Ma di un lungo soffrir senza speranza
Frena l’impeto audace. Io di Seleuco
concederà benigno padre al figlio
ciò che sdegnato re niega a’ vassalli.
Sì generoso, Antioco, a me tu sei?
De’ mali altrui mi fan pietoso i miei,
sin da quel dì che a me vicin quest’alma,
per la bella ch’or perdo, arder vedesti.
ch’è ’l periglio maggior di mia virtute.
la Fenicia il perdono. Io sarò teco
e supplice e compagno al regio trono.
Serba la fé; la mia ti giuro eterna.
È mio gran duolo esser tradito amante
ma duol maggiore è l’esser servo e figlio.
Degna ancor del mio pianto è un’infedele?
Un’infedel che per desio di regno
si fa tiranna? E i giuramenti obblia?
questo è ’l felice dì che unir noi deve
me a Stratonica sposo e te ad Argene;
e tu sì mesto accogli un sì gran bene?
Padre, i semi del duolo in noi talvolta
la natura han per madre; e pria che d’essi
la cagione s’intenda, il mal si sente.
fuga, Antioco, i fantasmi. Apri lo sguardo
al riposo di un padre i tuoi tormenti.
Un inutile sforzo a che mi chiedi?
un genitor, che ti ama, in questi lumi,
un re che per te vive in questo pianto.
Tu se’ ’l mio sangue e tu mia gioia e tutte
sento le piaghe tue ne l’alma mia.
Per pietà del mio core il tuo consola.
Vuoi regni e dignità? Vuoi questo scettro?
Questa corona? Ecco ti cedo il regno,
ecco il diadema, ecco lo scettro; e solo
ti chiedo in ricompensa un minor duolo.
Padre, la tua pietà mi fa spavento.
Godi pure il tuo scettro. Ei non ha luce
che mi abbagli la vista; e mai non giunse
a l’altezza del trono ove tu siedi.
la pena mia. Nasconderolla almeno.
La vincerai, se non l’ascolti. Or vanne
a Stratonica, o figlio, e tu di lei,
regina e madre, i cenni ascolta e i prieghi.
Sospendi i miei sponsali e men d’orgoglio
avrà su’ miei pensieri il mio cordoglio.
ministri i tuoi piaceri a le tue pene?
vano è ’l tuo duolo. Ecco opportuna Argene.
(Beltà troppo nemica a la mia pace!)
Il mio destin ne incolpa.
No, la tua crudeltà! Deh, sposo amato...
Non mi parlar d’amore. Usa altri nomi.
Chiamami pur tuo servo e alor ti ascolto.
Ch’io d’amor non ti parli? Al tuo bel volto
che io non parli d’amor? Ah! Tu di amore
non mi parlar con gli occhi, idolo mio.
Ch’io di te non mi dolga? Anche, o tiranno,
la libertade al mio dolor contendi?
Tanto la tua beltà ti fa superbo?
Tanto le fiamme mie vile mi fanno?
Ma che dissi, dolore? Ira, dispetto
occupatemi il sen. Ditemi, e quando
a me volse il crudel placido un guardo?
Quando mai un sospir diede al mio pianto?
Nulla il mosse il mio amor? Nulla ’l mio grado?
Nulla il titol di sposa? In Lidia io pure
ho genitor real; e invendicata...
Tolomeo, se hai cor, se mi ami,
ecco il tempo, onde amor sperar tu dei.
Antioco è l’offensore. Ebbi per esso,
vo’ dirlo, amor. Tutto è cangiato in ira,
l’ira in vendetta. A te, che devi in Menfi
stringer lo scettro, a cui Seleuco ha tanto
di rispetto e di fé, l’opra confido.
io l’amor tuo, tu l’ire mie. Daremo
Risolva Tolomeo. Propose Argene.
Che cangiamento è questo? Argene serba
odi ad Antioco? A Tolomeo speranze?
Tanto può l’ira? Ah! Tolomeo, la fiamma,
che ad un soffio si accende, a un soffio è spenta.
Temi in quell’ira il tuo rivale. Intanto
che pensi, o cor? Sia soddisfatta Argene.
Ma contro Antioco? No, mai non si aggiunga
al nome di rival quel di nemico.
e così riamato almen ne fosse.
quel favore a’ Fenici, ancorché infidi,
e s’ei n’è reo, de’ miei rispetti è indegno.
Sì sì, senza rossore, anzi con merto
Odio non è, sentimi, o ciel, ma zelo
Propose Argene e non risolse amore.
propone il zelo e Tolomeo risolve.
Chi mai creduto avrebbe Antioco infido?
fede immortal ne la paterna reggia,
e pure infido il veggio, infido il trovo.
l’uso de’ sensi e mi conosce appena;
Ed io non frango ancor la mia catena?
No, non la frango ancor; ma se non posso
render odio per odio, ira per ira,
non vegga almeno i deboli miei pianti;
e tu, dentro di te, cor mio, sospira.
Sposa, è pur questo il dì che nel mio soglio
farsi vedrò la maestà più bella,
nel talamo vedrò più lieto amore.
umil ne inchino i cenni e la mia sorte
(sorte crudel) senza contrasto attendo.
Qual duol, signore? Ei pur d’Argene in seno
trarrà felici i giorni. (Ahi tradimento!)
Questa felicità fa il suo tormento.
(Purtroppo il so). L’amore impaziente
Ma chi cerca gl’indugi amor non sente.
Questo sì dolce figlio or or pregommi
ad ammorzar del suo imeneo la face
(Palpita il cor nel seno).
qui giugnerà a momenti. Usa con esso
(Che mai dirò?) Seleuco, amor non vola
liberi e sciolti a suo talento i vanni.
Talor... Ma giugne Antioco e non mi osserva.
Fallo d’Argene amante. Io qui mi celo.
(D’Argene amante? E ch’io lo faccia? O cielo!)
ch’io prima dir dovea regina e madre,
nomi di tua grandezza e mio rispetto.
(O dio! Perché non può parlar l’affetto?)
E qual regina e madre io ti ragiono.
(Quel sospir, s’è di duol, mi è pur gradito).
E de’ nostri imenei vedrai congiunte...
Al talamo reale arder le faci.
(Pallor, se sei desio, quanto mi piaci!)
Ed io vedrò le grazie, i vezzi, il riso
sul letto genial sfrondar le rose.
(Che bel tacer, se per mio amore ei tace).
Vedrò I’ardor di lei negli occhi tuoi;
le tue fiamme vedrò ne’ suoi bei rai.
Vedrai d’Antioco il core un marmo, un gelo
Taci. (Egli è fido, o numi).
Non porto in sen fé sì leggiera. Ho l’alma,
cui vasta ambizion punto non tocca.
(Il rimprovero è dolce, è giusto, è caro;
Taci. (È costante ancora).
se t’ama Argene, essa è d’amor ben degna.
(Finge ragioni e infedeltà m’insegna).
Io stessa i prieghi aggiungo e, perch’io possa
con Seleuco gioir, ti addito amore.
(Ah! Fingi almeno una vendetta, o core).
se Stratonica il vuol, la man d’Argene.
Sì, d’Argene la destra il nodo stringa
e si principi il nodo in quest’amplesso.
Padre... Signor... Se... Quando... Ancora... (Oh stelle).
a te stesso t’invola? Or qui m’attendi
con la beltà che il ciel per te compose.
ch’è giustizia e virtù l’esserne amante.
(Mio cor, convien morir).
Tu consigliasti, e con che forza, o cruda.
Sì faconda son io? Così eloquente?
T’intendo. Tu infedel mi porti al soglio.
Non aggiugner più duolo a le mie pene.
Lo dirà la man di Argene.
Parto, perché soffrir te più non deggio.
Sento che più mi vince ogni dimora.
Il mio sdegno è a l’estremo. Ingrato, io parto.
Deh! Come t’odio anch’io, tu m’odia ancora.
Vanne, ingrata, sì, va’; ma se mi lasci
l’impero d’odiarti, ancor mi lascia
il tuo sembiante a le tue labbra. O dio!
poi d’odiarti avrò coraggio anch’io.
Antioco, resta. E vuoi?...
T’accosta, o figlio. Offri ad Argene il core.
Un cor superbo, un core ingrato? Vanne.
(La sua fierezza è il mio riposo).
Principe, di quell’alma i moti accheta.
Proponi umil de’ tuoi sponsali il laccio.
(E senza pena io taccio).
Ma non nel grado, in cui son nata.
Rifiutar chi sprezzò già l’amor mio.
de’ miseri fenici udir vorrai
gli ossequi e le discolpe? Al figlio Arsace
tutta la speme sua fidò Scitalce.
Il contento di Arsace a lui mi chiama.
Ah! Se la tema, o sire...
Del tuo riposo, al labbro...
Direi che del suo duol, de’ suoi sospiri
Prence, t’inganni. O quante volte, o quante
gli posi a’ piedi; ed ei né pur d’un guardo
degnò l’offerte e n’ebbe orrore.
non le credé veraci; o pur non ama
fuorché del sangue tuo tinto il suo manto.
le giuste leggi ad un amor superbo.
fissa ne’ tuoi, qual de’ suoi sguardi è il moto?
Quel pallor, quel timor, quel turbamento
è l’anima che sente il suo delitto.
a’ rubelli fenici? Esso gli abbraccia.
Vedi qual zelo. Esso ne applaude agli odi;
e fors’ei primo il foco indegno accese.
torrei la fede. E pure... Ahi fati! Ahi pene!
(È pago il zelo e soddisfatta Argene).
libero a l’ire mie lascia il destino
Ecco a le regie piante...
che per mia bocca a te, monarca invitto,
le sue suppliche porta e i mali espone.
altre volte a te caro, al di cui braccio
trofei di tue vittorie, armi nemiche.
pose in obblio, che osò nel seno istesso
de’ duci suoi, de’.miei più cari il ferro
Prendemmo il ferro, è ver, ma per vendetta
solo de’ nostri torti. Abbìam sofferto
ne’ duci tuoi quanto ha di crudo e fiero
diè freno al nostro ardire e fe’ più audaci
le rapine il tacer. Ma alfin chi puote
de’ suoi giudici stessi? Io non avea
con che punirli? A che tenermi ignote
Non più. Del poter mio, del vostro fallo
fede faranno a voi le mie vendette.
No. Perdon non si speri. I vostri mali
sieno agli altri di esempio, a voi di pena.
fian de la patria e le speranze e i voti?
ne la sventura eguali, eguali ancora
siam nel destin. Teco m’avrai.
Fermo è ’l disegno. Ogni consiglio è vano.
Qui tutto è grave agli occhi miei.
Non più, partiamo, Arsace. Orché Seleuco
contro il Medo superbo il ferro impugna,
andiamo ad ammorzar nel sangue ostile
l’ire comuni; e ’l genitore e ’l regno
d’una sorte miglior non era indegno.
Tu vanne a l’idol mio, digli che or ora
saprà qual io mi parta e quale io mora.
lo ti precedo ed i tuoi cenni osservo,
per legge e per amor vassallo e servo.
Io parto alfin; luoghi sì cari un tempo
i dolci respirai primi vagiti,
mura natie, patrie grandezze, addio.
ma vi lascio un tesoro e vel confido,
più caro agli occhi miei de la mia vita.
Felici voi che lo chiudete in seno!
più non avrete il testimon funesto
de le lagrime mie, de’ miei tormenti!
Antioco a me? Non deggio udirlo. Estinti
cadranno agli occhi suoi gli sdegni miei.
Eguale a la ragion non ho il rigore
e qui mi ferma a mio dispetto amore.
Un sol momento ancor soffri, o regina.
Soffri le voci mie, soffri i miei sguardi.
l’orror che hai di vedermi. Io veggo l’ira
in quel pallor che ti sorprende e turba;
ma questo è alfin l’ultimo onor che chiedo,
l’ultimo addio che porgo. Io già per sempre
ti lascio il regno e ’l genitor; ma, o dio!
pria vengo a dirti addio per sempre. Addio.
A che vieni, o crudel? Vieni a dar forse
un piacer al tuo cor co’ mali miei?
Vanne, infedel. Venga pur teco Argene.
Per non esser d’altrui, perché non posso
esser più tuo, parto, regina, io parto.
che una volta ti diedi, io da te parto.
Nel mesto addio te almen lasciassi
così fedel, come fedel ti lascio.
Scordati Antioco. È crudeltà che voglia
Né a te più amar né a me sperar più lice.
Non più, Antioco, non più. Credo al tuo core
e tu pur credi al mio. Tu mi ami, io t’amo!
tu a me fedel, fida a te sono anch’io.
Come il posso odiar? Come soffrirlo
tenero figlio e sviscerato amante?
Regina, addio. Ma se tu piangi, io resto.
Lascia ch’io parta e poi... No, troppo chiedo.
col genitor che mi ti toglie. Vivi
e, solo alor che la mia morte udrai,
donami un sol sospiro, un pianto solo.
No, Antioco, tu vivrai. Vivrai, se mi ami.
Benché lontano io ti amerò, che dee
chi una volta ti amò per sempre amarti.
Vanne. Già sai che ti amo; amami e parti.
Andiam; portate almeno, aure innocenti,
un di pietade al genitor che lascio,
l’altro di amore al caro ben che perdo.
Questa è la strada, onde a la gloria vassi.
Il sa ma non fa ’l cor la via dei passi.
de l’iniqua lor fuga! Ah figlio ingrato!
tu d’esser figlio mio, tu mio vassallo.
si correggon le antiche? Il mio perdono
si cerca ne l’orror di un tradimento?
A te serva di carcere la reggia.
tu torna al padre. Il viver, che ti lascio,
sia pena e non speranza. Una grand’ira,
dillo a’ Fenici, a gran vendetta aspira.
lo difenda il mio braccio e la mia fama). (Parte co’ fenici)
lo sdegno ammorza; ogni altrui fallo è mio.
Ancor persisti? E più di un padre offeso
un popolo rubel merta il tuo affetto?
che del tuo error la prima pena è mia.
Di offeso re, non più di padre ho ’l core.
E mi lasci così? La mia innocenza
sfida tutto il rigor del trono irato?
Per non esser rival dunque son reo?
Un atto di virtù colpa si crede?
Perfidia il zelo e fellonia la fede?
assolvetemi, o numi. Io nella reggia
profanerò con li miei voti. Al padre
empio l’usurperò. Saranno audaci
ma giuste... O ciel! Che parlo? Antioco, taci.
Può Seleuco negar d’esserti padre;
ma tu negar non dei d’essergli figlio. (Resta pensoso)
mesti i custodi, alto silenzio... Ah! Temo.
gli animi, o prence, in dì sì lieto ingombra?
ne lo sdegno del padre il mal del figlio.
Sì sì. Prence nascesti e figlio sei. (Per partire)
cresce nel rivederti; e l’empia sorte
fra’ mali miei la tua presenza ancora.
Principe, del tuo core ov’è l’invitta
sì tosto cedi? E ’l tuo crudel martoro...
Aimè... Regina... Io moro... (Sviene)
(D’amor ei sviene). Antioco.
(M’osserva Tolomeo). Prence, condona,
giusto è l’affanno mio. Sposa del padre,
tenerezze di madre io deggio al figlio.
Qui mi richiama... Qual oggetto è questo?
Signor, sarà mia cura il far che Antioco
ne scoprirò gl’interni affetti). Andiamo. (Parte con le guardie che sosterranno Antioco)
Parte Antioco, signor; ma parte degno
più de la tua pietà che del tuo sdegno.
obbliar d’esser padre? Io temo, o sire,
che perda il genitor, perdendo il figlio.
son voci del mio cor; l’anima e ’l sangue
fan conoscermi Antioco; e Antioco solo
vuol distrugger sé stesso.
Se ’l sai, cresce il mio duol; se non t’è noto,
ti risparmio un rossor. Basti che ardito
col genitor te pur, mia sposa, offese.
il nostro amor). Forse innocente...
Tu meco perdi ogni ragion. La colpa
troppo mi è certa e troppo il reo mi è caro.
di un giudice e di un padre i sensi e ’l voto.
Abbia Antioco il perdon, purché mel chieda.
Non odio in lui che il suo fallir. Se vuole
l’error del figlio e de l’error l’emenda.
risplenderan de l’imeneo le faci;
e potrò più contento offrirti in pegno
col cor la destra e con la destra il regno.
Molto ancor resta a l’opra. Andrò d’Antioco
ad eccitar ne l’alma il pentimento.
e di Antioco e di Argene accenda il core.
Sì, d’Argene ancorché irata.
L’un vincerai, se vuoi. Vincer de l’altra
l’ostinato rigor, no, non potrai.
Eh Tolomeo! D’una beltà che brama
l’arte per farsi amare ancor non sai.
non fu vano il sospetto. Antioco è amante.
Non m’ingannai. Ah! Quell’uscir piagnendo
da Stratonica, sì, ben tel diss’io,
di un tenero congedo era dolore;
alor piangea la lontananza amore.
da due fenici, al re l’esposi; e colto
ne la sua colpa ancor l’hai ne la reggia.
Ov’almen vo’ sperar più dolce un guardo.
di sdegno un cor, non è sereno un volto.
ben puoi, da chi ti offende, un che ti adora.
prima del tempo il guiderdon de l’opra.
Siegui a compir la mia vendetta. Or sia
meta de’ tuoi sospiri Argene offesa;
che alor merito avranno i tuoi sospiri.
tu serbi ancor qualche speranza.
sperar sopra un ingrato? E che sperarne?
protestò di voler che Antioco ti ami.
Quel tacer è di sdegno o pur d’affetto?
Nol so. (So che mi avvampa il cor nel petto).
di mia fé le speranze e la mercede?
Questo è un dir che penando io serva e soffra;
questo è un tradir de la costanza il merto.
è scaltro ingegno o bizzarria di core?
Io non l’intendo e mi confonde amore.
vivrò, poiché pietosa ami che io viva;
ma quale, o dio, vivrò? Che io deggia al padre...
Chieder perdon de la tua colpa.
sarà l’amarti? Io finger pentimento
Potrà egli udirmi? Io sofferirlo? Io farlo?
Ei sa il tuo error, forse lo scusa e vuole
che il chiederne perdon basti a ottenerlo.
a qual delitto il tuo voler m’astringe
e che il peggior de’ mali è l’ubbidirti.
parte più cara, unica speme, Antioco,
temei per te. Nel tuo periglio io vidi
quanto ha di fiero e di crudel la morte.
Poiché basta a salvarti il pentimento,
vanne, lascia d’amarmi; io mi contento.
Un cor, sì, un cor che pena
rinunziando al tuo amore.
a perder, a tradir quella che ottenni
soave libertà di sempre amarti?
La mia virtù l’impone e la tua vita.
Credi che senza pena io non ti priego.
E se n’hai pena, adunque mi ami.
d’una face che muor lo sforzo estremo.
Chi dee, chi può ammorzarla in questo petto?
potrò ben detestar l’amor passato;
ogni voto ch’io faccia è mal sicuro.
di scoprirmi rival, sarò spergiuro?
Orsù, fa’ core, Antioco. Ascolta. Ascolta
l’ultimo fallo mio che ti confesso.
più de la tua innocenza il tuo delitto;
Ama in me l’onor mio, non il tuo amore.
ne allontana da te. Val la tua vita
la mia felicità, val la tua gloria.
vita infelice e mesta, or or si svena
un così giusto e prezioso affetto?
ceda ogni altro rispetto a la tua legge.
e che fai la mia vita e la mia morte.
Che fai? Che pensi? A qual cimento esponi
Vo’ d’un padre crudel sottrarti a l’ire.
a’ miei pietade e te qui arresta?
ne adoro i cenni e ’l mio destin ne attendo.
che già Meraspe entro la reggia accolse,
giugner deve Seleuco; o per salvarti
da lo sdegno real qui ti nascondi.
Verrà Antioco a’ miei piedi? Ei del suo fallo
(Dammi coraggio, amore). Eccoti, o sire,
misero più che reo prostrato un figlio.
a me accresce la pena, a te il rossore,
sorgi, t’assidi e d’un re padre i sensi
tacito ascolta e non turbarne il corso.
Ubbidirò. (Già di soffrire è ’l tempo).
Grave, Antioco, è ’l tuo fallo. Io fede appena
e cerco nel mio cor la tua innocenza.
forse è ’l minor de’ benefici. Amore
fece per te più che non fe’ natura.
che dal mio cor ne principiassi il regno
e che fosse mia legge il tuo volere.
Di’, che far più potea? Potea dal trono
e per essere anch’io fra’ tuoi vassalli.
Il feci, Antioco, il feci. Oggi a’ tuoi piedi
che il piacer del tuo ben. Tanto ti amai.
ma la tua sconoscenza il tuo gran fallo.
di mia bontà? Voti nudrire in seno
che orror fanno a l’amore, a la clemenza?
(O Stratonica! O padre! O sofferenza!)
Figlio troppo crudel, se ciò che amavi
perché farlo tua colpa e mio tormento?
Te l’offersi innocente; e ’l ricusasti
per esser sanguinario e parricida.
e serba le tue leggi, anima infida.
ma ’l cadavere mio ne vuoi per grado.
Questo genio esecrabile ti unisce
al fenice rubel. Questo a la fuga
ti sollecita il piede e t’arma il braccio.
ti rende avverso agl’imenei; ti toglie
pace da l’alma, ilarità dal volto.
E pietà mi facea, figlio tiranno,
il parricidio tuo ch’era il tuo affanno.
quel reo tacer, più che rispetto, è orrore.
se ’l puoi, te stesso e, se nol puoi, ti accusa,
aver più non poss’io, l’avrò pentito.
Parla, Antioco, fa’ cor; pronto è ’l perdono;
ancora padre, ancor Seleuco io sono.
che dir non so. Del tuo sospetto io sento
Io ribello? Io fellone? Io parricida?
Osi negarlo ancor? Reo qui poc’anzi
ma d’altro error che di sì enorme eccesso.
ancorché sia tua offesa e mio tormento.
la bella colpa, onde si pregia il core).
esca l’alma del sen, non mai l’arcano.
Odi qual parla, odi il fellone. Ah! Pensa
che il tuo tacer ti può costar la vita.
Giusto è punir chi la pietà ricusa.
Serbisi a l’ire mie. (Escono le guardie) Vanne e te stesso
a la pena risolvi o a la discolpa.
che il colpevol conosci e non la colpa.
O giustizia funesta! Iniquo figlio!
ma la perfidia tua vuol che tu mora.
E seco mora il fido Arsace ancora. (Uscendo con ferro ignudo verso Seleuco)
Ah traditor! Contro il tuo re?
E a’ piè tel getto, o sire,
strumento di tuo sdegno... (A Seleuco)
novelle insidie. A me le tese il figlio.
costui traggasi, o fidi. Ivi ragione
de’ tuoi disegni scellerati e rei.
Voi l’innocenza proteggete, o dei.
Che giorno è questo, in cui vassalli e figlio
Grande abuso di amore e di clemenza.
traditor qui lo chiamo e parricida.
Poi del suo pentimento ei qui pentito,
dopo chiesto il perdon niega la colpa;
d’altro fallo si accusa e poi mel tace.
E qui col ferro esce a’ tuoi danni Arsace.
Era questo il delitto. Ei lo tacea;
era dubbio del colpo e non rimorso.
Furo i numi e ’l mio braccio in tuo soccorso.
la giustizia e l’amor fanno in quest’alma!
Dove regna giustizia, amore è servo.
È legge di natura amar chi è figlio.
Ma legge è di ragion punir chi è reo.
Il giusto re non lascia d’esser padre.
S’è più padre che re, non è più giusto.
un nemico del regno, un tuo periglio,
un empio, un parricida...
l’indegno amico; e per sua man volea
de la vita real troncar lo stame.
Antioco sfortunato! Arsace infame!
Seppe Seleuco i temerari amori
che gli usurpan la sposa?
Così al tuo amor si serve e all’ira mia?
peso bastante, ond’ei ne cada oppresso.
armò talvolta un re più che il timore
quest’ardire del figlio e più severa
la tua vendetta, Argene, indi ne spera.
Che serve? Egli è già complice di un ferro
Politica d’amor così m’addita.
E del mio amor nulla mi dice Argene?
Per ben goder ci vuol costanza e spene.
Per ben amar dunque si speri. Antioco,
non cresce il tuo dolor né il tuo periglio
Tu già sei reo di morte. Or ben mi lice,
senza tarlo crudel che il sen mi roda,
la speranza e ’l desio d’esser felice.
Al vostro zelo, amici, al vostro braccio
deggio la libertà, deggio la vita;
ma ’l più resta a compir; la nostra fede
Per le men osservate occulte vie
a lui si vada; ogni dimora è rischio.
l’onor di sua salvezza. Io senza d’esso
questo valor, questa fortuna obblio
e trovo ancor nel suo periglio il mio.
la mia, la tua pietà così derise.
Signor, di nobil alma è gran cimento
non il rossor di confessarla.
chi si lascia in balia d’un cieco affetto.
molta virtù, molta innocenza ancora.
e con questa innocenza Antioco mora.
il complice del fallo e de l’affetto.
Stratonica, mio ben, mio cor, che fai?
ama con troppo ardire amando Arsace.
Questo è l’affetto, onde ti offendi?
Questo da lui saper volea; di questo
ma parlò poi d’Arsace il ferro ignudo.
al vergognoso eccesso e l’alma e ’l ciglio.
Per man di Arsace è parricida il figlio.
che la legge il condanna e non Seleuco.
quando si armò contro il suo re.
di Stratonica madre i primi uffici?
Questa sola pietade ho per l’infido,
ch’ei da un vile carnefice non sappia
ma da una regia sposa il suo destino.
Così m’esponi a le querele estreme
gran parte perderà del suo terrore.
Il giudice non vuol che vada il padre.
Ed un tenero amor trattien la madre.
Anche l’amor vanta i suoi figli.
Ubbidirò; ma se pentito ei chiede
e perdono e pietà, negar potrai
a le lagrime sue pietoso un guardo?
In braccio a morte il pentimento è tardo.
di’ tu se n’hai pietà. Vorrei...
deluse or or le tue vendette Arsace.
cercherà ne la fuga un certo scampo.
Dai lacci fuggirà ma non da l’ire
del suo monarca offeso. Ovunque ei tenti
il seguirà su’ cenni miei la morte.
tutto l’orror del parricidio enorme;
ma qui ne resta una gran parte e questa
Lontano Arsace, ei ti sarà più fido.
Fé, che vien da la forza, è dubbia fede.
Spesso necessità fassi virtude.
Quale speranza? In me non trovo
che la sola ragion de la vendetta.
con qualche speme è grado a l’altra e spesso
il primo error chiama un più grave eccesso.
Deve Antioco morir. Tanto addimanda
il suo ardire, il mio grado, il ciel, la legge.
Sa l’infelice il suo destin?
nunzio gli sia il rimorso e, se nol sente,
a l’ufficio mortal si accinse or ora.
Questo è un voler che pria di morte ei mora.
Sì, ma una sola morte era bastante.
cagion de’ falli suoi sola e fatale.
Mio rubel? Mio nemico? E mio rivale?
mi dice il mio timore. Adesso intendo
io la credea pietade ed era amore.
ma si ascondea l’amante in fondo al core.
per accertare i miei sospetti). Amico:
«Mora» dice giustizia «il reo fellone»;
anche la gelosia risponde: «Mora».
Lieta n’è l’alma e a te si dee mercede.
che offrir si possa a sviscerato amore.
Felice Tolomeo! Pur mia conquista
Un soverchio piacer spesso è bugiardo.
Ma se il merto il sostien, sempre è verace.
Che oprasti, di’, per meritar?
del rigore il decreto e de la sorte.
Morrà chi vi sprezzò, vaghe pupille.
Mia cara, in Tolomeo già ti offre amore
un tuo amante, un tuo servo...
ch’io sia de le tue colpe il prezzo infame?
Vivrà Antioco, o crudel. Vivrà, se tanto
ponno i miei voti e la mia vita. I numi
Vanne, che vuoi di più? Già sai ch’io l’amo.
Il linguaggio d’amor tu non intendi.
di chi l’offese, ascolta, altro non vuole
Movesti il prence a l’amor mio? Ch’ei mora,
qual colpa ha Tolomeo? Sì poca fede...
Ch’io promettessi il cor, l’affetto, questo
fu interesse d’amor, fu bizzarria.
questa fu vanitade e fu pazzia.
Amo Antioco, non più. Vanne e, se brami
va’, fa’ ch’ei viva. Io saprò far che mi ami.
Alma di Tolomeo, destati, sorgi;
ti chiama il tuo valor. Mostra che sono
più deboli di te le tue catene;
ti faccia la virtù degno di Argene.
Ed io nunzia di morte al mio diletto?
E accettare il potei? Potrò eseguirlo?
Labbro avrò per parlar? Cor per soffrirlo?
passi rubelli, e a quelle stanze amate
diam, pupille, un sol guardo... Ahi, che mirate?
che pianto è quel? Qual n’è la fonte?
Anima mia, piangi, sospiri e taci?
O lagrime eloquenti! In voi già tutto
a chiare note il mio destino ho scorto;
se Stratonica piange, Antioco è morto.
indovinar la sua sciagura. Deve
il mio Antioco morir. Decreto iniquo!
Un’amante lo reca; ed oh con quanto
di pena il reca! Amor tel dica e ’l pianto.
Nel fior degli anni e de la gloria? O stelle!
V’è chi ’l comanda? E v’è chi ’l soffre? Ingrato
condannato è ’l tuo prence e nol difendi?
Non lo difende il ciel? Non l’innocenza?
Ingiusta legge! Barbara sentenza!
Ma che dissi innocenza? È mia gran colpa
non l’amor tuo ma ti condanna Arsace.
tentato parricidio a te si ascrive.
a le sciagure mie, morire infame.
Amabil vita, a te lo giuro e a’ numi,
Tu ne assicura il genitore e sia
la tua cura maggior la gloria mia.
ciò che toglie a’ miei dì, crescere a’ tuoi.
la memoria amar vuoi, l’ama nel padre.
qual carnefice mio ma qual tuo sposo.
il pudico amor mio ti rinfacciasse,
digli, sì, che ti amai; ma digli ancora
pria d’averlo rival, nacque il mio foco.
Digli che la mia fuga era rispetto,
non fellonia. Di’ che i miei voti estremi
fur di amante per te, per lui di figlio.
Morto ei non m’odi e tu vi aggiugni i prieghi
che a le ceneri mie pace non nieghi.
Principe amante ed infelice, addio.
Perché tutto dispero, ardisco tutto.
Pregherò, piagnerò. Tutti i confini
passerò del dolore; e un amor forte
otterrà la tua vita o la mia morte.
Tenerezze d’amor, da me partite;
magnanima virtute occupi e regga.
E di qual fato, o prence,
Su le tue labbra io già ne adoro il cenno.
Del tuo destin, se nol ricusi, io vengo,
Così di tue sciagure il duol mi opprime.
In Tolomeo tanta pietade?
se non a la salute, a la vendetta.
autor di tue sciagure, in chi ti diede
che per l’alta regina in sen ti avvampa,
Ire di padre, or sì v’assolvo. È questa,
quale affanno in Seleuco!
perché il duol ne temea più che lo sdegno.
Mie furie, a la vendetta. Ov’è l’indegno?
di Seleuco il dolor. Farò ch’ei cada...
vittima al sacrificio. Addita il reo.
Io quegli, Antioco. Io presso il padre
ti accusai di fellone e zel mi mosse;
ti scopersi rivale e amor mi spinse.
Che dissi, amor? L’odio di Argene solo
fu consigliere, artefice e ministro
di accusa, di condanna e di periglio
ad un amante, a un genitore, a un figlio.
Basta amar per fallir. Sempre de l’alme
ma basta amar, perché sia lieve errore.
del mio cor con l’esempio il tuo ne assolvo;
Antioco a Tolomeo doni la pace.
E libertà renda ad Antioco Arsace.
ti assicuran lo scampo. Andiamo, o prence.
Ed osa ancor di comparirmi innanzi
Arsace iniquo? E quella mano istessa,
or viene in mia difesa e m’offre aita?
E vuol che io deggia ad un fellon la vita?
Qual fato, avverso a tua salute, un empio
contro Seleuco, il mio sovrano. Un atto
fu interpretato a fellonia. Tel giuro.
E se nol credi a me, credilo a questa
che già m’apro nel sen...
Da che Antioco ho nemico, odio me stesso.
Credo; innocente sei. Non vo’ sì tosto
perder per poca fede un vero amico.
Ne sia prova la fuga. Andiam.
La fuga, che poc’anzi era virtude,
Salva te stesso e di scolparti hai tempo.
Viver non so, se son creduto infame.
Da sé stessa innocenza alfin si scopre.
E da sé si condanna, alor che fugge.
Giova forse la morte a discolparti?
Giova a finir le mie sciagure atroci.
Mostri viltà, se di soffrirle hai tema.
È più viltà la sofferenza estrema.
Non ascolta consigli il disperato.
Pietà vuol che usi forza e obblii rispetto.
in mia difesa e più del ferro ho ’l core.
A qual fine lo stringi è a me palese.
so dagli affetti miei prender consiglio.
Odio, sdegno ed amor sono i tiranni
d’un’anima real. Seco ella stessa
là, dove ad Imeneo splende la reggia,
ciò che risolve alfin dubbio regnante.
qual di voi perderò? Sposa o pur figlio?
Natura, amor, che far degg’io? Le leggi
prenderò dal mio sangue? O dal mio core?
Chi vince in me? L’amante o ’l genitore?
Ma che dubito più? Sposa, ove sei?
Figlio, ove sei? Mi ti rapì un rivale.
Perdei l’un, perdei l’altra e pur geloso
io peno e come padre e come sposo.
Più non mi ascondo. Antioco sfortunato
chiama l’alma sul labbro. Argene, io l’amo.
ch’or del regio imeneo le faci accende?
Tinta di sì bel sangue è mio spavento.
Sparso de’ pianti miei parmi un feretro.
Questo, se Antioco more, è mio sepolcro.
Anch’io l’adoro e vivo il bramo anch’io.
Ah! S’egli è ver, siegui ad amarlo. Siegui
a desiarlo illeso. Io qui tel cedo.
non mi faccia il mio amore. Al re sdegnato
supplice mi vedrai; e perché il voto
solo a pietà, solo a virtù si ascriva,
altro non chiederò se non ch’ei viva.
pronto ad offrir per lo suo capo il mio.
Morire? Eh vivi, Antioco, vivi
libero nel tuo amore. A chi t’adora
basta per guiderdon che tu non mora.
se tuo l’amai. Tu mi perdona, o prence.
Volli vendetta, è ver, ma qual? Sol quella
brama un tenero cor, solo il suo affetto.
Se non vivo per te, lascia ch’io mora.
Chiamami padre. Io voglio
te più condanni e me più accenda a l’ire.
qui giudice mi vuole; e queste pompe,
che far dovean del tuo gioir la scena,
sono i primi strumenti a la tua pena.
purché nol siano al tuo goder. Son reo
e ’l ciel pria vuol giustizia e poi clemenza.
e del cielo e del padre a la sentenza.
Seleuco, ah! se il mio pianto...
Non si deve ad un reo pietà sì bella.
Che dir poss’io? Sei padre. Odi te stesso.
Che far poss’io, se lo condanna il padre?
quel generoso amor? Dov’è quel pianto?
(Noto è l’amor né più l’amor si nieghi).
il decreto real, porgi la destra.
l’arcano di quest’alma, io ti confesso
Pronta è la destra, sì, perché la muove
la man non siegue e lo trattiene amore.
O stelle! Almeno Antioco viva.
l’uso mi può lasciar del mio dovere.
(Che più ti affanni? A la grand’opra, o core).
T’accosta, o figlio. Ecco il fatal momento
de’ miei giudici. Odami il mondo. Antioco
né lo condanna un parricidio enorme.
mosse con troppo ardir guerra segreta.
Stratonica egli amò, l’ama pur anco
Quel che la colpa unì, la pena unisca. (La presenta ad Antioco)
Vinto alfine è l’amore; e dopo questa
sopra gli affetti miei nobil vittoria,
tuo sia Antioco, (A Stratonica) tua Argene (A Tolomeo) e mia la gloria.
Sento il piacere e l’alma appena il crede.
Al mio destin mi rendo e a la tua fede.
trionfi in sì bel giorno anche la pace,
do ’l perdono a’ Fenici e abbraccio Arsace.