Metrica: interrogazione
860 endecasillabi (recitativo) in Ambleto (Zeno e Pariati) Venezia, Rossetti, 1705 
Inseguitegli, o fidi, e nel lor capo
recatemi un trofeo del valor vostro.
                                           (Iniquo mostro).
                                                Di’ al mio dovere,
che in me trovi la moglie e non l’amante.
                                                            Ancora
l’ombra vien di Orvendillo, il morto sposo,
a turbar nel tuo letto i miei riposi.
«è ’l carnefice mio. Queste ferite
quel braccio istesso alza già il ferro e in seno
già lo vibra di Ambleto, il caro figlio.
e lo soffri? E lo abbracci?» Oh dio! Dagli occhi
l’ombra col sonno e sol vi resta il pianto.
Odi, Fengon. Son tua nemica, è vero.
la mia vendetta. Esser vorrei tuo inferno
per dare a me più furie, a te più doglie;
ma con tutto quest’odio io ti son moglie.
fuor di periglio, o re. (Perfida sorte!)
Di Gerilda l’amor mi tolse a morte.
Goder poss’io con mille insidie al fianco?
meglio intendi il destin. Vinta è l’Allanda.
Trofeo di Valdemaro, il duce invitto.
                                                 (Anz’io sua preda).
                                            Pur ne pavento.
Che puoi temer d’un forsennato? Han tolto
tante sciagure il senno a l’infelice.
                             È gelosia di regno.
Siffrido, un gran timore ha un grande ingegno.
Qual frutto avrai? D’odio e d’infamia.
                                                                      E ognora
                               I tuoi sospetti accerta.
                                 Di Veremonda un tempo
                                     (Anch’io ne avvampo). È vero.
De’ suoi primi sponsali unico frutto.
l’arte coprirsi? E se pur anche Ambleto
sforza gli affetti e fa tacere il sangue,
che fra le tazze il simular non giova.
Saggio consiglio e non si tardi l’opra.
vanne, amico, a dispor. Me chiama intanto
di Valdemaro il merto a la sua gloria.
Già serve al tuo destin sorte e vittoria.
la morte fuggirai ch’io ti preparo.
questa vittima io deggio e ’l fatal colpo...
(Qui Veremonda? Il suo dolor mi accora).
                                          La mia sciagura
La pietà di un fellon giusta la rende.
Ciò che par fellonia, sovente è fede.
Arte è d’anima rea finger virtude.
Mal si giudica il cor sol da l’esterno.
Ma l’opre sono il testimon del core.
Non muove il mio che zelo, fede e onore.
rispettar l’uccisor, servir l’iniquo
mirar da l’empio, e sofferirlo e amarlo,
a la miseria, oh dio! degna ch’io sempre
l’accompagni col pianto, il regio erede,
questo è onor? Questo è zelo? E questa è fede?
Credimi reo; mi assolverà l’evento.
                                                          Che pensi? (Ad Ambleto)
                            Che mai?
                                                Perché non piange
l’aurora in cielo, or ch’è prigione il sole.
                                     (Pietoso oggetto!)
ma senza speme, intendi ben, di Apollo,
in quel ciglio, in quel labbro Amore assiso.
(L’idea de’ primi affetti ei serba ancora).
                                                 A chi favelli?
                                                       Tu ’l sei.
Ambleto è morto. Io l’ombra sol ne sono.
                                 Ove ten vai? Che cerchi?
(Core di sì bel seno almen foss’io).
(Tu non sei senza cor, se tieni il mio).
                         Chi lo possiede?
                                                         Ascolta.
Dov’è il mio cor? Forse in quel sen racchiuso? (A Veremonda)
                                              (Ardo di amore).
la tua dimora il più bel fregio invola.
(Così col bel che adoro io resto sola).
perché il duol, ch’ei non sente, è dolor mio.
                                                       Non vedi?
Partito è ’l sol; tutto si oscura il giorno.
                  Vanne al destino e di’ che ormai
faccia spuntar quel giorno, in cui si stia
                                   Chi?
                                               La pazzia.
                                       In questo sen l’avrai.
se del tuo foco ai rai qui più ti aggiri.
Sembran furie e son grazie i suoi deliri.
da la madre, da’ sudditi, dal sangue,
m’imponete ch’io deggia ad un inganno?
Pur se giova, si finga; e i giusti sdegni
cuopra follia, purché si viva e regni.
Tuo pregio è ch’io li tragga ed è mio vanto
trargli in trofeo senza viltà di pianto.
S’io per tuo scorno o per mio fasto agli occhi
                                           Di amor non parli
Tardo è ’l riparo e la cagion n’è vile.
son ribelli al mio cor fin gli occhi miei.
Fra queste braccia ed a l’onor di questi
vieni, illustre campione, invitto duce.
premio si dee. Tua sia la Falstria. È degno
che stringa scettro il difensor d’un regno.
con l’armi tue, con la tua gloria. Pure
vuoi conceder, signore, ecco i miei voti.
Falstria rimanga. In dono od in mercede
si lasci in libertà ch’ella risponda.
La ragion, che ti diero armi e fortuna
su la mia vita, è tuo trofeo. Di questa,
Valdemaro, disponi. Io son tua spoglia.
l’autorità della vittoria e ’l frutto,
soffri ch’io ’l dica, è tropp’orgoglio, o duce.
le tue conquiste alcun poter non hanno.
Tu se’ mio vincitor, se vuoi mia vita;
ma se pensi al mio cor, se’ mio tiranno.
reggi la Dania ed hai propizio il fato,
contro un superbo amor la mia costanza;
su le perdite mie l’altrui baldanza.
non troverai, qual pensi, un re nemico.
Rasserena il bel volto e tutto attendi
da un re che ti assicura (e che ti adora).
(Delusi affetti, e non morite ancora?)
Veremonda si oppone, il re ne assolvi;
pur non andrai senza mercé. Qui tosto
                              O ciel! Deh! Col mio duolo
A un sol passo che inoltri, avrai la morte.
                             O precipici orrendi!
E si apron tombe ove i trionfi attendi.
La vita, sì, per mia sciagura, iniquo.
Ma chi l’inganno ordì? Come, o Gerilda,
Chi mi lascia in timor, mi vuole in rischio.
                                            Addio. Rimanti
mi giungano a l’orecchio i tuoi perigli,
Stanno l’odio e la morte a le tue soglie;
temi ciascun; sol non temer chi è moglie.
                    Frena l’accuse. In Valdemaro
l’infedeltà d’un re. Tu sei sua sposa.
                                         (Di sdegno avvampo).
Sì, l’arte io so d’una beltà ritrosa.
Eh! Che i grandi in amor legge non hanno.
Vanne, o perfido, va’. Sentimi, o duce,
del cor ch’è già perduto in altri lacci.
Con l’esempio del mio, lodo il tuo core.
                                                 Adoro Ambleto.
Siegui ad amarlo. (Essa un rival mi toglie).
                                          Eh! Siegui e spera. (Parte)
E due volte per me non cadde l’empio.
Ma, regina, perché? Tu stessa al colpo
Chi sa oprar e tacer, può vendicarmi.
Solo a Gerilda io confidai l’arcano.
Far che ’l sappia Gerilda, egli è un tradirlo.
                                                   Ti affida.
Se la trama perì, l’autor n’è salvo.
cui dal trono sovrasta odio e periglio.
              Qui ’l re. Cela il tuo duol.
                                                             Siffrido,
Piace, perch’è tua pena, a me l’arcano.
                                Prega un marito.
                                                                 È vano.
d’un fellone ti è a cuor, più che la mia,
ceda l’amor. L’esempio tuo si siegua.
L’odio, il furor non si risparmi omai.
lagrimosa al tuo piè che viva il figlio.
pera anche il regno, anche Gerilda mora;
quand’ha chi osservi, ha i suoi riguardi e tace.
E beltà, quando è sola, è ancor più audace.
                                        Mia principessa,
chi ti tolse l’impero, a me chiedesti
                            E fu cortese il dono.
Per me non fosti al suo trionfo esposta,
                                         Giusta? L’avrai.
Ambleto già ti amò; tu pur l’amasti.
Vo’ saper s’ei sia folle o s’ei s’infinga.
rimanti in libertà. Lascia che sfoghi
senza contrasto il genio antico o parli
in sua balia, qual parla altrui, da stolto.
             Ei vien. Qui mi celo e qui l’ascolto. (Si ritira)
(Ch’io conspiri a tradir l’idolo mio?)
                                                  (Ahi! Che far deggio?)
(Or le dirò che sol d’amor vaneggio).
O del mio cor fiamma innocente e chiara,
quest’è pur... Ma che fia? Né meno un guardo?
(Mi fa ingegnosa il rischio suo). (Scrive col dardo in terra)
                                                            (Pur solo
                                              (Leggesse almeno).
Eccoti al piè, misero sì ma sempre...
ma le rinnovi il dardo. Amor mi aita). (Torna a scrivere in terra col dardo)
(Son perduto. Ma infida e sorda e ingrata
sappia quant’io l’adoro; e s’ella poi
il ferro del mio dardo. Ei del tuo sangue
                       (Che leggo? «Il re ti ascolta».
Intendo). Lascia, sì, lascia, mia dea,
                                                (Amor mi arrise).
Ma nel baciarlo ei mi addolcì le labbra.
Dimmi, l’hai tu di nettare o di mele
sparso, Cintia gentil, Cintia, mio nume?
Son Veremonda che Orvendillo un giorno...
                 Perché? Mel divoraro i lupi.
(O cauto o forsennato, ei dice il vero).
Senti, Diana. Han queste selve un mostro
fiero e crudel, degno de’ nostri dardi.
ne recherò l’orrido teschio in voto.
                                Taci. Ecco la fera
                                                              Ferma.
                                E chi se’ tu? Rispondi.
(L’ira qui può tradir la mia vendetta).
                                         Giove mi aspetta.
forse delira e ’l suo maggior delirio
fu ’l partirsi da voi, luci adorate.
                        A’ tuoi lumi ed al tuo core.
sì temerario ardire! Ardir tropp’empio,
se de la mia virtude oltraggi il lume!
Empio, no, nol chiamar. Chiamalo cieco,
                                                 E parli meco?
Non sono eterne al cor d’un re, mio bene,
si aggiungerà l’indegno amor d’un empio?
Tanto seguì. L’arti deluse e i vezzi
Pazzia già certa un fier rival ti toglie.
Se ragion nol sostiene, è un timor lieve.
Basta che sia di re, perché sia grande.
che ribelli al mio scettro abbiano i Cimbri
uscirò al campo e, me lontano, ad essa
                         Qual n’è il tuo fin?
                                                             La madre,
vaga di dare al figlio i dolci amplessi,
farà condurlo a le sue stanze. Iroldo,
starà ivi occulto ad osservarne i detti.
E ’l vero intenderà de’ tuoi sospetti.
                                                         Intesi;
(ma de le trame avvertirò chi deggio).
                              E in tale indugio, o sire,
la gloria d’inchinarti abbia Ildegarde.
Il più forte guerrier che stringa acciaro.
            Con tutti i suoi fregi io non lo voglio.
che non son più ’l tuo amante. Il tuo re sono.
E ad un re che fu amante, io rendo il dono.
Se nuovo amor non ti avvampasse in seno,
I tuoi spergiuri in libertà mi han posta.
Scuopri l’oggetto e l’imeneo ne approvo.
A chi già mi schernì, poss’io dar fede?
Scettro ancor non stringea chi a te la diede.
Il crederti or mi giova. Adoro Ambleto.
Compiacerti non posso, incauta amante.
Un re l’obblia, s’ella gli torna in danno.
Dovea farmi più accorta il primo inganno.
(Si lusinghi costei). Teco, o Gerilda,
conspirano a’ miei danni anche i vassalli.
m’obbliga a l’armi. Io partirò. Tu sola
mia facile conquista anche il tuo core!
Regina, odiami pur; le insidie occulta
né più strugga la man del core i voti.
(Non s’irriti un amor che salva il figlio).
Signor, meno di affetto io ti richiedo.
Lasciami l’odio mio con più innocenza.
tutto resti in balia l’alto comando.
l’ultimo forse. Io se cadrò fra l’armi,
tu sarai sola il mio pensiero estremo.
e se di qualche fior questa, ch’io bacio,
Va’, pugna, vinci e vincitor ritorna.
Son comuni i miei torti anche a Gerilda.
                       Nel vicin bosco ei stesso
scoprì l’ardor. Con quale orror, tu ’l pensa.
                                                                Come
A te che sei consorte, a te che in lui
non ritrovi, lo so, che il tuo tiranno.
Non mi affligge il suo amor; piango il tuo inganno.
                                            E appunto un core,
quando cerca tradir, finge più amore.
sia senso o bizzarria, d’alma regnante
Credi meno ad un empio, io ti consiglio.
Non mi offende il tuo amor, che non vi è donna,
credilo, sì, donna non v’è che irata
voglion ch’io sia crudele e tu infelice.
Amo Ambleto. Sì, l’amo. Hai per rivale
che tu sveni al suo nome i tuoi desiri;
in questo sen. Qui lo minaccia, o ardire!
e qui l’insidia il re con empia brama.
             Dillo tiranno e tale ei mi ama.
                            Sì, l’iniquo mi ama; e questo
degli acerbi miei mali è ’l più funesto.
Flora, dimmi, sai tu l’aspra sventura (A Veremonda)
                                   (O ciel, quanto è vezzoso!)
                               O sfortunato prence!
Deh! Accorrete in difesa a fior sì vago.
(Seguir conviene i suoi deliri). Taci,
che già fuggì l’infida serpe altrove.
arma quel fiore e ’l custodisci illeso. (A Veremonda)
il suo nemico, e tu col piè lo premi. (A Valdemaro)
                                         (Quanto il compiango!)
Accheta il duol. Me in tua difesa avrai.
qual s’erge al ciel denso vapor che oscura
di Febo i rai. (La gelosia mi uccide).
l’onor mio, la mia pace; e mentre in essa
la tua virtude in mio soccorso io chiamo.
                                              Amor nel petto
chiuso trattieni? Io vo’ che spieghi i vanni
prima a’ bei rai de la mia diva e poscia
                                       Dove?
                                                      Sul trono.
                Non sai che il re de’ cori io sono?
(Mi fa dolor benché rivale). Io parto.
Di’, non sei tu di questo ciel l’Atlante?
Così lo reggi? Di’, così ’l difendi?
Ma questo, che sospendi al nobil fianco
                                                        È ’l brando,
                                                Sì, lo veggio,
che sparse l’innocenza, ancor fumante.
Vanne; e ad uso miglior da te s’impieghi.
Venga la clava e si apparecchi intanto
de’ mostri il sangue e de’ tiranni il pianto.
Sei reo con Veremonda, alor che l’ami;
non è de l’amor tuo saggio consiglio.
non giugni ancor? Dacché mi trasse a l’are
vittima più che sposa il fier regnante,
svelto dal sen mi fosti; e più non vidi
quel volto, o dio! sol mia delizia e gioia.
                                                E sangue io voglio. (Entra in una stanza)
Deh! Ferma, Ambleto. E non distrugge amore
           Sei mia tiranna e mia nemica. (Entra in un’altra stanza)
l’ira del re. So che l’ucciso Iroldo
Mio caro figlio, in questo pianto almeno
Era in lei fede; era onestà e virtude.
macchiasti il regio letto e di Orvendillo
che adultera per lui, per me matrigna.
Smarrite or son le tue sembianze e teco,
sul trono ancor di regia morte intriso,
regna il vizio e l’orror. Non ti ravviso.
è vero pur che non sia stolto il figlio?
al senso de’ miei mali e de’ tuoi scorni.
Vieni, o viscere care, al sen materno...
che già stancar di un parricida i baci?
Va’, misera, e li serba a chi già infama
il tuo soglio, il tuo letto e la tua fama.
a’ rimproveri tuoi chiuso l’udito.
Ma già ’l silenzio è stupidezza. Ascolta.
Che dir potrai che te più rea non mostri?
                                        L’urna reale
Ah! Che vi andai costretta. Io donna e sola
                                          Ma con qual ferro?
Può mancar mai la morte a un generoso?
in corte di un tiranno, alor ch’è dono.
E chi potea sforzarti ad abbracciarlo?
Pria che sua moglie, esser dovea sua preda
Dovevi almen, fra’ primi sonni immerso,
Anzi più che sua moglie era sua amante.
Soffri che ombra dolente e invendicata
sotto il duro comando e, se non basta,
che vittima di stato a’ piè ti cada
quel che chiami tuo figlio, iniqua madre.
Questo forse n’è ’l giorno; e ’l favor solo,
del tuo ripudio è ’l disonore e ’l duolo.
                             Cieli.
                                          (Che sento?)
                                                       (Iniquo!)
Non più, non più. (L’orme ne seguo). Udite.
Siffrido, io son perduta. Ambleto uccise
                                                      Il vidi.
da’ prieghi tuoi, da la mia fede aita.
M’intese il prence. Egli d’Iroldo in petto
del senno e del valor scolpì le prove.
Per servir al mio sdegno a lui si serva.
Qual, duce, è ’l tuo pensier? Dove mi guidi?
Già comincio a temer qualche tua colpa.
da’ tuoi soldati? Intendo. Valdemaro,
Espormi a un mal peggior, quest’è salvarmi?
riedi a la libertà, riedi al tuo soglio.
Quel che lasci è prigion. Quel dove vieni
siegua altro amante? Esser non può, cor mio).
questa giustizia. In te stimar che un ratto
sia pietà, non amor, virtù, non senso.
un sospetto d’error, non che un errore.
E quest’onor, se resti, è in più periglio.
                                            Hai forze, hai core
                                             Ne la sua reggia
troppo è forte il tiranno; e ’l popol vile,
avvezzo a tollerar, l’odia ma ’l teme.
applaudirò de’ tuoi trionfi al grido.
Perder qui tempo è un trascurar salute.
Ah! Vile. Anche la forza? È questo, è questo
vuoi pianti e prieghi? Eccoti prieghi e pianti.
Quasi, ah! quasi mi vinse un sì bel pianto.
Ma ’l lasciarmi sedur saria fierezza.
ma non speri ’l tuo amor che odio e disprezzo.
                                                         Ambleto.
senza oltraggiar me, tuo signor, non puoi.
O cieli! Ambleto, idolo mio, son questi
                                Dove, o mia cara,
s’agita il viver mio, fingo i deliri,
dove il periglio tuo, perdo i riguardi.
(Credo a pena a l’udito, appena ai guardi).
Ten prescrivo l’emenda e a te, con quanto
l’esser principe tuo, parlo e comando.
ma di un amor che sia di ossequio e fede.
difeso è un re dal suo destin. Costoro,
pria che guerrieri tuoi, fur miei vassalli.
ch’io principio a regnar, mi è fausto e caro
non può darti il mio cor senza un sospiro.
la magnanima idea. Quell’armi istesse,
che voleva l’amor, muova il tuo zelo.
Sì, né più qui si tardi; io vado al campo.
vostra difesa i miei guerrieri. Al piede
darà moto il periglio, al cor la fede.
che a cor franco io ti parli e ch’io ti abbracci.
al funesto mio duol ch’esser mi sembra
Quando è immenso il piacer, meno si gode.
Temer nel bene è un diffidar del cielo.
Goder nel rischio è un lusingar le pene.
Il poter di un tiranno e l’altrui frode.
Virtù ci affidi. Abbiam per noi, mia vita,
Piacer tranquillo è guiderdon del merto.
                                       Ah! Siam traditi.
                                  Ambleto, Veremonda,
fuor della reggia? Tu prigion? Tu stolto?
chinai la fronte al mio destin; ma quando
La gloria e non l’amore a me lo renda.
                                           Che strani mostri!
Pluton tu sei. Cerbero è quegli e questa
                                            E pur t’inganni.
perdona a l’amor mio le colpe. Offeso
non di torla al mio re ma al tuo rigore.
                                                  (O traditore!)
perché l’armi ha in balia. Seco si finga
Vanne a la reggia e svena al mio piacere
(Sapesse almen quant’innocente io sono). (Parte)
                               (Cieli! Che ascolto?)
(Ch’io deggia amar ne’ suoi piaceri i miei?)
Sospenderla poss’io, se il re l’impone?
E se l’impone il re, puoi tu soffrirla?
Soffrir convien ciò che impedir non puossi.
Se’ reo di più congiure e reo, Siffrido,
tacqui sinor? Ma senti, ingrato, a questi
tu impiega il zelo; io tenterò l’amore.
                                       Odi, regina, e parto.
traggo il passo primier che Iroldo è ucciso,
         Chi può, né ’l ripara, il mal commette.
Non è sempre poter ciò ch’è dovere.
Signor, se ami la madre, il figlio serba.
Passò in odio l’amor? Troncar ti aggrada
mi uccidi in me, pria che svenarmi in lui.
Piangi, o donna, i tuoi mali e non gli altrui.
                                 Veremonda, è tempo
l’immenso ardor che in me que’ lumi han desto.
(Tanto sugli occhi miei?) Signor, se godi
                                                Io fingo? Dani,
              Sì, ti ripudio. Oggi mi piace
per farti più infelice esser più ingiusto.
ma sarà il mio disastro il tuo gastigo.
Moglie, è ver, ti abborria; ma l’odio alora
Parti e di un re più non turbar gli amori.
                            A la tomba?
                                                    A l’are sacre...
Che or or contaminate ha un tuo ripudio?
Me la insegna a temer l’altrui caduta.
Meno de l’amor tuo temo il tuo sdegno.
Febo a l’occaso. In vuote piume, o bella,
o la tua testa o la mia man vuol l’empio.
Quello che più opportuno è col tiranno,
Ed in quest’ombre avrai soccorso. Fingi.
                                               E tu cortese
l’ire n’esiglia e li componi al vezzo.
                                              La tua l’incontri.
                                               Ove si esiga
Che più? Che più? Vuoi ch’ei mi tragga, o dei!
al talamo abborrito e ch’io vel segua?
questo il termine sia de’ suoi contenti.
Io vil ti vo’ spergiura? Amo me stesso
Ne temi ancora? I tuoi sospetti ingiusti
sul mio sangue cancelli. Addio. Già vado
tutto amor, tutto ardire al fier regnante.
che sia insieme mia gloria e tuo riposo.
                                         In tua difesa
                                            I dubbi accheta.
l’armi in nostro favor; ma ’l re, che quindi
per via il rattenne e l’obbligò al ritorno.
diemmi di fede. Io te n’accerto; e solo
Son già i mezzi disposti. Io senza colpa
Il suo più fier nemico in lui si asconde.
                               A le follie ritorno.
che, se di questi sassi alcun ti ascolta,
                  E che?
                                 Che più di me se’ stolta.
Il ciel vuol ch’io sia vostro, o luci belle.
                      Ma...
                                  Che?
                                              Tu non m’intendi.
T’intendo sì. Tu se’ qual rosa appunto
ma ’l modesto rossor vincasi; e intanto,
del laccio marital gli applausi io canto.
Poiché il vuole il destin, ti chieggo, o bella,
anche gli amplessi e con gli amplessi i baci?
che per quel de’ tuoi lumi, egli non arde.
E in difetto di altrui si ama Ildegarde.
                                                  Di Ambleto
mi comandi ch’io t’ami, alora forse...
                Alor ti amerò. Questa è la fede.
L’alma, che altro non brama, altro non chiede.
e in esso il grado, in esso il nome onoro;
Se Ambleto, perché folle, a lui mi dona,
Ambleto, perché vago, a lui m’invola.
La vendetta più cauta è la più certa.
Si affretti. Io ne la reggia ho i miei guerrieri;
eglino il cenno ed io ne attendo il tempo.
Comunque ei cada, il suo morir ci salva.
                                               E regni Ambleto.
Io de’ miei torti e testimonio e pompa?
                                              Guardati, o duce,
Al re, più che nemica, ella è consorte
e due volte, a me infida, il tolse a morte.
plaudo al vostr’odio e ’l mio vi agiungo. Dite.
Qual n’è ’l pensier? Chi n’è ’l ministro? E quando?
                                              Vanne. Ma teco
venga il ripudio tuo, venga il tuo danno.
che col pianto l’orror chiaman sul ciglio.
L’uno ti è traditor, l’altro ti è figlio.
                                              (O che tormento!)
Or vanta il tuo dovere e la tua fede. (A Gerilda)
fa che ei sembri mia colpa e mia rapina.
E l’onte aggiugni, o sconoscente, ai danni?
Ma, be’ lucidi rai, meno severi (A Veremonda)
Così dicea l’ingrato un giorno a’ miei. (A Veremonda)
che troppo è fral de la tua destra il laccio.
ma più la tua beltà da lei mi scioglie.
(Udisti, udisti? Ei non ti vuol più moglie).
qui tosto venga. Io già lo prendo e tutto
Sediam; ma dimmi, adesso è notte o giorno?
Ah, sì, le veggio. O son pur chiare e belle.
                                         Che dunque sono?
che già son giunti ove hanno i numi il trono.
                                    (Attento osservo).
nume e custode un tempo, a voi ne trassi
alcun de’ miei seguaci. Eccoli. Amico,
Son giudice a costei, non più suo amante.
A la salute mia beva Giunone. (Presenta la coppa a Gerilda)
Lascia, o Siffrido, in libertade il folle.
e rallegrati il cor. Tosto ritorno). (Parte)
(In periglio Gerilda? Ahi! Che far deggio?)
e sì vil non son io, benché negletta. (Getta la coppa)
(Si perdé nel velen la mia vendetta). (Parte)
(Mi arrida il ciel). Con tanto foco intorno (Tornando con coppa in mano)
ha una gran sete il sol. Prendi. Ristora
Sì, prendi. (A lui lo porgi e solo ei beva). (A Veremonda)
A te, signor, si dee... (La porge a Fengone)
                                        Sì, Veremonda,
ed ai voti del cor risponda amore. (Beve)
(Più soffrir non poss’io). Vedi, a’ tuoi giorni... (A Fengone)
(Ma taci, incauto zelo. Ambleto è figlio).
de’ zeffiretti amici. Or non più indugi;
(Cor, che non è geloso, al certo è stolto).
                                       La destra, sì; che tardi?
Vorrai che vada solo Amor ch’è cieco?
Tosto potria cader. Non più. Va’ seco.
che cede un sì gran ben). Cor mio, che pensi?
Vicina ho la vergogna ed il periglio. (Verso Ambleto)
Va’. Non temer. Mostra più lieto il ciglio.
Il vidi, il vidi pur. Passa con l’empio
Veremonda al mio letto. E ’l soffro? E ’l soffri
ne la madre oltraggiato e ne l’amante?
Qui principiò la mia vendetta, o madre.
                                La morte forse?
che abbia tutto il dolore e tutto il senso.
Ma ti sovvenga poi ch’io son consorte.
già Fengon rinunciò. Nel comun rischio
sii più madre che moglie. In trono assiso
il fellon parricida; e ’l tuo si aggiunga
                                  Sì, vivi e regna.
Giusto è ’l furore e la vendetta è degna.
da me partite. Un infedel n’è indegno.
Sprezzo rendasi a sprezzo e sdegno a sdegno.
spaventi de l’idea, furie de l’alma,
Ov’è lo scettro? Ove il diadema? Il manto? (Si leva)
questa è la reggia a le mie gioie eletta?
servi, custodi... O dei! Non v’è chi franga
i duri ceppi e ’l mio destin compianga?
Quel valor cui negasti, empio e lascivo,
chieggo soccorso. Il nostro amor ten priega.
perché fu passagger, scordossi il core.
A me in fronte, tu ’l sai, più non s’inchina
Ingiusto l’offendesti; e invan presumi,
                                                          O numi!
                                                  Ambleto...
de le lascivie tue l’onta e l’orrore.
Così è felice, alor ch’è giusto, amore.
Né mi uccide il dolor pria che l’acciaro?
l’iniquo a l’ombre, ai ceppi e là più lenta,
senza morir, la morte ei soffra e senta.
Tu lacci, tu prigion soffrir non dei. (Parte)
Son anche in mia difesa amici e dei. (Parte)
                             Andiamo; e si divida
fra ’l traditore e fra ’l crudel la morte.
                Dovea cader l’iniquo mostro
ma per me solo. Oggi ’l tentai, ma invano,
                                                 Io, Veremonda,
Intendo. Or sia ’l suo cenno il tuo riposo.

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