Metrica: interrogazione
965 endecasillabi (recitativo) in La Svanvita (Pariati) Venezia, Pasquali, 1744 
Popoli, in breve età, quanti monarchi
vi tolse invida parca! Unningo giacque,
per cui l’Orse natie fur più temute.
Torilda a lui consorte, a me germana,
che con virtù tenne due lustri ’l regno,
con le ceneri sue, quelle di Unningo.
prima sposa di Unningo, a lui fu madre.
al cui zel fu commesso il regio erede,
di sua morte immatura a voi fa fede.
Or che vedovo è il trono, il re voi siete.
date al soglio un monarca. In Roderico
a me lice proporlo, a voi gradirlo.
di Olao il nipote e di Torilda il figlio.
(Nel regio amante il mio destin pur gode).
(Dove applaude il timor, l’applauso è frode).
Non l’hai da me; l’hai dall’amor di questi
che tuoi gli rende il loro dono augusto.
che il ciel la Gozia alla Norvegia unisce,
che provocar l’armi comuni or tenta,
tema il suo fato e del suo ardir si penta. (Al suono di trombe e timpani resta coronato da Olao Roderico)
(Gli dà fregio il diadema. Ahi, Sigiberto). (Roderico s’avvicina al suo trono)
Popoli, duci, io vi precedo e giuro
immortal vassallaggio e fé costante.
Asmondo, nel tuo zel leggo il tuo amore.
(Finge così, quando ben serve un core).
sire, al tuo fato e a te dal cielo impetra,
Regal germe di eroi, bella Ildegonda,
sono i tuoi voti i miei più cari auspizi.
(Un novo regno in quel bel sen sospiro).
(Più che al suo core, al suo diadema aspiro). (Si ritira)
gioia e splendor, sire, al tuo novo impero.
Già del gotico ciel l’aure respira
tua illustre sposa. Al nodo eccelso applause
è il suo regio natal, la sua grandezza.
non ha che il gentil volto. Il core e i sensi
solo l’eroe dov’ella pensi ed opri.
che la Sarmazia arda ora teco in guerra,
seco vien di guerrieri armato stuolo.
Maggior n’arma la Dania; e per te in breve
sotto peso maggior la terra e l’onda.
Prence, Olao strinse il nodo e Olao risponda. (Scende dal trono e fa lo stesso Olao)
Amico Sigiberto, o se al tuo brando
il destino dell’armi o se al tuo seno
della corona il grave affar s’affidi,
sei del gotico regno e braccio e mente.
ferma il diadema a Roderico in fronte.
l’alta donzella all’imeneo felice.
resti dell’armi il sommo impero; e in breve
stenda l’invitto oltre il sarmazio lido
del suo valor, del poter nostro il grido.
Sire, l’onore è assai maggior del merto.
(Forza è ch’odi un rivale in Sigiberto).
(Su l’altrui tempia ancor vedrò quel serto). (Si parte)
che si sveni ’l tuo affetto al mio piacere.
                                    Il so. Comincio il regno
ma più ingiusto è l’amor che in me lo desta.
Di quale amor, dacché è regnante e sposo,
Di quel che m’arde in sen per Ildegonda.
                            Gli eroi, qual Sigiberto,
altro oggetto non han che la lor gloria.
altro impegno non han che la lor fede.
tu da un re successor spera altri premi.
                                                     Meglio
chi ti parla conosci. Ove ho la reggia
rival non soffro. Di un regnante il voto
si riceva in comando e si ubbidisca.
Si ubbidisca il comando, o Roderico,
da chi suddito nacque; io, di te al pari,
fuorché da Sigiberto, e le ha più giuste.
sia di amori e di glorie a te feconda.
Qui sia re Roderico e sua Ildegonda.
di nobil alma. Andiam; ma pria si cerchi
Perché non sei di Sigiberto un dono).
reggia un tempo a me cara ed ora ingrata,
l’ultimo addio prender convienmi. Cedo,
più che al destin che mi è nimico, a quello
che ti chiede regina e ti vuol grande.
tal riede Sigiberto? E questa arreca
(Cor d’Ildegonda, io ti vorrei fedele).
                         E tu partir sì tosto?
                                              E Roderico
con più liberi sensi. Invan t’infingi.
Già col desio scettro possiedi e stringi.
Sa il cielo, il sa quest’alma, il sai tu stesso
godei che tu mi amassi e s’io ti amai.
quasi onda a scoglio si dibatte e frange.
già fu degli avi miei lungo possesso.
Tu ancor l’avrai lor figlia; e già t’inchina
Deh, perché non poss’io di Gozia al trono
esca pur del tuo seno. Un cor diviso
a me fa più d’orror che un cor nimico.
Sceglie appena il desio che allor si pente;
e il miglior si figura in quel che lascia.
gli toglie anche il piacer di quel che ottiene.
Questi del goto impero, a cui mi tragge
Come appena vi fermo il piè sovrano,
che l’alma il frena e ne condanna i passi?
con rimorso e con tema. Ah, non intendo...
il noto grado e il chiaro nome onoro.
col labbro mio ti espone. A’ nostri numi,
poiché salva giungesti, altro non chiede
                                          Può la tua destra
fermargli su la fronte il suo diadema.
Se il sostien la ragion, nulla si tema.
                                                                 Segui.
(A Regnero si giovi). Armato il zio,
trasse il nipote al soglio, è ver, ma...
                                                                  Come!
Lice il temer? Già Roderico è grande.
l’amor de’ suoi, troppo ha vicin l’inciampo.
Manca l’amore a chi già regna? E regna
                                      Non sempre s’ama
ciò che si soffre. Ogn’impotenza è freno.
In ogni core ha il trono suo Regnero.
Lieve guerra può far rivale estinto.
                                                          Soffri
che innocente ti lasci il mio tacere.
Vien, regina, a regnar, vieni a godere.
Svela gli arcani; io la mia fé ti giuro.
(Regni ’l mio prence). Odi, gran donna. Vive,
per sottrarlo a’ perigli, estinto il disse.
L’arte fu mia. Di Olao, di Roderico
già scuoto il grave giogo; e per Regnero
si dichiara il mio amore. Ei vive. Almeno
se al suo regno, al suo nome, alla sua vita
è crudele il destin, nol sia Svanvita.
(Or sì v’intendo, oh stelle). Ove soggiorna?
In quel monte, in quel tetto ha la sua reggia.
Tosto a me il guida. Al re de’ Goti, Asmondo,
dee la Dania quest’armi. Io il vo’ sul trono.
a lui sol porgerò, forte e pietosa,
pria la man di guerriera e poi di sposa.
Servasi al giusto. A Roderico io tolgo
quella parte di me che il mio dovere
                                                Accogli,
                         L’eroe maggior che stringa
                                       Non vuol più il fato
ch’io serva a Roderico. Io parto offeso
e il mio torto è comune anche a Svanvita.
per non esserne a parte. Io sarò teco.
                                           E vuoi ch’io possa
servir la sconoscente? Amar l’ingrata?
Ingrata e sconoscente? Ella che in Dania
                                                E il soffri in pace?
solo il suo amor; ma in te, regina, è offesa
la tua fé, l’onor tuo, la Dania intera.
Veggio l’offesa e l’offensor ne pera.
Co’ duci tuoi meco t’invito all’opra.
                                             Odi un arcano
che salva la tua gloria. Odi e risolvi.
Della Gozia Regnero è il solo erede.
Ei vive. Io so che hai core; io so che hai fede.
                                                         Segui
sarà fra poco. Alle tue schiere intanto
spargerò la pietà, l’onta, lo sdegno.
A’ Goti il lor monarca oggi prometto.
Ed io per lor giuro al monarca il regno.
Scende Regnero. Il cor, che in sen mi balza,
forse teme in que’ rai le sue ferite.
che la mia povertade è un’innocenza.
forse cortese il ciel segna le mete.
Mai ciò che piace al ciel non è sciagura.
Quel regio aspetto e quel gran cor mel dice.
                                        Questa che vedi
                                                          Inchino
del nome il merto e la beltà del volto.
(Tel predissi, mio cor; non sei più sciolto).
goda il suo amore e in me lo tema; e dica
ch’io venia sposa e giungerò nimica.
(Ch’odo! Ildegonda). Ubbidirò. Tu intanto
                                   Mandi ’l tuo sdegno
Risponde la vendetta a chi mi accoglie
Regna; ma non è tale. Hanno i miei voti
altre speranze, altro sovrano i Goti.
                             (Egli si asconde). Ignoto
a queste spiagge è di Regnero il nome?
Noto ma senza pro. Morì quel prence.
(Prudente ancor diffida). E tu, chi sei?
Parlan le spoglie, onde mi vedi involto.
Eh, le spoglie talor smentisce il volto.
virtude e nobiltà. Di un sangue augusto
l’onor già leggo in quel rossor sincero.
Parla; ardisci; abbi fé. Tu sei Regnero.
Regina, poiché in me di lui non resta
io lo tacea per mio minor cordoglio.
tutto mi tolse. A me pendea sul capo
cauto me n’involò; morto mi finse
per serbarmi, felice, un giorno al trono.
La mia sorte, i miei danni e il viver mio
E ben tutto fidasti. Or quanto tacque
credute avrei le mie grandezze infami.
Poteano armarsi i tuoi. Fidi ti sono.
Amo il sangue de’ miei più che il mio trono.
Marte ad Astrea. Giova allo scettro il brando.
piacque regnar su l’alme e il lor diadema
cercar più nell’amor che nella tema.
E nell’amor si cerchi ’l tuo. La Dania
che già prevenne a tuo favor le schiere,
ti prometto un campion. Donna è Svanvita
ma donna tal che fia tuo scudo e tale
che già scema le glorie al tuo rivale.
oggi la perdo ed è mio fregio. Accetta,
vergine illustre, il sacrifizio e il voto
che tua virtude e tua bellezza onora.
E l’accetta Svanvita, (E s’innamora).
resti con te. Dal mar trarrò sui lidi
le forze nostre; e là ti attendo. Addio.
Ah, non senza un sospir partir poss’io.
se ho da regnar, regni Svanvita ancora,
in cui quest’alma un’opra vostra adora.
Minaccia, ch’è lontana, è lenta o breve.
Chi con l’odio è vicin non è mai lunge.
                                 Di un giusto sdegno.
                           Non ne cercar l’errore.
che d’ingiusto ti accusa o almen d’ingrato.
                                          È però solo.
Solo non è chi può dar legge all’armi.
Ma primo amor dell’armi è chi le regge.
Spesso in man di un eroe val molti regni.
                                  Un’altra man può torlo.
                             Ancor se n’ama il nome.
                                  Esser può finto il volto.
                         Ardir gli manca o lena.
                                 Sì, ma con pena.
                                           Donde quest’ire?
sua nimica verrà, non più sua sposa.
Non nego amor sì bello e nol discolpo.
provvede a’ tuoi sponsali? È poco saggia
di Sigiberto il duol. Giusto è lo sdegno
di Svanvita. A placarlo io volgo i passi.
Rendi al duce il suo amor. Rendi a te stesso
il comando di un zio, di un re il consiglio.
                                 Essa infedel ti trova.
Colpa di amor. Si scorderà dell’onta;
lascierà la vendetta a’ piè del trono.
Sì lievi di quel cor l’ire non sono.
Ecco Ildegonda; ella vien mesta e solo
fa il nodo di Svanvita il suo gran duolo.
se, a chi ’l cor ne possiede, il duolo è noto,
Compiango anch’io la tua sciagura. Un bene,
vedersi tolto e non sentirne affanno,
Giusto è il tuo senso; e necessario sfogo
(Vo’ farla più gelosa e poi più lieta).
Non m’infingo, signor. Perder l’oggetto,
che fu gloria e piacer de’ voti miei,
pare un colpo per me troppo spietato.
Così volea l’ardua ragion di stato.
                                         (Ei m’innamora).
                                     (Quanto mi adora).
Non più pene, non più. Rotto è quel nodo
converrà di altro sposo. Il soglio e il letto
Son tuo; sgombra ogni duolo, anima mia.
I rai del tuo diadema e del tuo affetto
dileguar ben dovean nubi sì fosche.
di lungo amor tu mi perdona. Ancora,
non si rammenta il cor di Sigiberto.
No, questa fiamma arda immortal. (L’ingrata...)
gl’incendi suoi sin sul tuo trono augusto.
Sforzo sì grande alla tua fé non chieggo.
l’invito ami del genio, in Roderico
A lui l’amor ti unisce, a me l’orgoglio.
                        Vanne.
                                        Sigiberto...
                                                               Intesi;
è la gloria e il piacer de’ voti tuoi.
                         Tanta costanza ammiro.
             Vanne. Ancor gli dei qualche sospiro.
Per Sigiberto arde l’ingrata e n’arde,
Ah, facciamla pentir. Toglile, o core,
è tua viltà, forse è tuo rischio ancora.
La punisca il suo esempio e la confonda;
al soglio il successore, il re a’ vassalli.
serve, più che al mio fasto, alla tua fama.
E regnante ti vuol chi re ti chiama.
Qui gli arnesi guerrieri. E armato meco
al comando verrai. (Fa cenno a’ suoi danesi, alcuni de’ quali entrano nel padiglione)
                                     Sarò felice
                                          Le amiche trombe
Son leggi mie del tuo favor gli auspici. (Ritornano dal padiglione e portano la spada e l’elmo per Regnero)
la maestà di quella fronte augusta.
le magnanime idee questo t’inspiri
e questo le protegga. Il tuo diritto
tu col braccio sostieni ed io con l’armi.
che, tua mercé, sul capo mio risplenda
                                   Questa ti renda
l’elmo al diadema ed allo scettro il brando.
Il mio valor tu sei. Sperate, o Goti;
paventate, o Norvegi. Il primo acciaro
della mia destra è di Svanvita un dono.
(E di quel bel primo trionfo io sono).
l’altrui sangue non già, non l’altrui pianto.
Ma se convien, se piace a voi che m’apra
sol questo acciar le chiuse vie del trono,
facciasi. Vi ubbidisco. Io già lo stringo,
stromento alle conquiste; e questo un giorno,
in atto umile all’are vostre appeso,
dirà che fu mia speme e poi mio voto.
che fia grato Regnero anche a Svanvita.
l’alto dover di un benefizio illustre.
(Godi, mio cor). Né t’obbliar regnando
Mai non si obblia nome ch’è scritto in seno.
Vanne dunque a regnar. Le sue fortune
già perdé il tuo rival. Quell’alma ingrata
del giurato imeneo distrusse i voti.
                                              Il re de’ Goti.
Al tuo piede, signor, che ben ravviso
nel ciglio il grado, ubbidienti e fide,
e della Frisia e della Gozia hai l’armi.
Duce, il chiaro tue nome, il braccio invitto
Vieni al mio seno e ti risponda il core. (Lo abbraccia)
Ben si dee quel bel posto al tuo valore.
con esse il campo intero; e generoso
a’ torti di Regnero offre il riparo. (I goti abbassano le insegne a’ piedi di Regnero in atto di riconoscerlo per loro re)
Più dell’offerta il vostro amor mi è caro.
chiede anche il campo il suo monarca. È d’uopo
la presenza real, perché sia lieto,
il pubblico desio, perché sia certa
                             A me, regina, e a’ miei
(Piacer ch’è pena mia). Va’ e tosto riedi.
duce, l’amor de’ Goti (e la mia vita).
Non fia lungo l’indugio. Addio, Svanvita.
                                    Che mi si chiede?
Quegli amor, questi pace. Ambi del regno
Da’ sdegni tuoi le sue grandezze io spero.
Regina, onde tant’ire? Ov’è de’ patti
la ferma legge? Armata vieni e sposa
contro la Gozia? E questi son gli affetti?...
E morte e guerra un che mi offende aspetti.
ch’escono da que’ rai, morte ma quella
                             Taci; Ildegonda è bella.
che divampò per breve tempo e lenta.
E che il timor, non il dover ha spenta.
Comanda amor che al pentimento umile
                                     Segua l’impegno.
                             Ma dura in me lo sdegno.
di questo errore è colpa grave; e grave
                            E tale appunto è quella
delle minacce tue. Basti, o Svanvita.
senza colpir chi lo disprezza. È vano
Sposa non più ma tua nimica io sono.
(Già la mia fé vede Regnero in trono).
le nostre colpe e per punirle vieni.
                                                      A me risparmia
per comprarmi l’onor di là servirti.
                                           Ove ho nimici?
Eh vieni. Vieni a far due re felici.
Qual talamo? Qual trono? E chi mi chiama?
                                        (Che mai risolvo?
Lasciar Regnero? No. Maggior contrasto
far non si può. Di Sigiberto alfine
mi assicura il valor, de’ miei la fede
Andiam. Ancor ti annunzio e guerra e morte. (Ad Olao e Roderico)
                                                        Un’ira
                                                            (Cieli!
è il sommo duce, al cui gran braccio illustre
fidò la Dania il regal pegno e l’armi.
Mel disse il cor, pria che il tuo labbro. In lui
                                      Cauto t’infingi.
In fresca età merto sì grande? Attendi.
                                                  (Che sento).
                                   (lo son tradito).
tieni ’l posto primiero e che Svanvita
                                                         È vero.
Or sdegnata è la bella. Non più sposa
ma nimica si giura. Amico, io bramo...
se Svanvita oltraggiò, m’abbia nimico.
gran parte dell’affronto e dello sdegno.
meco si regge, a una mortal vendetta
stimolarla degg’io, pria che al perdono;
e se la vuole, il primo a farla io sono.
                                 Giusto ardimento.
non è più la mia fiamma. Essa riaccenda;
e l’esser dono mio più t’innamori.
                                   Tu pur minacci?
                                                                   All’armi
vo’ sol doverla; e perch’io l’ami, è d’uopo
ch’ella sia mia conquista e non tuo dono.
Tanto ti offendi? Or via. La Frisia armata
e tu, suo duce, i torti tuoi palesa.
La vendetta dirà qual fu l’offesa.
Sigiberto, mio sire, è questo il tempo
                                           Ov’è la bella?
oppose a’ sdegni suoi. Anche la forza
minacciò. Che potea con pochi armati
                               Signor, che pensi?
                                        È tua sciagura
                          Deh qui trattienti.
                                                              Invano
si oppone il vostro amor. Non conosciuto,
                                        Da Roderico
                                    Saggio è il consiglio.
Il non seguirla è il mio maggior periglio.
là meco venga. Della bella all’uopo
ceda la vita mia, ceda il mio impero.
Duce, parte Regnero; e il cor di Asmondo
                               Vanne; e compisci, o fido,
il pietoso tuo inganno. Olao ti crede
a sé fedel. Serbi al desio de’ Goti
l’util menzogna il vero erede. Vanne.
la fortezza da te, da me l’ingegno.
Cieli, a voi del mio sen, della mia spada
nota è la fé. La giusta causa io reggo,
e s’io bramo Ildegonda, in essa il core
cerca la sua beltà, men che il mio onore.
che unir le stelle in simpatia di affetti.
Olao vi applaude e Roderico il chiede.
(Deggio regnar. Soffrilo in pace, amore).
mi si rende lo sposo, or ch’è tuo dono.
                                 Al regal cenno umile
                                In si modesti sensi
l’alta virtù del genio eccelso ammiro.
né meno all’incostante un sol sospiro).
volgi spedita il passo. Ivi di scorta
                                         A che?
                                                        Fra l’armi
l’imeneo si festeggi. Il suon guerriero
dia novi applausi alla beltade, al merto.
Sì, sposa sia Ildegonda a Sigiberto.
l’alta serenità del regal ciglio).
l’alma in quel seno? Andrai contenta e sposa
Beltà nata fra gli ostri è più gradita.
Siasi. Maggior di ogni grandezza è il core
                        E che?
                                       Regal diadema.
                                                                      È sorte.
                                                     Io rintuzzai
Tuo non sarà più d’Ildegonda il seno.
Tuo non sarà più della Svezia il soglio.
                       Svanvita...
                                             È l’amor mio.
                           Non lagrimar.
                                                       Addio.
che dissi, amai? Quel vano affetto, ond’arsi,
fu fantasma all’idea, non macchia al core,
                           Questa è la reggia, oh dio!
                                                            E questa,
dacché la premi, è il mio più caro albergo.
Siane, che pro? Le mie ripulse e gli odi
qui potria spaventar la mia costanza.
Qual periglio per me? Qui a tutti ignoto
e nell’idea de’ miei nimici estinto,
                                   Il può sugli occhi istessi
del tuo rivale un mal guardingo amore,
il tuo regio sembiante, il tuo gran core.
                               Come a te noto?
                                                               Il vidi
colà nel campo ed ei mi crede il duce
                           Seconderò la frode.
Ei fia deluso e l’amor mio ne gode.
languir lo sdegno in que’ begli occhi? Ed opra
fia de’ consigli tuoi quel dolce nodo
che di più regni e di più cori è il voto?
l’affar si tratta. Ella risponda e sola
l’interprete ella sia de’ suoi voleri.
non insinua il consiglio. Il cor li detta.
piacer con l’altrui labbro; e nell’amore
vincer l’alma conviene e non sedurla.
S’altri ti è necessario a far ch’io ti ami,
o fiacco il merto in te conosci o credi
Per gradir al tuo cor ne addita i mezzi.
Non cerco i mezzi, ove non amo il fine.
Tra noi, regina, è stabilito il nodo.
Politica l’unì, ragion lo scioglie.
Né d’infido amator mai sarò moglie.
                                            Ei pria la serbi.
prova è di tua beltade e di mia fede.
A chi già fu infedel non ben si crede.
Ove parlano i re, taccia chi è servo.
Servo solo a Svanvita; e a te non lice
quel zelo condannar ch’ella discolpa.
Quando è indiscreto, anche un gran zelo è colpa. (A Regnero)
                         Giusta ancor sono.
                                                             E tanto
Ragion rende il tuo esempio al mio disprezzo.
                                                                  Del torto
pria si scorda chi ’l fa che chi ’l riceve.
silenzio imponi. Il mio soffrir già è stanco.
                                        E Olao ti parla
con quel di Roderico. Ei, re sovrano,
vuole i nostri sponsali; e può, se vuole.
E s’egli è re, sono regina anch’io.
A’ dani tuoi anche i miei goti aggiungo.
M’offri un soglio non tuo. Quando Regnero
meco il divida o a te lo ceda, allora
Giace estinto Regnero e in te vaneggia...
Al suo sesso, al suo grado, all’amor mio
ch’ella è fuor della Dania e ch’io qui regno.
Per minacce giammai gran cor non cede.
Gran cor spesso si ammira e si compiange.
Mai non manca a virtù scampo e difesa.
chi difenderla può da un mio comando?
La ragion delle genti e questo brando.
A chi ’l perde a Svanvita, io più nol deggio
                                Il mio vantaggio è questo,
che ignoto ancora a chi mi è noto io parlo.
Parlo al danico duce e trovo in esso...
                                        Re?
                                                  Di sé stesso.
Meglio si osservi e al regal zio si esponga
la gelosa ragion de’ miei sospetti.
e doma in fier rival la brama audace,
la vendetta e l’amor, la vostra pace.
ch’oltre il Baltico mar meco portaste
lo spavento e il trionfo, a voi già s’apre
L’opra è degna di voi. Tal sia l’evento
l’età presente e l’avvenir nol creda.
Regnero è il vostro re, nome che basta
valore e fede a risvegliarvi in petto.
Giusto dover già vi richiama all’armi.
se ancor si tarda. Andiam; per noi si serbi;
regni per noi. Facile impresa e giusta.
la proteggono i Dani, il ciel vi applaude.
Ma già l’ardir, che ne’ vostri occhi io leggo,
più della fé che dell’invito è figlio.
grand’opra, eterna fama e niun periglio.
Prence, per breve indugio al pronto Marte
                                             I primi frutti
d’Ildegonda gli affetti, il cor, la fede.
                                    T’intendo. Ah, basti
di una colpa innocente a me il rimorso.
                                      Mi fe’ infedele
Que’ son fuori di me; questo in me vedi.
Chi ’l richiamò? L’amante ingrato? Parla.
pianger dentro al mio cor, vicino a quella
ch’ei vi stampò tua cara immago e bella.
                          Ei, del non certo errore,
in questi, non già miei ma suoi sospiri,
sovente ei sospirò. Dillo, Ildegonda.
Sospirò per il re, non per l’amante.
Più non porge il mio cor voti all’orgoglio.
Perché troppo è il piacer, non ben l’intendo.
                             Di Olao, di Roderico
che per lor cenno io ti possegga. Vanne;
ti trovi ’l mio valore. A me giungesti
nunzia di giusta guerra a chi m’offese.
tua vendetta, Ildegonda, o fia tua gloria,
porta il primo spavento a’ suoi nimici;
annunzia il primo colpo al suo rivale.
In vendetta e in amor m’avrai leale.
Giusto valor del suo trionfo è certo.
Con voi vien la ragion, vien Sigiberto.
Chiamisi Asmondo. E nel guerrier de’ Dani
                              E fortunato.
                                                      Ah, questo
                      Spira Regnero...
                                                      Il prence?...
                                                                              E spira,
s’ama, s’applaude e dà pretesto all’armi.
la ragion del temer, tanto è più forte.
                            Esser giusto. A Roderico
sinché non manchi a noi virtù e ragione.
                                         Il tempo accresce
                                                            Nipote,
il non certo rival fa’ che a me venga.
Consiglio o forza i mali miei prevenga.
o me ha deluso o altrui sedotto. Il vero
                             (Siede turbato e tace).
(E il vo’ per mia vendetta o per mia pace).
                                          Or pago è il voto.
sacrificar la mia virtù, il mio nome.
M’era noto in Regnero il regio erede.
                                 E lieto ei regna.
Attendi ancor. Vola or d’intorno il grido
Non più riguardi, Asmondo. Eccomi pronto.
Rendo alla Gozia il successor, s’ei vive.
L’inganno tuo più non mi lasci ingiusto;
assolvi la mia fama e i miei sospetti.
             D’allor parlai che il dissi estinto.
l’utile non desia, desia l’onesto.
Onesto è sempre ciò che porta al trono.
(Sfugge ad arte il cimento). Eh, più sicuro
parla ad Olao. Morto è Regnero o vive?
Vive nel cor de’ suoi ma non nel soglio.
                                In questa reggia istessa
esser può che s’aggiri, ombra amorosa.
Oscuro ei visse e sconosciuto ei giaccia.
A chi ’l regno doveasi, almen di un’urna
                                     Morto ricusa
chi vivo non gli ottenne, i tardi onori.
costui si guardi. Un parlar dubbio e lento
te fa più reo, me più dubbioso. Io voglio
opporre al comun grido il solo Asmondo.
della loro perfidia o del tuo inganno.
tu oprasti sì ch’io fossi stretta in nodo
La Dania assente. Esco dal regno e giunta
taccio la sua Ildegonda e il mio rifiuto,
sposa mi chiama; mi rinfaccia i patti;
al nipote di Olao ma al re de’ Goti.
                                                      È vero.
                                     Chi mai?
                                                         Regnero.
Chiuse morte in fredd’urna i suoi diritti.
Politico è l’amor che il finge estinto.
O cieco è l’odio altrui che vivo il finge.
                       T’ingannò.
                                             N’hai tu certezza?
E meco l’hanno e Sigiberto e il campo.
S’ei vive, a che non viene? A che non chiede
Verrà qual deve e il chiederà con l’armi.
A che l’armi? A che l’ire? Ei venga e regni.
non si scende giammai, se non a forza.
Odi, o Svanvita, e meglio Olao conosci.
Asmondo è in mio poter. Poc’anzi estinto
O mentiscono i Goti o Asmondo è falso.
Regina, addio. Vado costretto all’ire.
disarmarle o il cadavere o il sembiante.
Asmondo il mio perdono, egli il suo impero. (In atto di partire è incontrato da Regnero su l’uscio del gabinetto)
                                   (Intempestivo ardire).
Sì, quel son io. Quanto giurasti adempi.
non so s’io chiami o generoso o giusto,
qual mi dai chiara prova, anima ardita?
Dopo il mio volto a te la dia Svanvita.
(Ah, non si arrischi una sì cara vita).
Più illustre testimon non vo’. Regina,
                                   Egli di Dania è il duce.
e il suo merto gli ottenne e il suo valore
l’alto impero dell’armi (e del mio core).
Forse in Dania viss’io? Quando mai vidi
più questo cielo? O respirai quest’aure?
Deh, licenzia un timor che al pari offende
la reggia omai, qual già mi accolse il campo.
Colà fosti ’l mio duce e tale, o sire,
Guardie, qui Asmondo. (In quali affetti ondeggio).
Sì, venga Asmondo. Ei, che due lustri ignoto
chi può amar le regine e amar sofferto.
Non soffro amor che non sia regio e grande.
                                 L’avrà Regnero.
Tempo non è che più si taccia, Asmondo,
un nome ch’è mia gloria e tua salvezza.
non c’imprima timor di alcun periglio.
Ch’io son Regnero e son di Unningo il figlio.
Che! Tu Regnero? In te sol veggo il forte
                   Piacesse a’ dei che al mio dolore
far lusinga potessi. Ahi, me presente,
spirò il misero prence e ancor ne piango.
e il suo cenere almen si lasci in pace.
Questa fé mi convien, questa pietade.
Sol temerei, se al mio dover mancassi.
Quando neghi ’l tuo re, manchi al dovere.
Deh non t’infinger più. Rifletti omai
Qual di loro è il mendace? Io che far posso?
Qual parte seguo? Ombra real di Unningo,
che in queste soglie ancor ti aggiri e scorgi
per giudicar tra l’impostore e il figlio.
Ei si vanta Regnero e, benché Asmondo,
il possesso di un core e quel di un regno.
                                                          Scopro
nell’inganno la colpa. Amor gl’inspira
Re non saria, s’ei già non fosse amante.
Lo stesso amor, che mi rinfacci, è prova
                             Di’ pur del tuo ardimento;
ma l’altrui tolleranza è tuo fomento. (A Svanvita)
dunque non amo in lui fuor che il suo errore.
troppo incauto amator, reo di due colpe,
l’una ch’osi di amar la tua regina,
l’altra che, qual non sei, di esser ti vanti.
         Correggi l’amor; frena l’ardire.
(Per torlo a maggior rischio io fingo l’ire).
mi si rechi onde scriva. (Ecco il cimento.
nel periglio di Asmondo esser ingrato.
nel seno dell’amante esser crudele. (Va a sedere per scrivere)
la giustizia o l’amor, se in lui prevalga
Salvate, oh dei, l’augusto germe al soglio.
Del suo mentirmi il nobil cor si sdegna.
Scrivi ’l tuo nome a’ piè del foglio e regna. (Dà un foglio a Regnero)
nel duce ardito l’impostor non vedi?
E l’ardir ne condanno e l’impostura.
Il tuo sposo non vuoi nel re de’ Goti?
È questa sì dell’amor mio la brama.
Segna il tuo nome a’ piè del foglio e l’ama. (Dà l’altro foglio a Svanvita)
Scrivi ’l tuo nome a’ piè del foglio e regna!
Segna il tuo nome a’ piè del foglio ed ama!
                         Per amar...
                                                Qual si prescrisse
meta al voler di un re? (Apre con disprezzo il foglio)
                                            Qual si destina
legge al libero amor di una regina? (Fa lo stesso)
(Che sarà mai). (Regnero e Svanvita vanno al tavolino)
                                (Le oscure note attendo).
«Regnero io sono; è mio de’ Goti il regno.
Asmondo mi mentì. Mora l’indegno». (Legge e prende la penna per scrivere ma poi resta sospeso)
Tal se il duce mentì, sia reo di morte». (Fa lo stesso)
Mora l’indegno? E che il decreto io segni? (Guardando con affetto Asmondo)
Sia reo di morte? E che il comando io detti? (Guardando Regnero)
Qual orror ti sorprende? Il solo Asmondo (A Regnero)
Sì, punisci in Asmondo un fido errore. (A Svanvita)
la man disarma? Egli è costui l’audace
se più al tuo core o più al mio trono insidi.
Sì, se in me neghi ’l re, l’amante uccidi. (A Svanvita)
                                                       Eh, scrivi.
Vergo il foglio così. (Straccia il foglio)
                                     Così lo segno. (Fa lo stesso)
                               Deh, signor...
                                                          Qual zelo
                                            E più Svanvita.
commette in questa reggia, in questa ancora
ne avrà la pena. E qui ’l suo fallo istesso
fa mio suddito il reo, benché straniero.
la gloria di cader sotto il mio brando? (Snuda la spada)
                                       Ei per Regnero
si appresta alla difesa e n’esce in campo.
Seguami Asmondo. In libertà ti lascio,
Svanvita, il reo. Questo gradir ti piaccia
fa’ ch’io ritrovi o l’amator pentito
Più fausto avviso e più opportuno a noi
o se penso al tuo merto o se a quel sangue
che unì più volte a’ tuoi grand’avi i miei.
che di me stesso obblii la sorte e il nome.
Piace così... (Accenna Svanvita ad Ildegonda)
                        Distinguasi Ildegonda
da’ tuoi nimici. In lui tu vedi ’l degno
                                  Oh dei! Regnero egli è?
                                                Ed il mio re.
La giusta causa è in man di Sigiberto.
                                        In breve l’armi
mi chiama il cor. Principi amanti, addio.
All’amor vostro io così servo e al mio.
Regnero, io ben sapea che il tuo coraggio
                                                     E il mio
                                        Ah, questo amore,
tolgalo il cielo, ancor fia reo del molto
Un re non può salvarsi a minor prezzo.
Oh dio! Non dir così, s’ami Svanvita.
Ite, o vani timori. A sì grand’alma,
tante virtù, quasi fra gli ostri ignote,
mancar di sue difese il ciel non puote.
la ragion pria che il ferro. Egli a noi venga
da quell’armi ’l diadema. Empié Regnero
col solo nome il cor de’ Goti ed essi
solo col di lui nome empiono il trono.
col disinganno un cor sedotto o in quello
Amico duce, in questo sen... (In atto di abbracciarlo)
                                                     Perdona; (Si ritira con rispetto)
mi offende l’amistà de’ regi amplessi.
Sigiberto col volgo anch’ei vaneggia?
Può vaneggiar chi un giusto re sostiene?
                                         A lui lo scettro
chiede Regnero e con quest’armi ’l chiede.
Son l’onte esca dell’ire in alma grande.
Brami Ildegonda? Hai su quel cor l’impero.
Dal mio braccio l’attendo o da Regnero.
                                     E mostrerallo un soglio.
                                   Egli ne scenda.
                               Al vero erede il renda.
è tua vendetta, il so; tu di un fellone
sei ministro all’ardir. Tu di Svanvita
fomenti l’ire sue men ch’il suo amore.
In essa, in te, nell’empio, io ben ravviso
e l’ingrata e il nimico e l’impostore.
Impostor chi desia degli avi ’l soglio?
Sì, se germe degli avi Asmondo il nega.
                                       Impostor, s’anche Svanvita
solo il duce de’ Dani in lui m’addita.
(Saggia è l’eccelsa donna). Olao, qui cedi
a Regnero il comando o riedo al campo.
miglior fé, più bel zelo a’ Goti, a’ Dani.
Degno oggetto di entrambi è Roderico.
La fede, il zelo è per Regnero. Addio.
Gli amici ed i vassalli, il giusto e l’armi
                                                  E dove?
Nella battaglia. Olao, colà ti aspetto.
E la battaglia in pro del vero accetto.
spinge il ciel quelle schiere. Alle vittorie
chiama il ciel le nostr’armi. In quelle mura
Andiam. Sia la sua gloria un vostro impegno
                                                              Infido
                                                        In queste
trovo rischio e dolor; ma non si onori,
Sì, vincerà ne’ dani suoi Svanvita;
perirà l’impostor ne’ goti infidi.
così sperando ha qualche pace il seno.
Qui giunge il duce. (A che mi astringi, o tema).
mentì il grado real, sappiasi). Ascolta. (A Regnero)
                                          Nacqui al comando.
                                  E a te lo provi il brando.
della bella è il tuo amor, che senza prezzo
                               (Tu mi tormenti, o spene).
                                         Con tale offerta
ti mostri reo. Non ben possiede il tutto
e la Gozia e la Svezia. Io non tradisco
il mio natal con la viltà dell’opre.
Dal rifiuto già sai ch’io son Regnero.
Ma quando anch’io nol fossi, è prezzo vile
per il cor di Svanvita un mondo intero.
                                      Cede talvolta
a costanza d’amor ragion d’impero.
parlami, Asmondo. In lui veggio Regnero.
Signor, se non a me, credi a Svanvita.
di Unningo il figlio. A che più frodi? Esponi.
Vuoi le minacce oltre i comandi e i preghi?
(Perché regni sicuro, il re sì neghi).
non è più tale in Gozia. Altro monarca
                                       Stelle, che sento!
con la vittoria entro le mura i vinti,
                                Seppe di Frisia il duce
rispettar quella fronte. Ei torna illeso.
                                     Chi sia Regnero
D’ira, di gelosia, di sdegno avvampo.
Che più mi fermo? Ah, si contenda almeno
al vincitor l’intera gloria. (Impugna la spada e in atto di partire incontra Olao)
                                                Arresta,
                               A Sigiberto...
                                                         Invano
ti opponi al suo valore. Egli con l’armi
della città le strade inonda e ad esso
                          (Amico eroe).
                                                      (Spada felice).
si cerca il trono e vi si vuol Regnero.
                                            E vivo e regno.
Come! Seco l’ha il campo. Asmondo istesso
soffre ma non applaude al tuo ardimento.
                                                Or sì ch’io spero.
si ferma la vittoria e i cenni attende.
E l’onor di sue braccia il re ti rende.
Marte arrise al valore, al merto amore.
Al mio timido amor rimetti ’l torto.
A sì bel zelo il tuo tacer perdono. (Ad Asmondo)
Il valor, la virtude ha qui un bel campo (Ad Olao e Roderico)
pur un sospir che l’atto grande offenda.
del ben che perde ha Roderico il core.
Basti ad Olao la sua Norvegia e i regni
cerchi fuor della Gozia a’ suoi nipoti.
                             Io giuro pace.
                                                        E pace
Giusto favor che i merti suoi ne dice.
In braccio alla virtude io son felice.
Qui meco il soglio avrai, se a te il degg’io.
Il mio vi aggiungo e nel tuo seno io godo.
la comune allegrezza e il regno e il nodo.

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