del tuo inganno.
e di tua sofferenza ella si duole.
tu oprasti sì ch’io fossi stretta in nodo
al successor del gotico diadema.
La Dania assente. Esco dal regno e giunta
trovo morta Torilda. Roderico,
taccio la sua Ildegonda e il mio rifiuto,
sposa mi chiama; mi rinfaccia i patti;
i titoli confonde e perde i voti.
al nipote di Olao ma al re de’ Goti.
di Gozia al re. Tal Roderico...
Chiuse morte in fredd’urna i suoi diritti.
Politico è l’amor che il finge estinto.
O cieco è l’odio altrui che vivo il finge.
E meco l’hanno e Sigiberto e il campo.
S’ei vive, a che non viene? A che non chiede
Verrà qual deve e il chiederà con l’armi.
A che l’armi? A che l’ire? Ei venga e regni.
non si scende giammai, se non a forza.
Odi, o Svanvita, e meglio Olao conosci.
Asmondo è in mio poter. Poc’anzi estinto
O mentiscono i Goti o Asmondo è falso.
Regina, addio. Vado costretto all’ire.
disarmarle o il cadavere o il sembiante.
Asmondo il mio perdono, egli il suo impero. (In atto di partire è incontrato da Regnero su l’uscio del gabinetto)
Ferma e sii generoso. Ecco Regnero.
Sì, quel son io. Quanto giurasti adempi.
non so s’io chiami o generoso o giusto,
qual mi dai chiara prova, anima ardita?
Dopo il mio volto a te la dia Svanvita.
(Ah, non si arrischi una sì cara vita).
Più illustre testimon non vo’. Regina,
e il suo merto gli ottenne e il suo valore
l’alto impero dell’armi (e del mio core).
Ma nel duce stranier vive Regnero?
Forse in Dania viss’io? Quando mai vidi
più questo cielo? O respirai quest’aure?
Deh, licenzia un timor che al pari offende
in Olao la giustizia, in me la fede.
la reggia omai, qual già mi accolse il campo.
Colà fosti ’l mio duce e tale, o sire,
Rispetti di vassallo io non esigo
Guardie, qui Asmondo. (In quali affetti ondeggio).
Sì, venga Asmondo. Ei, che due lustri ignoto
idee superbe concepir di regno
chi può amar le regine e amar sofferto.
Non soffro amor che non sia regio e grande.
Tempo non è che più si taccia, Asmondo,
un nome ch’è mia gloria e tua salvezza.
generoso parlai. La tua virtude
non c’imprima timor di alcun periglio.
Ch’io son Regnero e son di Unningo il figlio.
Che! Tu Regnero? In te sol veggo il forte
si dissimula più svelato arcano.
Piacesse a’ dei che al mio dolore
far lusinga potessi. Ahi, me presente,
spirò il misero prence e ancor ne piango.
e il suo cenere almen si lasci in pace.
Importuna pietà! Barbara fede!
Questa fé mi convien, questa pietade.
Sol temerei, se al mio dover mancassi.
Quando neghi ’l tuo re, manchi al dovere.
Lodevol è nel zelo anche l’errore.
Deh non t’infinger più. Rifletti omai
che re mi neghi ed impostor mi fai.
Che cieco laberinto è mai cotesto?
Qual di loro è il mendace? Io che far posso?
Qual parte seguo? Ombra real di Unningo,
che in queste soglie ancor ti aggiri e scorgi
per giudicar tra l’impostore e il figlio.
Sire, geloso amor non soffre indugi.
Ei si vanta Regnero e, benché Asmondo,
ei ti contende nell’audace impegno
il possesso di un core e quel di un regno.
E giustamente a te il contendo.
nell’inganno la colpa. Amor gl’inspira
l’audacia rea di fingersi regnante.
Re non saria, s’ei già non fosse amante.
Lo stesso amor, che mi rinfacci, è prova
Di’ pur del tuo ardimento;
ma l’altrui tolleranza è tuo fomento. (A Svanvita)
sono in lor libertà. Pur se nel duce
non ravviso Regnero e se Regnero
dunque non amo in lui fuor che il suo errore.
troppo incauto amator, reo di due colpe,
l’una ch’osi di amar la tua regina,
l’altra che, qual non sei, di esser ti vanti.
Correggi l’amor; frena l’ardire.
(Per torlo a maggior rischio io fingo l’ire).
Si dileguin le nebbie. Olà, custodi,
mi si rechi onde scriva. (Ecco il cimento.
nel periglio di Asmondo esser ingrato.
nel seno dell’amante esser crudele. (Va a sedere per scrivere)
la giustizia o l’amor, se in lui prevalga
grata riconoscenza o cieco orgoglio).
Salvate, oh dei, l’augusto germe al soglio.
Del suo mentirmi il nobil cor si sdegna.
Scrivi ’l tuo nome a’ piè del foglio e regna. (Dà un foglio a Regnero)
nel duce ardito l’impostor non vedi?
E l’ardir ne condanno e l’impostura.
Il tuo sposo non vuoi nel re de’ Goti?
È questa sì dell’amor mio la brama.
Segna il tuo nome a’ piè del foglio e l’ama. (Dà l’altro foglio a Svanvita)
Scrivi ’l tuo nome a’ piè del foglio e regna!
Segna il tuo nome a’ piè del foglio ed ama!
meta al voler di un re? (Apre con disprezzo il foglio)
legge al libero amor di una regina? (Fa lo stesso)
(Che sarà mai). (Regnero e Svanvita vanno al tavolino)
(Le oscure note attendo).
«Regnero io sono; è mio de’ Goti il regno.
Asmondo mi mentì. Mora l’indegno». (Legge e prende la penna per scrivere ma poi resta sospeso)
«Solo al gotico re sarò consorte.
Tal se il duce mentì, sia reo di morte». (Fa lo stesso)
Mora l’indegno? E che il decreto io segni? (Guardando con affetto Asmondo)
Sia reo di morte? E che il comando io detti? (Guardando Regnero)
Qual orror ti sorprende? Il solo Asmondo (A Regnero)
ti nega re né di punirlo hai core?
Sì, punisci in Asmondo un fido errore. (A Svanvita)
la man disarma? Egli è costui l’audace
se più al tuo core o più al mio trono insidi.
Sì, se in me neghi ’l re, l’amante uccidi. (A Svanvita)
stimoli o leggi io non attendo.
a giusto sfogo animerà lo sdegno.
Vergo il foglio così. (Straccia il foglio)
Così lo segno. (Fa lo stesso)
Zelo ho per Roderico. In esso offendi
la tua gloria, la Dania...
Qual mai ti assumi autorità sovrana
commette in questa reggia, in questa ancora
ne avrà la pena. E qui ’l suo fallo istesso
fa mio suddito il reo, benché straniero.
la gloria di cader sotto il mio brando? (Snuda la spada)
ne scoprirai da queste mura il lampo.
si appresta alla difesa e n’esce in campo.
che spavento e tumulto. Io te ne reco
e col primo terror di tua possanza
incomincio a punir la tua incostanza.
e la corona e la vita mi chiama.
Seguami Asmondo. In libertà ti lascio,
Svanvita, il reo. Questo gradir ti piaccia
non vile testimon del mio rispetto.
fa’ ch’io ritrovi o l’amator pentito
Più fausto avviso e più opportuno a noi
non potevi recar, bella Ildegonda.
o se penso al tuo merto o se a quel sangue
che unì più volte a’ tuoi grand’avi i miei.
il poterti inchinar. Ma tu chi sei?
che di me stesso obblii la sorte e il nome.
Piace così... (Accenna Svanvita ad Ildegonda)
da’ tuoi nimici. In lui tu vedi ’l degno
Sì, Regnero, il mio sposo.
temonsi ancor di Roderico i cenni.
Cauti siamo, non timidi. Per noi
La giusta causa è in man di Sigiberto.
decideran. Lontana spettatrice
mi chiama il cor. Principi amanti, addio.
All’amor vostro io così servo e al mio.
Regnero, io ben sapea che il tuo coraggio
L’altrui virtù mi rese ardito.
tolgalo il cielo, ancor fia reo del molto
Un re non può salvarsi a minor prezzo.
Oh dio! Non dir così, s’ami Svanvita.
Ite, o vani timori. A sì grand’alma,
tante virtù, quasi fra gli ostri ignote,
mancar di sue difese il ciel non puote.
Sigiberto verrà. Seco si tenti
la ragion pria che il ferro. Egli a noi venga
e la pubblica fede a lui fia scorta.
la giustizia si opprime o si difende.
Un torbido fantasma, un’ombra vana
da quell’armi ’l diadema. Empié Regnero
col solo nome il cor de’ Goti ed essi
solo col di lui nome empiono il trono.
col disinganno un cor sedotto o in quello
vincasi col valore un cor rubello.
Amico duce, in questo sen... (In atto di abbracciarlo)
Perdona; (Si ritira con rispetto)
mi offende l’amistà de’ regi amplessi.
Sigiberto col volgo anch’ei vaneggia?
Può vaneggiar chi un giusto re sostiene?
chiede Regnero e con quest’armi ’l chiede.
Son l’onte esca dell’ire in alma grande.
Brami Ildegonda? Hai su quel cor l’impero.
Dal mio braccio l’attendo o da Regnero.
è tua vendetta, il so; tu di un fellone
sei ministro all’ardir. Tu di Svanvita
fomenti l’ire sue men ch’il suo amore.
In essa, in te, nell’empio, io ben ravviso
e l’ingrata e il nimico e l’impostore.
Impostor chi desia degli avi ’l soglio?
Sì, se germe degli avi Asmondo il nega.
Impostor, s’anche Svanvita
solo il duce de’ Dani in lui m’addita.
(Saggia è l’eccelsa donna). Olao, qui cedi
a Regnero il comando o riedo al campo.
miglior fé, più bel zelo a’ Goti, a’ Dani.
Degno oggetto di entrambi è Roderico.
La fede, il zelo è per Regnero. Addio.
Gli amici ed i vassalli, il giusto e l’armi
il voglion coronato. A te, che neghi
il viver suo, vivo lo mostro.
Nella battaglia. Olao, colà ti aspetto.
E la battaglia in pro del vero accetto.
spinge il ciel quelle schiere. Alle vittorie
chiama il ciel le nostr’armi. In quelle mura
Andiam. Sia la sua gloria un vostro impegno
e veda nel suo regno un vostro dono.
Per l’estremo cimento, ove si provi
del duce il vanto, egli a me venga.
mi fa pur anche un saldo zelo.
di un amante, di un re pompe fastose,
trovo rischio e dolor; ma non si onori,
Sì, vincerà ne’ dani suoi Svanvita;
perirà l’impostor ne’ goti infidi.
così sperando ha qualche pace il seno.
Qui giunge il duce. (A che mi astringi, o tema).
mentì il grado real, sappiasi). Ascolta. (A Regnero)
E a te lo provi il brando.
a me rimanga il cor. So che geloso
della bella è il tuo amor, che senza prezzo
(Tu mi tormenti, o spene).
Dividasi l’impero; abbia le leggi
ti mostri reo. Non ben possiede il tutto
chi una parte ne cede. È mio diritto
e la Gozia e la Svezia. Io non tradisco
il mio natal con la viltà dell’opre.
Dal rifiuto già sai ch’io son Regnero.
Ma quando anch’io nol fossi, è prezzo vile
per il cor di Svanvita un mondo intero.
a costanza d’amor ragion d’impero.
parlami, Asmondo. In lui veggio Regnero.
Signor, se non a me, credi a Svanvita.
Mal mi rispondi. Sì, vive nel duce
di Unningo il figlio. A che più frodi? Esponi.
Vuoi le minacce oltre i comandi e i preghi?
(Perché regni sicuro, il re sì neghi).
della pugna fatal pende l’evento,
palesa o la menzogna o il tradimento.
quel perfido tacer sfida la morte.
Qual cieca fellonia? Di carcer tetro
costui traggasi, o fidi, alle catene.
Ferma; e solo dal re vengan le pene.
non è più tale in Gozia. Altro monarca
con la vittoria entro le mura i vinti,
rispettar quella fronte. Ei torna illeso.
Sigiberto il dirà, dirallo il campo.
D’ira, di gelosia, di sdegno avvampo.
Che più mi fermo? Ah, si contenda almeno
al vincitor l’intera gloria. (Impugna la spada e in atto di partire incontra Olao)
ti opponi al suo valore. Egli con l’armi
della città le strade inonda e ad esso
ultimo de’ trofei resta la reggia.
e dal guerriero e dal civil tumulto
si cerca il trono e vi si vuol Regnero.
Al duce tuo, che tal vantossi, imponi
Venga Regnero e il mentitor punisca.
Come! Seco l’ha il campo. Asmondo istesso
soffre ma non applaude al tuo ardimento.
E Sigiberto. Egli dirà s’io mento.
Teco viene il mio brando.
Nel trionfo de’ suoi, viva Regnero.
Cessin gli sdegni, o fidi. Sigiberto,
si ferma la vittoria e i cenni attende.
E l’onor di sue braccia il re ti rende.
delle conquiste tue, duce, la prima.
E de’ sudori miei premio migliore.
Marte arrise al valore, al merto amore.
Al mio timido amor rimetti ’l torto.
A sì bel zelo il tuo tacer perdono. (Ad Asmondo)
Il valor, la virtude ha qui un bel campo (Ad Olao e Roderico)
Roderico dal trono e non vi resti
pur un sospir che l’atto grande offenda.
Libero il cedo e senza duol. Maggiore
del ben che perde ha Roderico il core.
Basti ad Olao la sua Norvegia e i regni
cerchi fuor della Gozia a’ suoi nipoti.
A te, duce, si stringa in Ildegonda
Giusto favor che i merti suoi ne dice.
In braccio alla virtude io son felice.
Qui meco il soglio avrai, se a te il degg’io.
Il mio vi aggiungo e nel tuo seno io godo.
Applauda il mondo ed in Regnero onori
la comune allegrezza e il regno e il nodo.