Metrica: interrogazione
849 endecasillabi (recitativo) in Antioco (Zeno e Pariati) Venezia, Rossetti, 1705 
Ma di un lungo soffrir senza speranza
Frena l’impeto audace. Io di Seleuco
ciò che sdegnato re niega a’ vassalli.
De’ mali altrui mi fan pietoso i miei,
sin da quel dì che a me vicin quest’alma,
per la bella ch’or perdo, arder vedesti.
                        Deh taci il dolce nome
ch’è ’l periglio maggior di mia virtute.
e supplice e compagno al regio trono.
Serba la fé; la mia ti giuro eterna.
È mio gran duolo esser tradito amante
ma duol maggiore è l’esser servo e figlio.
Degna ancor del mio pianto è un’infedele?
si fa tiranna? E i giuramenti obblia?
questo è ’l felice dì che unir noi deve
me a Stratonica sposo e te ad Argene;
e tu sì mesto accogli un sì gran bene?
Padre, i semi del duolo in noi talvolta
la natura han per madre; e pria che d’essi
la cagione s’intenda, il mal si sente.
fuga, Antioco, i fantasmi. Apri lo sguardo
al riposo di un padre i tuoi tormenti.
un genitor, che ti ama, in questi lumi,
un re che per te vive in questo pianto.
Tu se’ ’l mio sangue e tu mia gioia e tutte
Per pietà del mio core il tuo consola.
Vuoi regni e dignità? Vuoi questo scettro?
Questa corona? Ecco ti cedo il regno,
ecco il diadema, ecco lo scettro; e solo
ti chiedo in ricompensa un minor duolo.
Godi pure il tuo scettro. Ei non ha luce
che mi abbagli la vista; e mai non giunse
a l’altezza del trono ove tu siedi.
La vincerai, se non l’ascolti. Or vanne
regina e madre, i cenni ascolta e i prieghi.
                                           Che brami? Esponi.
Sospendi i miei sponsali e men d’orgoglio
avrà su’ miei pensieri il mio cordoglio.
ministri i tuoi piaceri a le tue pene?
vano è ’l tuo duolo. Ecco opportuna Argene.
(Beltà troppo nemica a la mia pace!)
                                       Deh! Taci, Argene.
                              Il mio destin ne incolpa.
No, la tua crudeltà! Deh, sposo amato...
Non mi parlar d’amore. Usa altri nomi.
Chiamami pur tuo servo e alor ti ascolto.
Ch’io d’amor non ti parli? Al tuo bel volto
che io non parli d’amor? Ah! Tu di amore
non mi parlar con gli occhi, idolo mio.
                                            Argene, addio.
Ch’io di te non mi dolga? Anche, o tiranno,
a me volse il crudel placido un guardo?
Quando mai un sospir diede al mio pianto?
Nulla il mosse il mio amor? Nulla ’l mio grado?
Nulla il titol di sposa? In Lidia io pure
                   Tolomeo, se hai cor, se mi ami,
ecco il tempo, onde amor sperar tu dei.
Antioco è l’offensore. Ebbi per esso,
vo’ dirlo, amor. Tutto è cangiato in ira,
l’ira in vendetta. A te, che devi in Menfi
stringer lo scettro, a cui Seleuco ha tanto
di rispetto e di fé, l’opra confido.
io l’amor tuo, tu l’ire mie. Daremo
Che cangiamento è questo? Argene serba
Tanto può l’ira? Ah! Tolomeo, la fiamma,
che ad un soffio si accende, a un soffio è spenta.
Temi in quell’ira il tuo rivale. Intanto
che pensi, o cor? Sia soddisfatta Argene.
Ma contro Antioco? No, mai non si aggiunga
quel favore a’ Fenici, ancorché infidi,
e s’ei n’è reo, de’ miei rispetti è indegno.
Sì sì, senza rossore, anzi con merto
Chi mai creduto avrebbe Antioco infido?
e pure infido il veggio, infido il trovo.
l’uso de’ sensi e mi conosce appena;
No, non la frango ancor; ma se non posso
non vegga almeno i deboli miei pianti;
Sposa, è pur questo il dì che nel mio soglio
umil ne inchino i cenni e la mia sorte
(sorte crudel) senza contrasto attendo.
Qual duol, signore? Ei pur d’Argene in seno
trarrà felici i giorni. (Ahi tradimento!)
(Purtroppo il so). L’amore impaziente
Ma chi cerca gl’indugi amor non sente.
Questo sì dolce figlio or or pregommi
                                             Ei per mio cenno
(Che mai dirò?) Seleuco, amor non vola
liberi e sciolti a suo talento i vanni.
Talor... Ma giugne Antioco e non mi osserva.
Fallo d’Argene amante. Io qui mi celo.
(D’Argene amante? E ch’io lo faccia? O cielo!)
ch’io prima dir dovea regina e madre,
(O dio! Perché non può parlar l’affetto?)
(Quel sospir, s’è di duol, mi è pur gradito).
E de’ nostri imenei vedrai congiunte...
(Pallor, se sei desio, quanto mi piaci!)
Ed io vedrò le grazie, i vezzi, il riso
(Che bel tacer, se per mio amore ei tace).
Vedrò I’ardor di lei negli occhi tuoi;
le tue fiamme vedrò ne’ suoi bei rai.
                                             Che più vedrai?
Vedrai d’Antioco il core un marmo, un gelo
                        Taci. (Egli è fido, o numi).
Non porto in sen fé sì leggiera. Ho l’alma,
(Il rimprovero è dolce, è giusto, è caro;
                           Taci. (È costante ancora).
se t’ama Argene, essa è d’amor ben degna.
(Finge ragioni e infedeltà m’insegna).
Io stessa i prieghi aggiungo e, perch’io possa
(Ah! Fingi almeno una vendetta, o core).
se Stratonica il vuol, la man d’Argene.
Sì, d’Argene la destra il nodo stringa
e si principi il nodo in quest’amplesso.
Padre... Signor... Se... Quando... Ancora... (Oh stelle).
a te stesso t’invola? Or qui m’attendi
con la beltà che il ciel per te compose.
ch’è giustizia e virtù l’esserne amante.
                                                (Non ho più spene).
                                    La man d’Argene?
Tu consigliasti, e con che forza, o cruda.
T’intendo. Tu infedel mi porti al soglio.
Non aggiugner più duolo a le mie pene.
                      Lo dirà la man di Argene.
Parto, perché soffrir te più non deggio.
Il mio sdegno è a l’estremo. Ingrato, io parto.
Deh! Come t’odio anch’io, tu m’odia ancora.
Vanne, ingrata, sì, va’; ma se mi lasci
l’impero d’odiarti, ancor mi lascia
il tuo sembiante a le tue labbra. O dio!
poi d’odiarti avrò coraggio anch’io.
                         Antioco, resta. E vuoi?...
                                               (O caro sdegno!)
T’accosta, o figlio. Offri ad Argene il core.
Un cor superbo, un core ingrato? Vanne.
                                                            (Io spero).
Principe, di quell’alma i moti accheta.
Proponi umil de’ tuoi sponsali il laccio.
                             (E senza pena io taccio).
                                                               E lice?...
Rifiutar chi sprezzò già l’amor mio.
                              Deh resta.
                                                   Antioco, addio.
gli ossequi e le discolpe? Al figlio Arsace
Il contento di Arsace a lui mi chiama.
                               Più che d’Argene l’ira,
                             Ah! Se la tema, o sire...
                              Del tuo riposo, al labbro...
Direi che del suo duol, de’ suoi sospiri
                                         Io? V’è nel regno
                                            Il regno istesso.
Prence, t’inganni. O quante volte, o quante
gli posi a’ piedi; ed ei né pur d’un guardo
                                                          Ei forse
fuorché del sangue tuo tinto il suo manto.
                              Alor che i lumi, o sire,
fissa ne’ tuoi, qual de’ suoi sguardi è il moto?
                                          Pallido, esangue.
                                             Egra, tremante.
Quel pallor, quel timor, quel turbamento
è l’anima che sente il suo delitto.
a’ rubelli fenici? Esso gli abbraccia.
Vedi qual zelo. Esso ne applaude agli odi;
e fors’ei primo il foco indegno accese.
torrei la fede. E pure... Ahi fati! Ahi pene!
(È pago il zelo e soddisfatta Argene).
                                             Venga. E tu, figlio,
libero a l’ire mie lascia il destino
                                          Basti. Assai dissi.
                                            Arsace, sorgi.
che per mia bocca a te, monarca invitto,
le sue suppliche porta e i mali espone.
altre volte a te caro, al di cui braccio
                        Sì, un popolo rubello
pose in obblio, che osò nel seno istesso
de’ duci suoi, de’.miei più cari il ferro
Prendemmo il ferro, è ver, ma per vendetta
solo de’ nostri torti. Abbìam sofferto
ne’ duci tuoi quanto ha di crudo e fiero
diè freno al nostro ardire e fe’ più audaci
le rapine il tacer. Ma alfin chi puote
de’ suoi giudici stessi? Io non avea
Non più. Del poter mio, del vostro fallo
                             Antioco, taci.
                                                       Eh frena...
No. Perdon non si speri. I vostri mali
sieno agli altri di esempio, a voi di pena.
                                  Infausti uffici!
                                                               E queste
fian de la patria e le speranze e i voti?
                                                        Vuoi dunque?...
Fermo è ’l disegno. Ogni consiglio è vano.
                                    Ove perdei la pace.
                       Oggetto a me di sdegno.
                                                                     Il padre?...
                                                             Deh! Senti...
Non più, partiamo, Arsace. Orché Seleuco
contro il Medo superbo il ferro impugna,
l’ire comuni; e ’l genitore e ’l regno
d’una sorte miglior non era indegno.
Tu vanne a l’idol mio, digli che or ora
saprà qual io mi parta e quale io mora.
lo ti precedo ed i tuoi cenni osservo,
per legge e per amor vassallo e servo.
Io parto alfin; luoghi sì cari un tempo
più caro agli occhi miei de la mia vita.
de le lagrime mie, de’ miei tormenti!
Antioco a me? Non deggio udirlo. Estinti
cadranno agli occhi suoi gli sdegni miei.
Un sol momento ancor soffri, o regina.
Soffri le voci mie, soffri i miei sguardi.
l’orror che hai di vedermi. Io veggo l’ira
in quel pallor che ti sorprende e turba;
ma questo è alfin l’ultimo onor che chiedo,
l’ultimo addio che porgo. Io già per sempre
ti lascio il regno e ’l genitor; ma, o dio!
pria vengo a dirti addio per sempre. Addio.
A che vieni, o crudel? Vieni a dar forse
Vanne, infedel. Venga pur teco Argene.
Per non esser d’altrui, perché non posso
esser più tuo, parto, regina, io parto.
che una volta ti diedi, io da te parto.
              Nel mesto addio te almen lasciassi
                       No, regina, ama Seleuco.
Scordati Antioco. È crudeltà che voglia
Né a te più amar né a me sperar più lice.
Non più, Antioco, non più. Credo al tuo core
e tu pur credi al mio. Tu mi ami, io t’amo!
tu a me fedel, fida a te sono anch’io.
                                          Devi lasciarmi?
                                   Amor, rispetto e fato.
Regina, addio. Ma se tu piangi, io resto.
Lascia ch’io parta e poi... No, troppo chiedo.
donami un sol sospiro, un pianto solo.
No, Antioco, tu vivrai. Vivrai, se mi ami.
chi una volta ti amò per sempre amarti.
Vanne. Già sai che ti amo; amami e parti.
Andiam; portate almeno, aure innocenti,
l’altro di amore al caro ben che perdo.
Questa è la strada, onde a la gloria vassi.
Il sa ma non fa ’l cor la via dei passi.
                      Siamo scoperti.
                                                     O fato!
de l’iniqua lor fuga! Ah figlio ingrato!
tu d’esser figlio mio, tu mio vassallo.
                             Qual ira?
                                                 Empio, fellone,
si correggon le antiche? Il mio perdono
si cerca ne l’orror di un tradimento?
tu torna al padre. Il viver, che ti lascio,
sia pena e non speranza. Una grand’ira,
dillo a’ Fenici, a gran vendetta aspira.
lo difenda il mio braccio e la mia fama). (Parte co’ fenici)
lo sdegno ammorza; ogni altrui fallo è mio.
Ancor persisti? E più di un padre offeso
che del tuo error la prima pena è mia.
Di offeso re, non più di padre ho ’l core.
ma giuste... O ciel! Che parlo? Antioco, taci.
ma tu negar non dei d’essergli figlio. (Resta pensoso)
mesti i custodi, alto silenzio... Ah! Temo.
gli animi, o prence, in dì sì lieto ingombra?
ne lo sdegno del padre il mal del figlio.
Sì sì. Prence nascesti e figlio sei. (Per partire)
                  Ah! Mia regina.
                                                 (Osservo e ascolto).
cresce nel rivederti; e l’empia sorte
fra’ mali miei la tua presenza ancora.
Principe, del tuo core ov’è l’invitta
sì tosto cedi? E ’l tuo crudel martoro...
                               Aimè... Regina... Io moro... (Sviene)
                                                     Antioco. O dio!
(M’osserva Tolomeo). Prence, condona,
giusto è l’affanno mio. Sposa del padre,
tenerezze di madre io deggio al figlio.
                                           (Men fiere siete,
Qui mi richiama... Qual oggetto è questo?
                                          È forse duolo
                               Olà, tosto si guidi
Signor, sarà mia cura il far che Antioco
                                         In te riposo,
                                            (E così meglio
ne scoprirò gl’interni affetti). Andiamo. (Parte con le guardie che sosterranno Antioco)
più de la tua pietà che del tuo sdegno.
obbliar d’esser padre? Io temo, o sire,
che perda il genitor, perdendo il figlio.
son voci del mio cor; l’anima e ’l sangue
fan conoscermi Antioco; e Antioco solo
                                               E con qual fallo?
Se ’l sai, cresce il mio duol; se non t’è noto,
ti risparmio un rossor. Basti che ardito
col genitor te pur, mia sposa, offese.
                                                               Basta.
troppo mi è certa e troppo il reo mi è caro.
di un giudice e di un padre i sensi e ’l voto.
Abbia Antioco il perdon, purché mel chieda.
Non odio in lui che il suo fallir. Se vuole
l’error del figlio e de l’error l’emenda.
                                           Io stessa, o sire,
                                          Alor più belle
e potrò più contento offrirti in pegno
col cor la destra e con la destra il regno.
                                 Ed al tuo core
Molto ancor resta a l’opra. Andrò d’Antioco
e di Antioco e di Argene accenda il core.
                      Sì, d’Argene ancorché irata.
L’un vincerai, se vuoi. Vincer de l’altra
l’arte per farsi amare ancor non sai.
non fu vano il sospetto. Antioco è amante.
Non m’ingannai. Ah! Quell’uscir piagnendo
da Stratonica, sì, ben tel diss’io,
da due fenici, al re l’esposi; e colto
ne la sua colpa ancor l’hai ne la reggia.
Ov’almen vo’ sperar più dolce un guardo.
di sdegno un cor, non è sereno un volto.
ben puoi, da chi ti offende, un che ti adora.
prima del tempo il guiderdon de l’opra.
Siegui a compir la mia vendetta. Or sia
meta de’ tuoi sospiri Argene offesa;
che alor merito avranno i tuoi sospiri.
                                                            Io vile
sperar sopra un ingrato? E che sperarne?
protestò di voler che Antioco ti ami.
                                         Sì. Resti sospesa?
Quel tacer è di sdegno o pur d’affetto?
Nol so. (So che mi avvampa il cor nel petto).
Questo è un dir che penando io serva e soffra;
questo è un tradir de la costanza il merto.
è scaltro ingegno o bizzarria di core?
Io non l’intendo e mi confonde amore.
vivrò, poiché pietosa ami che io viva;
ma quale, o dio, vivrò? Che io deggia al padre...
                                                          E colpa
Potrà egli udirmi? Io sofferirlo? Io farlo?
Ei sa il tuo error, forse lo scusa e vuole
che il chiederne perdon basti a ottenerlo.
a qual delitto il tuo voler m’astringe
e che il peggior de’ mali è l’ubbidirti.
quanto ha di fiero e di crudel la morte.
Poiché basta a salvarti il pentimento,
vanne, lascia d’amarmi; io mi contento.
                                  E se convenga ancora,
                            Un cor, sì, un cor che pena
                                                 E mi consigli
La mia virtù l’impone e la tua vita.
                                                               È questo
d’una face che muor lo sforzo estremo.
Chi dee, chi può ammorzarla in questo petto?
ogni voto ch’io faccia è mal sicuro.
Orsù, fa’ core, Antioco. Ascolta. Ascolta
più de la tua innocenza il tuo delitto;
Ama in me l’onor mio, non il tuo amore.
ceda ogni altro rispetto a la tua legge.
Che fai? Che pensi? A qual cimento esponi
Vo’ d’un padre crudel sottrarti a l’ire.
                                           E giusto nIega
                                                            Umile
ne adoro i cenni e ’l mio destin ne attendo.
che già Meraspe entro la reggia accolse,
Verrà Antioco a’ miei piedi? Ei del suo fallo
(Dammi coraggio, amore). Eccoti, o sire,
misero più che reo prostrato un figlio.
a me accresce la pena, a te il rossore,
sorgi, t’assidi e d’un re padre i sensi
tacito ascolta e non turbarne il corso.
Ubbidirò. (Già di soffrire è ’l tempo).
Grave, Antioco, è ’l tuo fallo. Io fede appena
forse è ’l minor de’ benefici. Amore
che dal mio cor ne principiassi il regno
Di’, che far più potea? Potea dal trono
e per essere anch’io fra’ tuoi vassalli.
Il feci, Antioco, il feci. Oggi a’ tuoi piedi
che il piacer del tuo ben. Tanto ti amai.
ma la tua sconoscenza il tuo gran fallo.
                                              Ah, sire...
                                                                  Affetti
                                        Volea...
                                                        Desiri
che orror fanno a l’amore, a la clemenza?
Figlio troppo crudel, se ciò che amavi
perché farlo tua colpa e mio tormento?
Te l’offersi innocente; e ’l ricusasti
ma ’l cadavere mio ne vuoi per grado.
ti sollecita il piede e t’arma il braccio.
ti rende avverso agl’imenei; ti toglie
il parricidio tuo ch’era il tuo affanno.
quel reo tacer, più che rispetto, è orrore.
se ’l puoi, te stesso e, se nol puoi, ti accusa,
aver più non poss’io, l’avrò pentito.
Parla, Antioco, fa’ cor; pronto è ’l perdono;
che dir non so. Del tuo sospetto io sento
                                            Venni e reo sono;
ma d’altro error che di sì enorme eccesso.
                                         E tal che piace,
ancorché sia tua offesa e mio tormento.
la bella colpa, onde si pregia il core).
                              Che?
                                          Ne chiedi invano;
esca l’alma del sen, non mai l’arcano.
Odi qual parla, odi il fellone. Ah! Pensa
che il tuo tacer ti può costar la vita.
Serbisi a l’ire mie. (Escono le guardie) Vanne e te stesso
che il colpevol conosci e non la colpa.
E seco mora il fido Arsace ancora. (Uscendo con ferro ignudo verso Seleuco)
                                                      Qui Arsace
                                  E a’ piè tel getto, o sire,
                                                  E di tua morte.
                                       Signor.
                                                       Tu vedi
novelle insidie. A me le tese il figlio.
                                      Taci. In carcer tetro
Che giorno è questo, in cui vassalli e figlio
d’altro fallo si accusa e poi mel tace.
E qui col ferro esce a’ tuoi danni Arsace.
Furo i numi e ’l mio braccio in tuo soccorso.
la giustizia e l’amor fanno in quest’alma!
Ma legge è di ragion punir chi è reo.
Il giusto re non lascia d’esser padre.
S’è più padre che re, non è più giusto.
                                              Morrà in Antioco
                                               Ed un mio figlio.
                                               Io non li dissi.
Così al tuo amor si serve e all’ira mia?
peso bastante, ond’ei ne cada oppresso.
armò talvolta un re più che il timore
quest’ardire del figlio e più severa
la tua vendetta, Argene, indi ne spera.
Che serve? Egli è già complice di un ferro
Per ben goder ci vuol costanza e spene.
non cresce il tuo dolor né il tuo periglio
Tu già sei reo di morte. Or ben mi lice,
la speranza e ’l desio d’esser felice.
Al vostro zelo, amici, al vostro braccio
ma ’l più resta a compir; la nostra fede
l’onor di sua salvezza. Io senza d’esso
                                                   Ah, sire...
chi si lascia in balia d’un cieco affetto.
                                                               Questo.
                                         Ei tacque alora
ma parlò poi d’Arsace il ferro ignudo.
al vergognoso eccesso e l’alma e ’l ciglio.
Per man di Arsace è parricida il figlio.
                      Intendesti. Al traditore
                                                           Perdona.
                                                         Or vanne...
In braccio a morte il pentimento è tardo.
                                                      Seleuco,
                                        Ove salvossi?
del suo monarca offeso. Ovunque ei tenti
                                 Il seguitasse almeno
Fé, che vien da la forza, è dubbia fede.
                    Quale speranza? In me non trovo
con qualche speme è grado a l’altra e spesso
il primo error chiama un più grave eccesso.
il suo ardire, il mio grado, il ciel, la legge.
              Così risolvi?
                                       Io no. Il suo fallo.
                                                Di questo
nunzio gli sia il rimorso e, se nol sente,
                       La bella a’ cenni miei
Questo è un voler che pria di morte ei mora.
                Di lei...
                                Che?
                                            Il prence...
                                                                  Siegui.
                                                                                  È amante.
                                               L’adora.
ma si ascondea l’amante in fondo al core.
«Mora» dice giustizia «il reo fellone»;
                                        Ed è ’l suo sdegno
Lieta n’è l’alma e a te si dee mercede.
Ma se il merto il sostien, sempre è verace.
                                                       Poc’anzi
                                          (Indegni amori).
                            Contro del prence alora
                                          Quel di sua morte.
Mia cara, in Tolomeo già ti offre amore
                                                        E un traditore.
                          Anima vile, e speri
ch’io sia de le tue colpe il prezzo infame?
Vivrà Antioco, o crudel. Vivrà, se tanto
Vanne, che vuoi di più? Già sai ch’io l’amo.
di chi l’offese, ascolta, altro non vuole
                                    (Io son di sasso).
Movesti il prence a l’amor mio? Ch’ei mora,
                                    E s’egli è reo di morte,
Ch’io promettessi il cor, l’affetto, questo
Amo Antioco, non più. Vanne e, se brami
va’, fa’ ch’ei viva. Io saprò far che mi ami.
Labbro avrò per parlar? Cor per soffrirlo?
diam, pupille, un sol guardo... Ahi, che mirate?
che pianto è quel? Qual n’è la fonte?
                                                                   Antioco...
di pena il reca! Amor tel dica e ’l pianto.
Nel fior degli anni e de la gloria? O stelle!
V’è chi ’l comanda? E v’è chi ’l soffre? Ingrato
condannato è ’l tuo prence e nol difendi?
Non lo difende il ciel? Non l’innocenza?
Ma che dissi innocenza? È mia gran colpa
                                           E possa il cielo
ciò che toglie a’ miei dì, crescere a’ tuoi.
la memoria amar vuoi, l’ama nel padre.
digli, sì, che ti amai; ma digli ancora
pria d’averlo rival, nacque il mio foco.
non fellonia. Di’ che i miei voti estremi
fur di amante per te, per lui di figlio.
Morto ei non m’odi e tu vi aggiugni i prieghi
                               E di qual fato, o prence,
Su le tue labbra io già ne adoro il cenno.
Del tuo destin, se nol ricusi, io vengo,
Così di tue sciagure il duol mi opprime.
                                                  È giusta
                               Fu mentitore.
                                     Fuga innocente.
che per l’alta regina in sen ti avvampa,
Ire di padre, or sì v’assolvo. È questa,
                                          Al fiero avviso
                                                Io la tacea,
perché il duol ne temea più che lo sdegno.
Mie furie, a la vendetta. Ov’è l’indegno?
                                   Che più mel celi?
                                                                     Or ora
                                    E punirò in quel seno
di Seleuco il dolor. Farò ch’ei cada...
                                                Con questa spada.
                               Egli è...
                                               Chi?
                                                           Tolomeo.
                        Io quegli, Antioco. Io presso il padre
Che dissi, amor? L’odio di Argene solo
ad un amante, a un genitore, a un figlio.
Basta amar per fallir. Sempre de l’alme
ma basta amar, perché sia lieve errore.
del mio cor con l’esempio il tuo ne assolvo;
                             Qui Arsace?
                                                      I miei fenici,
ti assicuran lo scampo. Andiamo, o prence.
or viene in mia difesa e m’offre aita?
E vuol che io deggia ad un fellon la vita?
Qual fato, avverso a tua salute, un empio
                                              Che fai?
                                                                Che tenti?
Da che Antioco ho nemico, odio me stesso.
Credo; innocente sei. Non vo’ sì tosto
                                                       No, Arsace.
Salva te stesso e di scolparti hai tempo.
Da sé stessa innocenza alfin si scopre.
Mostri viltà, se di soffrirle hai tema.
Pietà vuol che usi forza e obblii rispetto.
in mia difesa e più del ferro ho ’l core.
                                   E primo è ’l genitore.
               (Seleuco).
                                    (O dei!)
                                                      Nuovo delitto
                             Sono a me note.
                                                            Al figlio
so dagli affetti miei prender consiglio.
                            S’odio...
                                             Se amor...
                                                                  Se sdegno...
                        Re ch’è padre.
                                                    E re ch’è amante.
qual di voi perderò? Sposa o pur figlio?
Natura, amor, che far degg’io? Le leggi
prenderò dal mio sangue? O dal mio core?
Chi vince in me? L’amante o ’l genitore?
Perdei l’un, perdei l’altra e pur geloso
chiama l’alma sul labbro. Argene, io l’amo.
ch’or del regio imeneo le faci accende?
Tinta di sì bel sangue è mio spavento.
Sparso de’ pianti miei parmi un feretro.
Questo, se Antioco more, è mio sepolcro.
Anch’io l’adoro e vivo il bramo anch’io.
Ah! S’egli è ver, siegui ad amarlo. Siegui
non mi faccia il mio amore. Al re sdegnato
solo a pietà, solo a virtù si ascriva,
altro non chiederò se non ch’ei viva.
                                          Eccomi, Argene,
pronto ad offrir per lo suo capo il mio.
                                (Vista crudele!)
               Morire? Eh vivi, Antioco, vivi
                           Cor gentil!
                                                 Nobil pietade!
se tuo l’amai. Tu mi perdona, o prence.
Volli vendetta, è ver, ma qual? Sol quella
brama un tenero cor, solo il suo affetto.
                             Regina, e che prometti?
                                      (Io spero ancora).
Se non vivo per te, lascia ch’io mora.
                              Chiamami padre. Io voglio
te più condanni e me più accenda a l’ire.
e ’l ciel pria vuol giustizia e poi clemenza.
                                                        Egli n’è indegno.
Che dir poss’io? Sei padre. Odi te stesso.
Che far poss’io, se lo condanna il padre?
quel generoso amor? Dov’è quel pianto?
(Noto è l’amor né più l’amor si nieghi).
l’arcano di quest’alma, io ti confesso
Pronta è la destra, sì, perché la muove
                 O stelle! Almeno Antioco viva.
(Che più ti affanni? A la grand’opra, o core).
T’accosta, o figlio. Ecco il fatal momento
de’ miei giudici. Odami il mondo. Antioco
Quel che la colpa unì, la pena unisca. (La presenta ad Antioco)
Vinto alfine è l’amore; e dopo questa
tuo sia Antioco, (A Stratonica) tua Argene (A Tolomeo) e mia la gloria.
Sento il piacere e l’alma appena il crede.
trionfi in sì bel giorno anche la pace,
do ’l perdono a’ Fenici e abbraccio Arsace.

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