Ah traditori! Olà, custodi, aita.
Inseguitegli, o fidi, e nel lor capo
recatemi un trofeo del valor vostro.
Tanto deggio al tuo amor.
che in me trovi la moglie e non l’amante.
Sposa di un anno ancor nemica?
l’ombra vien di Orvendillo, il morto sposo,
a turbar nel tuo letto i miei riposi.
«è ’l carnefice mio. Queste ferite
quel braccio istesso alza già il ferro e in seno
già lo vibra di Ambleto, il caro figlio.
E tu, barbara madre, empia consorte,
e lo soffri? E lo abbracci?» Oh dio! Dagli occhi
l’ombra col sonno e sol vi resta il pianto.
se non di amor, di sicurezza almeno
Odi, Fengon. Son tua nemica, è vero.
la mia vendetta. Esser vorrei tuo inferno
per dare a me più furie, a te più doglie;
ma con tutto quest’odio io ti son moglie.
fuor di periglio, o re. (Perfida sorte!)
Di Gerilda l’amor mi tolse a morte.
Goder poss’io con mille insidie al fianco?
meglio intendi il destin. Vinta è l’Allanda.
Trofeo di Valdemaro, il duce invitto.
Che puoi temer d’un forsennato? Han tolto
tante sciagure il senno a l’infelice.
Siffrido, un gran timore ha un grande ingegno.
Qual frutto avrai? D’odio e d’infamia.
(Anch’io ne avvampo). È vero.
De’ suoi primi sponsali unico frutto.
Può a fronte di beltade o di natura
l’arte coprirsi? E se pur anche Ambleto
sforza gli affetti e fa tacere il sangue,
fanne a mensa real l’ultima prova,
che fra le tazze il simular non giova.
Saggio consiglio e non si tardi l’opra.
vanne, amico, a dispor. Me chiama intanto
di Valdemaro il merto a la sua gloria.
Già serve al tuo destin sorte e vittoria.
la morte fuggirai ch’io ti preparo.
Al caro padre ed al german diletto,
questa vittima io deggio e ’l fatal colpo...
(Qui Veremonda? Il suo dolor mi accora).
comincio a meritar, se tu la piangi.
La pietà di un fellon giusta la rende.
Ciò che par fellonia, sovente è fede.
Arte è d’anima rea finger virtude.
Mal si giudica il cor sol da l’esterno.
Ma l’opre sono il testimon del core.
Non muove il mio che zelo, fede e onore.
rispettar l’uccisor, servir l’iniquo
mirar da l’empio, e sofferirlo e amarlo,
il regno desolato e sin ridotto
a la miseria, oh dio! degna ch’io sempre
l’accompagni col pianto, il regio erede,
questo è onor? Questo è zelo? E questa è fede?
o diventa mia colpa o mio tormento.
Credimi reo; mi assolverà l’evento.
Il so. Non ha discolpa il tradimento;
ed è lusinga... Ah! Che vegg’io?
l’aurora in cielo, or ch’è prigione il sole.
ma senza speme, intendi ben, di Apollo,
in quel ciglio, in quel labbro Amore assiso.
(L’idea de’ primi affetti ei serba ancora).
Ambleto, ormai da’ pace...
Quest’Ambleto dov’è? Dov’è?
Dove i vassalli? Veremonda? Il trono?
Ambleto è morto. Io l’ombra sol ne sono.
(Core di sì bel seno almen foss’io).
(Tu non sei senza cor, se tieni il mio).
Alor che la mia pace a me fu tolta.
Dov’è il mio cor? Forse in quel sen racchiuso? (A Veremonda)
e ’l mio povero core è tutto foco.
Veremonda, che tardi? A Valdemaro
la tua dimora il più bel fregio invola.
(Così col bel che adoro io resto sola).
veder senza morir più non poss’io,
perché il duol, ch’ei non sente, è dolor mio.
(Or si tenti ’l destin). Prence.
Partito è ’l sol; tutto si oscura il giorno.
Vanne al destino e di’ che ormai
faccia spuntar quel giorno, in cui si stia
se del tuo foco ai rai qui più ti aggiri.
Sembran furie e son grazie i suoi deliri.
Questa sola mi resta, iniqui fati,
per le miserie mie strada infelice?
da la madre, da’ sudditi, dal sangue,
dal pudico amor mio, dal mio valore,
m’imponete ch’io deggia ad un inganno?
Pur se giova, si finga; e i giusti sdegni
cuopra follia, purché si viva e regni.
Eccomi, Valdemaro. A’ tuoi trionfi
servano pur di Veremonda i ceppi.
Tuo pregio è ch’io li tragga ed è mio vanto
trargli in trofeo senza viltà di pianto.
S’io per tuo scorno o per mio fasto agli occhi
de la Dania ti esponga, a te lo dica
a infelice beltà chi tal la rese.
Tardo è ’l riparo e la cagion n’è vile.
Non condannar di tua beltà i trofei.
son ribelli al mio cor fin gli occhi miei.
Fra queste braccia ed a l’onor di questi
vieni, illustre campione, invitto duce.
premio si dee. Tua sia la Falstria. È degno
che stringa scettro il difensor d’un regno.
con l’armi tue, con la tua gloria. Pure
vuoi conceder, signore, ecco i miei voti.
Falstria rimanga. In dono od in mercede
sol si dia Veremonda a la mia fede.
si lasci in libertà ch’ella risponda.
La ragion, che ti diero armi e fortuna
su la mia vita, è tuo trofeo. Di questa,
Valdemaro, disponi. Io son tua spoglia.
stendere ancor sovra gli affetti miei
l’autorità della vittoria e ’l frutto,
soffri ch’io ’l dica, è tropp’orgoglio, o duce.
le tue conquiste alcun poter non hanno.
Tu se’ mio vincitor, se vuoi mia vita;
ma se pensi al mio cor, se’ mio tiranno.
E tu, signor che in fortunato impero
reggi la Dania ed hai propizio il fato,
non ti abusar del suo favor. Sostieni
contro un superbo amor la mia costanza;
su le perdite mie l’altrui baldanza.
non troverai, qual pensi, un re nemico.
Rasserena il bel volto e tutto attendi
da un re che ti assicura (e che ti adora).
(Delusi affetti, e non morite ancora?)
Veremonda si oppone, il re ne assolvi;
pur non andrai senza mercé. Qui tosto
meco ti assidi. (A Veremonda)
O ciel! Deh! Col mio duolo
del trionfo il piacer non si funesti.
Meco piangete, o sfortunati amori.
A un sol passo che inoltri, avrai la morte.
E si apron tombe ove i trionfi attendi.
La vita, sì, per mia sciagura, iniquo.
Ma chi l’inganno ordì? Come, o Gerilda,
si taccia il traditor. Dir quel dovea
la moglie di Fengon. Tacer dee questo
Chi mi lascia in timor, mi vuole in rischio.
sin da la mia pietà la mia vendetta.
salvo per me, per me di vita incerto.
mi giungano a l’orecchio i tuoi perigli,
che di me non avrai miglior difesa.
tanti nemici e tante insidie intorno
che possibil non è la tua salvezza.
Stanno l’odio e la morte a le tue soglie;
temi ciascun; sol non temer chi è moglie.
più severo favor? Pietà più cruda?
Frena l’accuse. In Valdemaro
l’infedeltà d’un re. Tu sei sua sposa.
Ti sorprende la gioia? In Ildegarde,
duce, avrai la mercé del tuo valore.
Sì, l’arte io so d’una beltà ritrosa.
Eh! Che i grandi in amor legge non hanno.
Vanne, o perfido, va’. Sentimi, o duce,
non è disprezzo, no, non è rifiuto
il negarti la destra; è una ragione
del cor ch’è già perduto in altri lacci.
Con l’esempio del mio, lodo il tuo core.
Siegui ad amarlo. (Essa un rival mi toglie).
Segui e spera mercé. Le sue catene
Eh! Siegui e spera. (Parte)
pendé sul capo al regnator tiranno.
E due volte per me non cadde l’empio.
Ma, regina, perché? Tu stessa al colpo
sproni la fede e poi la man disarmi?
Chi sa oprar e tacer, può vendicarmi.
Solo a Gerilda io confidai l’arcano.
Far che ’l sappia Gerilda, egli è un tradirlo.
tacer potrà ciò ch’io tentai?
Se la trama perì, l’autor n’è salvo.
cui dal trono sovrasta odio e periglio.
Qui ’l re. Cela il tuo duol.
persiste ancor nel suo tacer Gerilda?
Piace, perch’è tua pena, a me l’arcano.
Furor ti regge e tu ragion lo credi.
d’un fellone ti è a cuor, più che la mia,
ceda l’amor. L’esempio tuo si siegua.
L’odio, il furor non si risparmi omai.
Tu mi chiami tiranno e tu mi fai.
Dove pensi ferirmi, il cor mi dice.
Moglie non temo e temo genitrice.
lagrimosa al tuo piè che viva il figlio.
pera anche il regno, anche Gerilda mora;
ma il carnefice tuo fia vivo ancora.
Qui, Siffrido, saprò se Ambleto sia
quand’ha chi osservi, ha i suoi riguardi e tace.
E beltà, quando è sola, è ancor più audace.
mi si accende nel sen voglia amorosa!
tarlo di gelosia, taccia l’affetto.
chi ti tolse l’impero, a me chiedesti
di frenare il desio di Valdemaro.
Per me non fosti al suo trionfo esposta,
E fu dono gradito il mio contento.
Or di mia cortesia, de’ doni miei
Ambleto già ti amò; tu pur l’amasti.
Vo’ saper s’ei sia folle o s’ei s’infinga.
rimanti in libertà. Lascia che sfoghi
senza contrasto il genio antico o parli
in sua balia, qual parla altrui, da stolto.
Ei vien. Qui mi celo e qui l’ascolto. (Si ritira)
(Ch’io conspiri a tradir l’idolo mio?)
(Dopo tante tempeste ecco una calma).
(Son pur solo, o speranze).
(Or le dirò che sol d’amor vaneggio).
O del mio cor fiamma innocente e chiara,
quest’è pur... Ma che fia? Né meno un guardo?
(Mi fa ingegnosa il rischio suo). (Scrive col dardo in terra)
Eccoti al piè, misero sì ma sempre...
(Incauto ei cancellò le fide note;
ma le rinnovi il dardo. Amor mi aita). (Torna a scrivere in terra col dardo)
(Son perduto. Ma infida e sorda e ingrata
sappia quant’io l’adoro; e s’ella poi
il ferro del mio dardo. Ei del tuo sangue
(Che leggo? «Il re ti ascolta».
Intendo). Lascia, sì, lascia, mia dea,
ch’io baci un sì bel dardo.
Ma nel baciarlo ei mi addolcì le labbra.
Dimmi, l’hai tu di nettare o di mele
sparso, Cintia gentil, Cintia, mio nume?
Son Veremonda che Orvendillo un giorno...
Perché? Mel divoraro i lupi.
(O cauto o forsennato, ei dice il vero).
Senti, Diana. Han queste selve un mostro
fiero e crudel, degno de’ nostri dardi.
Tu mi reggi la destra e a te divoto
ne recherò l’orrido teschio in voto.
tra quelle frondi. O che bel colpo!
Il re? Ah, ah, ah. Un satiro tu sei;
guardati, bella dea, crudo e lascivo,
nemico de le leggi e degli dei.
(L’ira qui può tradir la mia vendetta).
forse delira e ’l suo maggior delirio
fu ’l partirsi da voi, luci adorate.
A’ tuoi lumi ed al tuo core.
troppo debol virtù, se non spaventi
sì temerario ardire! Ardir tropp’empio,
se de la mia virtude oltraggi il lume!
Empio, no, nol chiamar. Chiamalo cieco,
perch’è un ardir d’amore.
Tu re marito a Veremonda amori?
Non sono eterne al cor d’un re, mio bene,
si aggiungerà l’indegno amor d’un empio?
vinsi tutto il furor. Vincasi ancora
tutto il poter di così rea baldanza
ed abbia più trofei la mia costanza.
Tanto seguì. L’arti deluse e i vezzi
Pazzia già certa un fier rival ti toglie.
E pur vive, Siffrido, il mio timore.
Se ragion nol sostiene, è un timor lieve.
Basta che sia di re, perché sia grande.
che ribelli al mio scettro abbiano i Cimbri
uscirò al campo e, me lontano, ad essa
vaga di dare al figlio i dolci amplessi,
farà condurlo a le sue stanze. Iroldo,
de la reggia custode e a me fedele,
starà ivi occulto ad osservarne i detti.
E ’l vero intenderà de’ tuoi sospetti.
quando fia d’uopo, a la regina.
(ma de le trame avvertirò chi deggio).
E in tale indugio, o sire,
la gloria d’inchinarti abbia Ildegarde.
Grata del nobil dono a me ten vieni.
Il più forte guerrier che stringa acciaro.
Ornamento del regno, amor del soglio.
Con tutti i suoi fregi io non lo voglio.
che non son più ’l tuo amante. Il tuo re sono.
E ad un re che fu amante, io rendo il dono.
Se nuovo amor non ti avvampasse in seno,
I tuoi spergiuri in libertà mi han posta.
Scuopri l’oggetto e l’imeneo ne approvo.
A chi già mi schernì, poss’io dar fede?
Scettro ancor non stringea chi a te la diede.
Il crederti or mi giova. Adoro Ambleto.
e lo lascia regnar sovra il mio core.
Compiacerti non posso, incauta amante.
Un re l’obblia, s’ella gli torna in danno.
Dovea farmi più accorta il primo inganno.
(Si lusinghi costei). Teco, o Gerilda,
conspirano a’ miei danni anche i vassalli.
m’obbliga a l’armi. Io partirò. Tu sola
mia facile conquista anche il tuo core!
Troppo fosti crudel per non averlo.
Regina, odiami pur; le insidie occulta
né più strugga la man del core i voti.
(Non s’irriti un amor che salva il figlio).
Signor, meno di affetto io ti richiedo.
Lasciami l’odio mio con più innocenza.
tutto resti in balia l’alto comando.
l’ultimo forse. Io se cadrò fra l’armi,
tu sarai sola il mio pensiero estremo.
Felice me, se mi perdoni estinto
e se di qualche fior questa, ch’io bacio,
candida mano il freddo sasso adorna.
Va’, pugna, vinci e vincitor ritorna.
Son comuni i miei torti anche a Gerilda.
Nel vicin bosco ei stesso
scoprì l’ardor. Con quale orror, tu ’l pensa.
Tanto egli osò? Tu orror ne avesti?
favellar può di amore un re marito
a vergine real senza oltraggiarla?
E tu la grave offesa a me confidi?
A te che sei consorte, a te che in lui
non ritrovi, lo so, che il tuo tiranno.
Non mi affligge il suo amor; piango il tuo inganno.
quando cerca tradir, finge più amore.
sia senso o bizzarria, d’alma regnante
questa mostrar sovranità di affetto
Credi meno ad un empio, io ti consiglio.
O troppo, troppo semplice Gerilda!
Non mi offende il tuo amor, che non vi è donna,
credilo, sì, donna non v’è che irata
oda giammai d’onesto amante i voti;
voglion ch’io sia crudele e tu infelice.
Amo Ambleto. Sì, l’amo. Hai per rivale
un che nacque tuo re. Tu nel mio core
onora il di lui grado. Ha la tua fede
ed ha la tua virtù questo dovere.
che tu sveni al suo nome i tuoi desiri;
in questo sen. Qui lo minaccia, o ardire!
e qui l’insidia il re con empia brama.
Dillo tiranno e tale ei mi ama.
Sì, l’iniquo mi ama; e questo
degli acerbi miei mali è ’l più funesto.
Flora, dimmi, sai tu l’aspra sventura (A Veremonda)
(O ciel, quanto è vezzoso!)
ne raccontò Zeffiro amico il caso.
Deh! Accorrete in difesa a fior sì vago.
(Seguir conviene i suoi deliri). Taci,
che già fuggì l’infida serpe altrove.
Ma torneravvi. Tu di acute spine
arma quel fiore e ’l custodisci illeso. (A Veremonda)
il suo nemico, e tu col piè lo premi. (A Valdemaro)
Accheta il duol. Me in tua difesa avrai.
qual s’erge al ciel denso vapor che oscura
di Febo i rai. (La gelosia mi uccide).
(Tormentosi deliri!) Valdemaro,
l’onor mio, la mia pace; e mentre in essa
la tua virtude in mio soccorso io chiamo.
chiuso trattieni? Io vo’ che spieghi i vanni
prima a’ bei rai de la mia diva e poscia
Non sai che il re de’ cori io sono?
(Mi fa dolor benché rivale). Io parto.
Di’, non sei tu di questo ciel l’Atlante?
Così lo reggi? Di’, così ’l difendi?
Ma questo, che sospendi al nobil fianco
illustre arnese, a te che serve?
stromento a’ miei trionfi.
che sparse l’innocenza, ancor fumante.
Vanne; e ad uso miglior da te s’impieghi.
Venga la clava e si apparecchi intanto
de’ mostri il sangue e de’ tiranni il pianto.
Sei reo con Veremonda, alor che l’ami;
da un risoluto ardir la sua difesa.
non è de l’amor tuo saggio consiglio.
non giugni ancor? Dacché mi trasse a l’are
vittima più che sposa il fier regnante,
svelto dal sen mi fosti; e più non vidi
quel volto, o dio! sol mia delizia e gioia.
l’esercito fatal de l’ire mie;
e giustizia e ragion ne sieno i duci.
E sangue io voglio. (Entra in una stanza)
Deh! Ferma, Ambleto. E non distrugge amore
Nemico qui? Me non ravvisi, o figlio,
Sei mia tiranna e mia nemica. (Entra in un’altra stanza)
Fu verace Siffrido. Or vada, vada
al tiranno crudel nunzia di morte.
l’ira del re. So che l’ucciso Iroldo
Mio caro figlio, in questo pianto almeno
Non ti ravviso, no. Madre ad Ambleto,
consorte ad Orvendillo era Gerilda.
Era in lei fede; era onestà e virtude.
macchiasti il regio letto e di Orvendillo
la memoria tradisti, altro non sei
che adultera per lui, per me matrigna.
Smarrite or son le tue sembianze e teco,
sul trono ancor di regia morte intriso,
regna il vizio e l’orror. Non ti ravviso.
è vero pur che non sia stolto il figlio?
che mi torria questa sciagura almeno
al senso de’ miei mali e de’ tuoi scorni.
Vieni, o viscere care, al sen materno...
comuni ad un fellone a me tu porgi?
che già stancar di un parricida i baci?
Va’, misera, e li serba a chi già infama
il tuo soglio, il tuo letto e la tua fama.
a’ rimproveri tuoi chiuso l’udito.
Ma già ’l silenzio è stupidezza. Ascolta.
Che dir potrai che te più rea non mostri?
a’ novelli imenei cangiando in ara?
Ah! Che vi andai costretta. Io donna e sola
che far potea col regnator lascivo?
Può mancar mai la morte a un generoso?
in corte di un tiranno, alor ch’è dono.
E chi potea sforzarti ad abbracciarlo?
Pria che sua moglie, esser dovea sua preda
e lui drudo soffrir pria che marito?
Dovevi almen, fra’ primi sonni immerso,
nel talamo real lasciarlo esangue.
Ahimè! Gerilda alora era sua moglie.
Anzi più che sua moglie era sua amante.
siati pur caro il tuo novel consorte.
Soffri che ombra dolente e invendicata
su le sponde di Stige erri Orvendillo
sotto il duro comando e, se non basta,
che vittima di stato a’ piè ti cada
quel che chiami tuo figlio, iniqua madre.
che moglie ti ripudi il re spietato.
Questo forse n’è ’l giorno; e ’l favor solo,
del tuo ripudio è ’l disonore e ’l duolo.
Veremonda è rapita; e Valdemaro
ed ei la tragge al vicin campo.
Non più, non più. (L’orme ne seguo). Udite.
Siffrido, io son perduta. Ambleto uccise
poc’anzi Iroldo. Ei colà giace.
E ne le piaghe sue teme la madre.
il perdono real facile io spero.
Non paventar. Avrai per la sua vita
da’ prieghi tuoi, da la mia fede aita.
M’intese il prence. Egli d’Iroldo in petto
del senno e del valor scolpì le prove.
Per servir al mio sdegno a lui si serva.
da la sua fedeltà la sua vendetta.
Qual, duce, è ’l tuo pensier? Dove mi guidi?
Già comincio a temer qualche tua colpa.
Altra colpa non ho che l’amor mio.
da’ tuoi soldati? Intendo. Valdemaro,
il tuo credei soccorso ed è rapina.
Anche questa rapina è tuo soccorso.
Ambo ci guida al disonore un ratto.
Espormi a un mal peggior, quest’è salvarmi?
riedi a la libertà, riedi al tuo soglio.
Quel che lasci è prigion. Quel dove vieni
lo moverò, riparator dei mali,
le tue provincie a liberar dal giogo.
siegua altro amante? Esser non può, cor mio).
questa giustizia. In te stimar che un ratto
sia pietà, non amor, virtù, non senso.
Ma basta ad offuscar limpido onore
un sospetto d’error, non che un errore.
E quest’onor, se resti, è in più periglio.
Sii tu meco in difesa e nol pavento.
per ripormi sul trono; e non l’avrai
troppo è forte il tiranno; e ’l popol vile,
avvezzo a tollerar, l’odia ma ’l teme.
Combatterlo da lungi è più sicuro.
applaudirò de’ tuoi trionfi al grido.
Nulla temer da un generoso amore.
Meno amor ti richiedo e più virtute.
Perder qui tempo è un trascurar salute.
Ah! Vile. Anche la forza? È questo, è questo
il generoso amor, di cui ti vanti?
vuoi pianti e prieghi? Eccoti prieghi e pianti.
Quasi, ah! quasi mi vinse un sì bel pianto.
Ma ’l lasciarmi sedur saria fierezza.
ma non speri ’l tuo amor che odio e disprezzo.
Di salvarti or desio, non di piacerti.
che ogni mio passo un tuo delitto sia.
Salute e amore ogni riguardo obblia.
Stelle, destin, chi mi soccorre?
senza oltraggiar me, tuo signor, non puoi.
O cieli! Ambleto, idolo mio, son questi
s’agita il viver mio, fingo i deliri,
dove il periglio tuo, perdo i riguardi.
(Credo a pena a l’udito, appena ai guardi).
Ten prescrivo l’emenda e a te, con quanto
l’esser principe tuo, parlo e comando.
ma di un amor che sia di ossequio e fede.
Essa campion ti chiede e non amante;
io suddito ti voglio e non rivale.
difeso è un re dal suo destin. Costoro,
pria che guerrieri tuoi, fur miei vassalli.
ch’io principio a regnar, mi è fausto e caro
che il primo ad ubbidir sia Valdemaro.
E Valdemaro il sia. Mio re già sei.
non può darti il mio cor senza un sospiro.
La tua virtù nel tuo dolor rimiro.
la magnanima idea. Quell’armi istesse,
che voleva l’amor, muova il tuo zelo.
Sì, né più qui si tardi; io vado al campo.
la persona real. Prima il suo nome
rispetto vi disponga e amor vi desti.
vostra difesa i miei guerrieri. Al piede
darà moto il periglio, al cor la fede.
Diletta Veremonda, egli è pur tempo
che a cor franco io ti parli e ch’io ti abbracci.
Ambleto, anima mia, son così avvezza
al funesto mio duol ch’esser mi sembra
Quando è immenso il piacer, meno si gode.
Temer nel bene è un diffidar del cielo.
Goder nel rischio è un lusingar le pene.
Il poter di un tiranno e l’altrui frode.
Virtù ci affidi. Abbiam per noi, mia vita,
quella di Valdemaro e più la nostra.
non occupi timor di male incerto.
Piacer tranquillo è guiderdon del merto.
Fugace godimento! Ecco il tiranno.
fuor della reggia? Tu prigion? Tu stolto?
la libertà mi tolse e le grandezze,
chinai la fronte al mio destin; ma quando
ti renda il ben che ti rapì fortuna?
La gloria e non l’amore a me lo renda.
Pluton tu sei. Cerbero è quegli e questa
involar Veremonda al mio potere,
non è stolto ma ’l finge.
leggi qual sia de la mia fuga il reo.
Son questi tante fiere. Io sono Orfeo.
Son questi, Valdemaro, i tuoi custodi.
perdona a l’amor mio le colpe. Offeso
il tuo sen non credei da le mie brame;
e quando a la rapina io mi disposi,
non di torla al mio re ma al tuo rigore.
(Reo si finge con l’empio).
perché l’armi ha in balia. Seco si finga
tutta de’ falli tuoi dono la pena.
Vanne a la reggia e svena al mio piacere
(Sapesse almen quant’innocente io sono). (Parte)
del mio furor costui sia oggetto. A voi
la custodia ne affido. E tu prepara
quell’alma contumace e quel bel volto
(Quel bel seno delizia ad un tiranno?)
(Ch’io deggia amar ne’ suoi piaceri i miei?)
E sarà la sua morte un tuo consiglio?
Sospenderla poss’io, se il re l’impone?
E se l’impone il re, puoi tu soffrirla?
Soffrir convien ciò che impedir non puossi.
Se’ reo di più congiure e reo, Siffrido,
tacqui sinor? Ma senti, ingrato, a questi
conto mi renderai con la tua vita.
Farò più che non vuoi per ubbidirti.
E sarà il mio tacer la tua mercede.
Più che il timor, mi moverà la fede.
tu impiega il zelo; io tenterò l’amore.
traggo il passo primier che Iroldo è ucciso,
Veremonda è rapita, Ambleto fugge;
e colpevol ne sei tu sola, o donna.
Chi può, né ’l ripara, il mal commette.
Sono in nostra balia l’opre del caso?
È dover di chi regge il prevenirlo.
Non è sempre poter ciò ch’è dovere.
Ma fia sempre tua pena il mio potere.
Signor, se ami la madre, il figlio serba.
Ama più di sua vita il mio riposo.
Passò in odio l’amor? Troncar ti aggrada
i giorni miei nel caro figlio? Almeno
mi uccidi in me, pria che svenarmi in lui.
Piangi, o donna, i tuoi mali e non gli altrui.
che, presente Gerilda, esca e sfavilli
l’immenso ardor che in me que’ lumi han desto.
(Tanto sugli occhi miei?) Signor, se godi
finger per tormentarmi...
in fronte di costei più non si onori
il titolo di sposa e di regina.
e libero comandi. Quando amore
le sue leggi prescriva a Veremonda,
alora ella si opponga, ella risponda.
La non creduta mia sciagura è dunque
dopo la marital giurata fede,
mi diè d’amor tenere prove, ed oggi,
ne la vita due volte a te serbata,
Sì, ti ripudio. Oggi mi piace
per farti più infelice esser più ingiusto.
ma sarà il mio disastro il tuo gastigo.
ma perderai tu ancor la tua difesa.
Moglie, è ver, ti abborria; ma l’odio alora
costretto a l’impotenza era mia pena.
che me ne assolve e in libertà rimette
di vendetta e di sfogo i miei furori.
Parti e di un re più non turbar gli amori.
offerirti una man che ti alza al trono.
Da’ mali altrui felicità non cerco.
Che or or contaminate ha un tuo ripudio?
Nasce da questo sol la tua grandezza.
Me la insegna a temer l’altrui caduta.
Provoca l’ire chi ’l favor rifiuta.
Meno de l’amor tuo temo il tuo sdegno.
qui se le guidi e se le lasci Ambleto.
Febo a l’occaso. In vuote piume, o bella,
non vo’ languido trar freddi riposi.
Tu vi verrai preda o consorte. Ambleto,
le pene soffrirà di un tuo rifiuto.
Sì, Veremonda, la sentenza è questa;
pensaci, o la tua mano o la sua testa.
o la tua testa o la mia man vuol l’empio.
Quello che più opportuno è col tiranno,
Ah! Caro, a la tua vita, a l’onor mio
Ed in quest’ombre avrai soccorso. Fingi.
E tu pur amorosa a lui rispondi.
Chiederà i dolci sguardi.
l’ire n’esiglia e li componi al vezzo.
Guiderammi agli altari...
la marital non osservabil fede.
Che più? Che più? Vuoi ch’ei mi tragga, o dei!
al talamo abborrito e ch’io vel segua?
questo il termine sia de’ suoi contenti.
Ambleto, o tu vaneggi o tu mi tenti.
Io vaneggiar, quando son teco e solo?
Tel detta una viltà. Perder la vita
e spergiura mi vuoi, perché sei vile.
Io vil ti vo’ spergiura? Amo me stesso
lo che, se mille vite avessi in seno,
Ne temi ancora? I tuoi sospetti ingiusti
sul mio sangue cancelli. Addio. Già vado
tutto amor, tutto ardire al fier regnante.
Suo rival, suo nemico a lui mi svelo
non so se disperato o generoso,
che sia insieme mia gloria e tuo riposo.
a gelosa onestà. Pronta già sveno
al tuo voler gli affetti.
m’avrai nel maggior uopo; e Valdemaro
l’armi in nostro favor; ma ’l re, che quindi
volgeva alor ver la cittade il passo,
per via il rattenne e l’obbligò al ritorno.
Fummo sorpresi. Ei traditor ci parve
ma la nostra sventura era sua pena.
diemmi di fede. Io te n’accerto; e solo
manca l’opra a compir la tua lusinga.
Servasi al tuo destino e amor si finga.
Son già i mezzi disposti. Io senza colpa
l’usurpator deludo e ne’ tuoi cenni
d’un legittimo re sieguo la sorte.
Si confidi l’arcano anche a Siffrido.
Il suo più fier nemico in lui si asconde.
che, se di questi sassi alcun ti ascolta,
Che più di me se’ stolta.
Amor conosci? Ove il vedesti mai?
porta in fronte per te dardi e facelle.
Il ciel vuol ch’io sia vostro, o luci belle.
che mai non va senza speranza amore.
Su, porgimi la destra. E tu la prendi.
T’intendo sì. Tu se’ qual rosa appunto
che brama il sol vicino e poi ritrosa
ma ’l modesto rossor vincasi; e intanto,
del laccio marital gli applausi io canto.
Poiché il vuole il destin, ti chieggo, o bella,
Di cor che mi discorri? Un forsennato
serve a te di ragione, a me di legge?
anche gli amplessi e con gli amplessi i baci?
Quel sen che tutto ardea per Veremonda?
perdei la mia speranza e che il dovere
vinse i desiri miei, per altro foco
che per quel de’ tuoi lumi, egli non arde.
E in difetto di altrui si ama Ildegarde.
perda la mia speranza e che il dovere
vinca i desiri miei; forse...
mi comandi ch’io t’ami, alora forse...
Alor ti amerò. Questa è la fede.
L’alma, che altro non brama, altro non chiede.
e in esso il grado, in esso il nome onoro;
Se Ambleto, perché folle, a lui mi dona,
Ambleto, perché vago, a lui m’invola.
La vendetta più cauta è la più certa.
Ma talor la tradisce un troppo indugio.
Si affretti. Io ne la reggia ho i miei guerrieri;
eglino il cenno ed io ne attendo il tempo.
chi sa, chi sa, forse perir l’iniquo
farà pria del tuo ferro il mio veleno.
Comunque ei cada, il suo morir ci salva.
odio di questo cor, non sei ben lieto.
Io de’ miei torti e testimonio e pompa?
vuol che tu sia regina e vendicata.
di far noti a Gerilda i tesi inganni.
Al re, più che nemica, ella è consorte
e due volte, a me infida, il tolse a morte.
senza sdegno cader da un regio trono?
mi renderà scettro e marito). Amici,
plaudo al vostr’odio e ’l mio vi agiungo. Dite.
Qual n’è ’l pensier? Chi n’è ’l ministro? E quando?
Gerilda offesa e ripudiata il chiede.
senza pena non fia. So i congiurati,
se non la trama. Andrò...
venga il ripudio tuo, venga il tuo danno.
che Valdemaro è suo nemico. Digli
che le ruine sue tenta Siffrido.
di questo, che non sai, grave segreto,
eccone il nome. Odilo e trema, Ambleto.
mi vuole il mio destino. Ambo delitti
che col pianto l’orror chiaman sul ciglio.
L’uno ti è traditor, l’altro ti è figlio.
E qui col traditore è ’l tradimento.
Pur men fiera ti veggio. (A Veremonda)
Or vanta il tuo dovere e la tua fede. (A Gerilda)
È dono sì; ma di Gerilda il duolo
fa che ei sembri mia colpa e mia rapina.
E l’onte aggiugni, o sconoscente, ai danni?
per trionfo ti vo’, non per accusa.
Ma, be’ lucidi rai, meno severi (A Veremonda)
a mirar le mie fiamme io vi vorrei.
Così dicea l’ingrato un giorno a’ miei. (A Veremonda)
che troppo è fral de la tua destra il laccio.
ma più la tua beltà da lei mi scioglie.
(Udisti, udisti? Ei non ti vuol più moglie).
O che fiamme! O che foco! Un venticello
qui tosto venga. Io già lo prendo e tutto
Sediam; ma dimmi, adesso è notte o giorno?
Ah, sì, le veggio. O son pur chiare e belle.
che già son giunti ove hanno i numi il trono.
che anch’io trionferò. Bacco vedete
che renderà soggette al carro eccelso
Su, lodate col canto i miei trionfi;
risponderan con l’armonia le sfere.
canzon degna di me. Udite, udite.
Festeggi dunque Amore. Io de le selve
nume e custode un tempo, a voi ne trassi
alcun de’ miei seguaci. Eccoli. Amico,
Col pregiato liquor bramo, Siffrido,
del genio mio felicitar la sorte.
Sia pur felice il tuo primiero affetto.
Son giudice a costei, non più suo amante.
Tantalo o Radamanto? Io berrò pria.
al re, sì temerario, i primi sorsi?
A la salute mia beva Giunone. (Presenta la coppa a Gerilda)
Lascia, o Siffrido, in libertade il folle.
e rallegrati il cor. Tosto ritorno). (Parte)
(In periglio Gerilda? Ahi! Che far deggio?)
e sì vil non son io, benché negletta. (Getta la coppa)
(Si perdé nel velen la mia vendetta). (Parte)
(Mi arrida il ciel). Con tanto foco intorno (Tornando con coppa in mano)
ha una gran sete il sol. Prendi. Ristora
Sì, prendi. (A lui lo porgi e solo ei beva). (A Veremonda)
A te, signor, si dee... (La porge a Fengone)
ed ai voti del cor risponda amore. (Beve)
(Più soffrir non poss’io). Vedi, a’ tuoi giorni... (A Fengone)
(Ma taci, incauto zelo. Ambleto è figlio).
de’ zeffiretti amici. Or non più indugi;
gite al riposo, sì. Gite al riposo.
(Cor, che non è geloso, al certo è stolto).
La destra, sì; che tardi?
Vorrai che vada solo Amor ch’è cieco?
Tosto potria cader. Non più. Va’ seco.
(Non vuole altro cimento una pazzia
che cede un sì gran ben). Cor mio, che pensi?
A le piume mi chiama il grave sonno.
Vicina ho la vergogna ed il periglio. (Verso Ambleto)
Va’. Non temer. Mostra più lieto il ciglio.
Il vidi, il vidi pur. Passa con l’empio
Veremonda al mio letto. E ’l soffro? E ’l soffri
ne la madre oltraggiato e ne l’amante?
Vada pure ai piaceri il fier regnante.
Qui principiò la mia vendetta, o madre.
No, che una morte al perfido si deve
che abbia tutto il dolore e tutto il senso.
un invincibil sonno. Alto letargo
lo premerà, prima ch’ei goda; e dove
sognava amplessi, incontrerà ritorte,
Ma ti sovvenga poi ch’io son consorte.
già Fengon rinunciò. Nel comun rischio
sii più madre che moglie. In trono assiso
piacciati il figlio. Piacciati punito
il fellon parricida; e ’l tuo si aggiunga
Giusto è ’l furore e la vendetta è degna.
o d’ingiusto dover miseri avanzi,
da me partite. Un infedel n’è indegno.
Sprezzo rendasi a sprezzo e sdegno a sdegno.
spaventi de l’idea, furie de l’alma,
e dov’è Veremonda orror si sgombri.
Veremonda, ove sei? Sogno? Ad un sasso
siede Fengon? Ferrea catena il preme?
Ov’è lo scettro? Ove il diadema? Il manto? (Si leva)
questa è la reggia a le mie gioie eletta?
servi, custodi... O dei! Non v’è chi franga
i duri ceppi e ’l mio destin compianga?
Deh! Valdemaro, il tuo valor mi tolga
Quel valor cui negasti, empio e lascivo,
A chi non è mio re, niego la fede.
chieggo soccorso. Il nostro amor ten priega.
perché fu passagger, scordossi il core.
Gerilda, mia regina, amata sposa.
Nomi che mi togliesti ingrato e cieco.
A me in fronte, tu ’l sai, più non s’inchina
il titolo di sposa e di regina.
Ten priego per la tua virtù pudica.
Tardi, o fellon, la mia virtù conosci.
Ingiusto l’offendesti; e invan presumi,
reo di più colpe, al fio sottrarti.
con le tue voci, o scellerato.
Aggiungi, e tuo monarca e tuo tormento.
disperato bensì ma non pentito.
su la mia fronte il tuo diadema. Leggi
de le lascivie tue l’onta e l’orrore.
Così è felice, alor ch’è giusto, amore.
Né mi uccide il dolor pria che l’acciaro?
Da te, crudel, la crudeltade imparo.
l’iniquo a l’ombre, ai ceppi e là più lenta,
senza morir, la morte ei soffra e senta.
Tu lacci, tu prigion soffrir non dei. (Parte)
Son anche in mia difesa amici e dei. (Parte)
E de la sua speranza è reo Siffrido.
fra ’l traditore e fra ’l crudel la morte.
fe’ la vostra vendetta e più la mia,
a voi dirà se traditore io sia.
Dovea cader l’iniquo mostro
ma per me solo. Oggi ’l tentai, ma invano,
con ferro, con ruina e con veleno.
Traditor generoso, al sen ti abbraccio.
(Alma, non più spaventi).
sposo e re godo teco; e Valdemaro
sposo pur goda ad Ildegarde in seno.
Ambleto è re. Di Veremonda è sposo.
Intendo. Or sia ’l suo cenno il tuo riposo.
Tu regnerai pur meco, o genitrice.
Nel tuo, nel comun bene io son felice.