Metrica: interrogazione
693 endecasillabi (recitativo) in Aminta Venezia, Pasquali, 1744 
Addio regina, addio, da questi lidi
ove l’ira del mar me dietro all’orma
della cara germana avea già spinto,
Siracusa mi attende; io parto e il core
meco non vien; teco riman su queste
spiagge fatali a sospirar di amore.
principe generoso, in ogni tempo
si pregerà. Se agli occhi tuoi già piacque
questa, di un lungo duol misero avanzo,
sfortunata beltà, se non t’amai
come il tuo cor forse chiedea, ne incolpa,
più ch’Euridice, il fato. Amar non lice
fuor che il suo sposo a una real consorte,
benché tradita sia, benché infelice.
Io partirò, soffri che il dica ancora;
ma né lunga stagion né vario clima
potrà stancar la mia costanza; ognora
Sì, partirò (ma senza te giammai).
che a te non giova e ch’io non cerco.
                                                                  E questo,
che t’ami il labbro e vuol che t’ami ’l volto.
ne’ tuoi lumi ’l tuo sdegno. Io parto; ammorzi
sol questo addio l’ire già accese e almeno
un sol sospiro; egli è l’estremo addio.
O del mio lungo duol fide custodi,
solitudini amiche, a me più care
l’afflitto cor con libertà di pianto.
meco ragiono al traditor mio sposo,
parmi che l’empio i miei lamenti ascolti,
tu gli adulteri amplessi in me sognasti,
con svenar nel mio seno anche il mio onore
O memoria crudele! O cor rubello
che l’ami anco sì iniquo, anco sì ingrato!
                                  Serena il volto. Aminta...
                                       Ed Euristeo morendo...
                                     Nulla t’intendo.
Che di Euristeo? Che mai ti disse Adrasto?
quali nove sciagure a me destina?
                        Ecco Celia, essa confermi
de’ tuoi mali a pietà. Scoperta Aminta
ha l’innocenza tua. Piange il suo fallo
                                         Celia, ed è vero?
Si è pentito l’iniquo? Ah, tu m’inganni.
                       Parla e ti assidi.
                                                      Ascolta.
Io già tutto le dissi un’altra volta.
                                      Il ciel pietoso
l’innocente Alessandro.
                                            Il caro figlio.
le antiche fiamme, ad opre eccelse inteso,
                             Ed in tre lustri ’l sole
l’Asia con l’armi e con la fama il mondo.
                                     Nome fatale
                         Il re, che l’ama, seco
langue per gran dolor né trova pace.
vieppiù sentia de’ suoi delitti ’l peso
che l’orror della morte, intorno gira
torbidi i lumi e sospirando i ferma
nel mesto re: «Risparmia» ei disse «Aminta,
il tuo dolor. Meglio conosci omai
Euristeo quando il perdi. In un germano
ti svelo un traditor, ti addito un empio».
Tacque e poscia soggiunse: «Alle mie luci
piacque Euridice e l’adorai. Sprezzato,
a te l’accuso e il credi e del tuo sdegno
ella cadea ma la difese il cielo,
il ciel che or me punisce assai più giusto».
Volea seguire; e Aminta: «Ah traditore»
chiude le luci, il senso perde e more.
O giusta morte! O tradimento! O numi!
Pianse d’allora il tuo pentito Aminta.
Sé stesso condannò; tornò ad amarti.
Per monti e valli, abbandonato il regno,
Pianga pure il crudel. Tutto il suo pianto
ma donde avesti ’l grande avviso?
                                                               Tempe
ne risuona di gioia e in lieti viva
plaudon ninfe e pastori al tuo contento;
e il seppi anch’io dallo straniero Adrasto.
Chi sa che Aminta a’ piedi tuoi non venga?
così offesa e tradita? Io sofferirlo?
                                  Placa, o regina...
Sì, trafigger quel core... Ah no, pria questo
il mio sposo tu sei, l’idolo mio.
del regio cor tutti gli arcani, ancora
si è placata Euridice? Ancora Aminta
                                           Credimi, Adrasto,
placar donna irritata e amante offesa.
succedono a vicenda odio ed amore.
                                  Non lusingarti,
già il mio cambiai col cor di Silvio, ond’io
vivo sol col suo core ed ei col mio.
E per Silvio mi sprezzi? In che gli cedo?
meco si provi e al canto; avrò di lui
più snello il piede e più gentil la voce.
Egli, vil di natali e di fortune,
                                             Sentimi, Adrasto.
a te pascon più armenti; e illustre sei
per virtù, per natali e per fortuna;
ma Silvio è più vezzoso agli occhi miei.
              Celia.
                           Mia vita.
                                              (O gelosia!)
del mio rigor la più gentil discolpa;
se all’amor tuo render non posso amore,
Sia pur Silvio il tuo vago; ei dì piacerti
abbia tutta la gloria, alfine Adrasto
                    Non temo.
                                          Eh folle! Celia
più che donna non è. Sol perché t’ama
                       Non lo sperar. Tu solo
il mio nume sarai, l’anima mia.
             Silvio.
                           Mia vita.
                                              (O gelosia!)
Ancor forza è ch’io taccia e che nasconda
il mio grado real? Silvio trionfa
di Adrasto e il soffrirò? Tanto ti deggio,
m’imponi, Aminta. Io ti ubbidisco, a prezzo
anche della mia pace e del mio pianto.
la cieca doglia? Ove l’affetto? Fuggi
la sdegnata Euridice, ancor non certa
Perdi, amico, i consigli. È giunto il giorno
che della sorte mia decida i casi.
s’ha da placar l’irata sposa; omai
forz’è ch’io parli. Ho già taciuto assai.
men sospetto e men noto; ad ogni sguardo
non ti scoprir. Parlano meglio, allora
che non han chi gli osservi, i nostri affetti.
nel maggior de’ miei mali, o quanto io deggio!
Seguo i consigli tuoi. Vanne e là, dove
nel sordo lido il vicin mar si frange,
verrai con ciò che possa ad Euridice
Ben risolvesti. Ivi mi attendi.
                                                       Amico,
moltiplica le morti al mio tormento.
Quale speme è la tua, misero Aminta,
condannata la sposa, ucciso il figlio!
Che risolvi? Ove vai? Mori, infelice.
la morte tua, se non la miri in fronte
alla tradita tua fida Euridice.
Mori e fuggi quegli occhi... Ah no, mia sposa,
con un dolore al mio delitto eguale,
degna dell’ira tua. Tu sola avrai
e in onta del mio duol a te la serbo.
non estingua i tuoi sdegni? E a me talvolta
di qualche lagrimetta e l’ossa e l’urna.
                                         (È dessa, il guardo,
il portamento, il moto agli occhi miei
(Misera me, s’ei mi conobbe! È meglio
                                     O cara, o da me tanto
                                Perché mi fuggi, Elisa?
non mi ravvisi? O pur t’infingi?
                                                            (Come!
                                              (Stessa è la voce.
Non m’ingannai). Quanti perigli e quanti
mi costò la tua perdita! Più regni
e più mari tentai per rinvenirti,
tornar senza di te; quanto giulivo
sarà nel rivederti ’l vecchio padre
che ancor bagna di pianti ’l crespo volto!
signor, più che ti miro o che ti ascolto.
Che! Tu Elisa non sei? Di Siracusa
                                 Io Celia son, di Tempe
e la breve capanna è il regno mio.
(Per te finger mi è forza, o cieco dio).
Come qui in Tempe e in libertà, se preda
                              Con tanta fretta, o ninfa...
Senza il noto custode errar dispersa
troppo lasciai la fida greggia e forse
sgridar me ne potria l’austero padre.
i lunghi e molti verni han reso il crine.
Ma ch’Elisa tu fossi io giurerei.
stato sogno od incanto... O fido Araspe,
qui te appunto attendea. Partir da Tempe
dal naufragio crudel rimase a noi
meco verrai co’ miei più fidi; e intanto
pronti stiano gli abeti a scior dal lido.
Vanne, opra e taci; io nel tuo amor confido.
possa mirar placata e me felice?
prepara il cor ch’ella qui viene.
                                                          O numi!
                                    Per ottenerlo, tutti
se ti trova fedel, puote anco amarti.
risolvesti cor mio? Cinto da mali,
che paventi? Che pensi? Io già ti veggo
da mille affetti lacerato. Ah, fuggi...
Ti consiglio alla fuga e tu non puoi;
ti esorto alla costanza e tu non l’hai.
                                           (Oimè, che veggio!)
                        (Non m’inganno).
                                                           (Ardisci, o core).
                                           Ah traditore!
Devo dar fede al cor? Parla, rispondi.
no che Aminta non sono. Ei fu altre volte
il tuo fido, il tuo sposo. Ei fece un tempo
le tue delizie e tu le sue facesti.
Sono un crudele, un sanguinario, un empio,
scopo dell’ire tue. Son quegli, o dio!...
Non più, iniquo, non più, troppo rammento
gli oltraggi tuoi. Ben ti ravvisa il core
e conosco che parlo a un traditore.
qual io mi sia? Vedi a chi parli? Io sono,
                                             Ahi!
                                                        Tu sospiri?
quanto ti amai? Quanto serbai pudica
del giogo marital le caste leggi?
che in guiderdon della mia fede, ingrato,
che in premio del mio amor le leggi hai poste
tutte in obblio per condannarmi a morte?
che far dovea? Che far potea? Chi mai
in un germano accusator? Chi mai...
ma non Aminta. Ei qual ragione avea
di sospettare in me colpa sì enorme?
Che non pensar qual vissi? E la mia vita
ti servia di discolpa. Anche i delitti
hanno il lor grado; e in un sol giorno istesso
da una grande innocenza a un grand’eccesso.
ma l’error fu innocente; ei conceputo
fu dal timor, non dal voler...
                                                    E dove
a condannar senza difesa? Forse
Maturasti le accuse? Era inonesta?
Quando? Con chi? Qual fu la prova? Un solo,
un lieve indizio e ti perdono. Iniqua
soscritta dal tuo cor; l’esserti moglie
era tutto il mio fallo. Ah, se volevi
di un eterno imeneo scior le ritorte,
senza tormi l’onor, darmi la morte.
Regina, io sono il reo, tu sei l’offesa.
a chiederti ’l perdon ma la vendetta.
che per cader dalla tua man ferito,
Su, che fai? Che più badi? Il colpo attendo.
Pensi che in crudeltà possa imitarti?
vivi pure, infedel, ma il tuo delitto (Aminta si leva)
si asconda agli occhi miei. Vanne sì lunge
che di te non mi resti altro che il nome
ed il solo dolor di averti amato.
la mia vendetta e la tua pena. Vivi.
                Chi sei?
                                  Non mi ravvisi? Elpino,
                  Tu quel cui già la morte imposi
                                               Io quegli sono...
mi si agghiaccia nel sen. Fuggi, t’invola;
celati agli occhi miei. servo mal nato,
                                         S’egli era ingiusto,
perché ubbidirmi? A che eseguirlo?
                                                                   È dunque
                                      In rimirarti,
de’ miei delitti in me si accresce il duolo.
Uccisor del mio figlio, empio ministro,
fuggi e col mio dolor lasciami solo.
diverrà la tua fede il tuo delitto;
è pentito dell’opra e non Elpino.
Timidi affetti, ogni riguardo or ceda;
or v’invito a goder. Celia in me trovi
ciò che amasti pastor, principe obblia.
Ah, Celia, ch’io non t’ami! A che ti fece
sì bella il ciel? Non ti formò natura
per lasciarti perir fra’ boschi ignota.
Sì, t’amerò, nulla distingue amore.
opra sia non del ciel ma del mio core.
So che ami Celia e so che Celia ancora
                                        Amor fra noi
                                         Degni ambo siete
di un sì bel nodo. Anche rival, nol nego;
pur convien ch’ei si sciolga.
                                                   Io pria la vita...
Amo Celia e tu ’l sai; ma non ancora
il tuo rival ti è noto. Adrasto io sono;
non son plebeo, non vil pastor. Ravvisa
un germoglio real. Son di Argo il prence.
                         Al trono io nacqui e al trono io penso
                          (Misero me!)
                                                     So quanto
del grado mio, della sua gloria il fato.
                        (O martir!)
                                                Rispondi.
                                                                    O pena!
Del tuo duolo ho pietà; ma che far posso?
Che far tu vuoi? Sì bella sorte a Celia
non invidiar. Soffri ’l suo bene e l’ama.
te pur trarrò. Tutto sperar ti lice
da un grato re, da un amator felice.
Misero Silvio! Ecco disperde il vento
le tue belle speranze un sol momento...
il tuo, deh non più tuo, Silvio infelice.
che non piango la tua, piango la mia
felicità perduta. E pur dovrei,
consolar, ma non posso, i mali miei.
Qual perdita è la tua? Qual bene è il mio?
                             Deggio pur dirlo... Adrasto...
                                          (Tregua, o sospiri).
Io non più tua? Chi mi t’invola? Adunque
la nostra pace ad invidiar si è mosso?
Io non più tua? Dimmi, perché?
                                                            Non posso.
Che può Silvio temer? Gli è noto forse
Amor me gli fa eguale. Eccomi ninfa.
il suo core il mio regno. Un dolce sguardo
che dal labbro gentil parta amoroso,
stimo più di ogn’impero e più del mondo.
cieca nell’ira tua? Ti consigliasti
ben col tuo cor, quando a sì duro esiglio
dannar potesti ’l tuo pentito Aminta?
Ti scacciò il labbro, or ti richiama il core.
la vendetta a mirar nel mio dolore.
pianto a versar, voce a lagnarmi ancora?
O spettacolo atroce! O re infelice!
                                   Un mortal ghiaccio
mi assale il cor, mi occupa l’ossa. Parla.
Che dir poss’io, che udir vuoi tu? Te stessa
meglio dal tuo rigor che dal mio labbro.
                             Quanto alla Grecia, al mondo,
tolse tua crudeltà! L’onor dell’armi,
per te mancò, per te sol cadde estinta.
                       È morto... Aminta.
                                                           O cieli! Amin... ta. (Sviene Euridice; e Aminta, dall’albero più vicino accorrendo, la sostiene nelle sue braccia)
Crudele amico e più crudel inganno!
Mio re, non paventar; l’alma, sorpresa
da deliquio mortal, ben presto a’ sensi
ritornerà. Vedi or se t’ama?
                                                    Corri
alla vicina fonte; il passo affretta.
Ogni ’ndugio mi uccide. O caro volto! (Adrasto si parte)
Pallido sei ma il tuo pallor mi alletta.
Ecco la preda. (Si accosta ad Euridice e la toglie di braccio ad Aminta)
                             Oimè!
                                            Scostati, audace. (Aminta dà di mano alla spada ma gli si oppone Araspe e parte de’ soldati di Dionisio)
                                       Punisci, Araspe,
l’orgoglio di costui; poi vieni atteso.
venga unito al mio brando.
                                                   O dolce peso! (Si parte Dionisio con Euridice svenuta in braccio e con la metà de’ suoi soldati; l’altra metà rimane a combatter contro di Aminta, al cui soccorso soggiunge Adrasto con i soldati di Aminta; e dopo breve combattimento, fuggon quelli di Dionisio ed Araspe rimane morto nel campo)
inutili sudori, or che perduta
                                      Ove?
                                                   La folta
ombra del bosco a me ne chiude il calle.
Perché l’empio non fugga e seco impune
tu per vario sentier vanne, mio fido,
con la metà de’ miei guerrieri in traccia;
                          Parto veloce.
                                                   O numi!
date lena al mio braccio e il piè reggete.
Ninfa, se tuo non son, se mia non sei,
                                       A’ voti miei.
                                     Ch’è l’idol mio.
Cui la patria e il natal son anche ignoti...
                             Ma gli ostri?
                                                      Ecco il tuo labbro.
Tutto cede al tuo volto, all’amor mio.
              Arrivo opportun.
                                               Vengo per dirti...
tale non è che udir tu il possa.
                                                        Intendo.
a diletto maggiore il cor prepara.
                                                    Silvio, è già tempo
e per far da signor mettiti in posto.
                           Impaziente ascolto.
ch’io padre a te non sono.
                                                E so che a morte
e mi allevasti, onde qual padre io t’amo.
Qual tu sia ben lo so. Io solo posso
dir di che razza sei; e pria che il giorno
                                       Perché il ritardi?
or ti basti saper. Sei gentiluomo;
ma questo è poco ancor, principe sei.
ti dissi ’l ver né sono scherzi i miei.
Di qual padre? In qual reggia? A che...
                                                                       Ti basti;
or hai tu inteso, avvezzati un tantino
a non far all’amor con le capanne;
comincia a innamorarti de’ palazzi.
O fosse vero. Alla mia Celia innante
ad offrirle il diadema il core amante.
Così tradirmi? E violar le sacre
genio del loco e della dea presente
                                     Amor ne incolpa.
                                                                      Iniquo.
                                                 A porti a’ piedi,
come ti diedi ’l cor, lo scettro e il trono.
detesto il donator, rifiuto il dono.
(Né Araspe ancor né il legno amico appare).
Di oltraggio non temer, che solo a forza
rispettoso amator, la tua costanza
                        Ma invano.
                                               E forse avrai
                         Non la sperar giammai.
(Mi spaventa l’indugio; uopo è ch’io stesso
vada e col cenno il nocchier lento affretti).
La cara preda a voi confido; intanto (Alle guardie)
tu da’ fine, o mia bella, all’ira e al pianto.
quasi in gara spietata entro al mio seno
che chiedete da me? L’afflitto core,
come può di altra piaga aver dolore?
pianti, sospiri... Ah, questo è poco! Il sangue,
Io barbara ti ho ucciso; io ti ho rapita
col mio troppo rigor la cara vita.
Tutto ci attende. Andiam, regina. (Si vede di lontano venir per il fiume un palischermo)
                                                               Iniquo,
Penso sottrarmi al tuo furor.
disperato dolor quanto sia forte.
chi potrà torti al mio poter?
                                                    La morte. (Euridice va per lanciarsi nel fiume ma sopraggiunge Aminta e di dietro la ferma)
               Regina.
                                Anche il morir?...
                                                                  Ti arresta.
Gli empi uccidete. (A suoi soldati. Euridice si volge, riconoscendo alla voce Aminta, e tutti danno di mano alla spada)
                                     Avversi dei!
                                                              Che veggio!
                             E voi morrete ancora. (Segue piccola battaglia e fugge Dionisio co’ suoi soldati, incalzato sempre da Adrasto e dal suo seguito)
                            Sì, mia regina, io vivo.
troppo impressa nel cor. Vivo; tu il chiedi
per desio di vendetta; io ti ubbidisco
                                     E veggio ancora...
Sì, tu mi vedi e pur dovea celarsi
volto pena a’ tuoi sguardi, al mio riposo.
Dovea partir; ma il tuo periglio incolpa.
fosse opra mia la tua salvezza. Questo,
di assicurar la tua con la mia vita,
non mi rapì tra tanti mali il fato.
vado a compir la tua sentenza. Addio.
empia non son né sono ingrata... E dove,
sparso Aminta ha quel sangue. Egli lo ha sparso,
Lungi pur da questi occhi, anche pentito,
soddisfatta è la moglie e non la madre.
Poiché han fine i tuoi mali, han pace ancora,
                                            E noi pur anco
siamo teco a goder di tua salvezza.
la libertà, più non vedrò l’ingrato.
                                     Abbi pietà di lui,
                                    Empio marito
lascia di esser più reo quando è pentito.
l’onor mi rende e non mi rende il figlio.
dal tuo figliuolo che ti fu ammazzato,
credi pur ad Elpin, tu sei felice.
Di quale speme il mio dolor lusinghi?
Udrai per via ciò che, saputo innanti,
risparmiati ti avria sospiri e pianti.
                              Tutto è già vinto, omai
ti assicura, o regina. O morti o presi
sono gli audaci. Il loro duce istesso
sente il peso de’ ceppi; e custodito,
dall’ire tue, dalle sue colpe attende.
quest’alma vede. A miglior tempo, Adrasto,
ti serbo la mercé di sì bell’opre.
Che fia di Aminta? Al suo primiero esiglio
Andiamo, Elpin, dove mi chiama il core.
                                   Abbi in me fede.
                                                                    Sappi
che un deluso sperar torna in furore.
Ninfa, l’ora è pur giunta in cui poss’io,
con meno di rossor, dirti ch’io t’amo;
meno audace amator de’ tuoi begli occhi,
non di pingui campagne il basso impero
ma di un regno non vil lo scettro e il trono,
farne alla tua beltà tributo e dono.
rozza e semplice ninfa a’ boschi avvezza.
trarmi da’ boschi ed innalzarmi al soglio,
m’illustra, sì, ma non mi abbaglia. A questo
mal si confanno e le corone e gli ostri.
Celia cara e gentil; di queste selve
ad arricchir del tuo sembiante il mondo,
a far ragion delle mie fiamme a’ cori.
al tuo bene ti mostri? Ancora Adrasto
Più di un core non ho né più di un regno.
per pace tua, per mio riposo, ascolta;
non ti vo’ lusingar; come poss’io,
che pastor ti sprezzai, principe amarti?
Quale amor fora il mio? Credimi, Adrasto,
la tua sorte amerei, non il tuo volto.
d’inutili querele armi ’l tuo sdegno.
                            I voti perdi e i preghi.
Il ben che piace è vero ben dell’alma.
Il ciel ti chiama a tant’altezza.
                                                       Il cielo
vuol ch’io viva qual ninfa.
                                                Amor t’invita.
                                       Ti cangerai.
                      E che?
                                     Di non amarti mai.
Va’ pur. Degno è d’imperi ’l tuo rifiuto.
O costanza! O virtù! Dove risiedi?
contenta di piacer senza ingrandirti.
Assai diede all’amor. Perdona, Aminta;
e tu, sacra amicizia, ancor perdona;
se tardo a te ritorno amor ne incolpa;
dov’è legge di amore, ogni gran colpa.
anch’io salir per innalzarti al trono,
più nel tuo amor che nel mio grado io sono».
vorrei che dal tuo cor tu cancellassi
vergin real, cui del più illustre sangue
bollon le vene. O quante volte, o quante
son del tuo Silvio. Anche a me stessa ignota,
L’amo e l’amo pastor».
                                           Sogni mi narri.
Silvio, l’arcier gentil che mi ferì;
e per me, se hai pietà, digli così...»
(Celia è quella od Elisa? Al primo inganno
è comune a più cori. Io di un affetto,
                                   (A tempo io giunsi).
Nacqui di real ceppo. A questi lidi
destin mi trasse e mi rattenne amore,
Caro Silvio, mio ben, per te mi scordo
                                               (Indegna Elisa!)
né mi ravviso più. Ma non è questo
non poter dir qual t’amo è pena, è morte.
che parlo a te con l’altrui labbra. Udisti
prova di amor più rara? O più ne brami?
Celia, od io non t’intendo o tu non m’ami.
disonor del tuo sesso e del mio sangue,
lo sguardo abbassi e di rossor ti copri.
Questa volta il mentir nome bugiardo,
negarmi ’l grado e simular qual sei
non gioveratti. Io ben t’intendo.
                                                           O dei!
la sorte tua, l’amor paterno, il nostro,
E di tanto trionfa un vil pastore?
per te misero io sono; e son tua colpa
i ceppi ch’or sostengo e che con ira
scuote la man, cui dal lor peso è tolta (Scuote la catena)
quanto tarda in punir tanto più fiera.
Udii! Sognai! Celia, tu taci? In volto
dell’agitato cor spieghi i tumulti.
                                In altro lido il prence
                                              È vero.
E per pena di Silvio ancor l’adori.
(Infelice alma mia, tu sei tradita).
scoprasi tutto il mio destin). Mio caro...
che fu già tuo trionfo e tuo rifiuto.
                                 Più mi acciecan que’ sguardi,
quelle promesse, que’ sospiri ad arte
Credi, il mio amor nulla ti offende.
                                                                 Taci.
Sì, di me sol deggio lagnarmi. In donna
pure fiamme dell’alma, affetti miei.
senz’onde il mare e senz’arene il lido
spettacoli funesti, idee lugubri,
stanza ricerco al mio dolor conforme.
Qui fra inospite balze e fra’ silenzi
romito abitator, quel che mi resta
terminerò piangendo; e quando i lumi
piacerà al mio dolor ch’io chiuda al pianto,
nell’ultimo sospir la tomba mia.
Ove appunto sperai ritrovo Aminta.
nimica al mio riposo, a che mel guidi?
del suo sdegno è pentita e a te pietosa
reca il dolce perdon, tu solo, in preda
fai de’ singhiozzi tuoi gemer le rupi?
A vita sì crudel, s’ella è pur vita,
Abbandona gli orrori e a lei ritorna,
che a braccia aperte entro del sen ti attende.
Non mi accieca il tuo amor. Son io capace
ch’io la ritolsi al rapitor lascivo,
Sparse un sospiro, un sospir solo? Adrasto,
ne’ mali miei consolator compagno.
Te, suo caro regnante, Argo sospira;
suo felice amator, te Celia attende.
                                Ch’io ti abbandoni, Aminta?
tutto il mio ben? Tu mi sei Celia ed Argo;
e nel tuo solo amor tutto possiedo.
crudele amico. Io mi consolo alfine;
avrai poco a soffrir. Momenti ancora
La mia colpa e il mio duol voglion ch’io mora.
che a me chiuse le luci e sparso avrai
di poca polve il busto esangue e l’ossa,
all’irata mia sposa; e fa’ che al mesto,
del mio morir, si plachi; e almen ne senta,
se non duolo, pietà. Di un suo sospiro
quest’alma all’ombre eterne andrà contenta.
                                            Dille ch’io moro
Non morirai, non morirai, mia vita.
Sei tu, bella Euridice? O nume sei
per pietà del mio duol sceso dagli astri?
Pongasi, Aminta, in un eterno obblio
In avvenir meglio sol m’ama; meglio
riconosci ’l mio affetto; e più non rompa
la catena immortal de’ nostri cori.
                              O giusti amori!
Ah, presenza fatal, che mi rammenti? ( Si volge altrove per non mirarlo)
vattene omai. Ciò che t’imposi adempi.
ciò che tu piangi; e questo seno ancora
tel renderà, se tu fedel l’abbracci.
                                            O nodi!
                                                             O lacci!
Tu taci, Adrasto? Il tuo silenzio è gioia?
È stupor? Siam tenuti ambo a te solo
                             Ciò ch’io dovea...
                                                              Regina,
                                 Tutto in disparte intesi.
Il tuo grado e il tuo amor, prence, mi è noto;
                            La vinceranno alfin
la tua sorte, il tuo merto ed Euridice.
Celia, se ti possiedo, io son felice.
                                           Ti seguo, o cara;
perde l’ombra l’orrore e si rischiara.
Ite, amanti felici. Ite, ben degni
Chi sa che, in dì sì lieto, anche a’ miei voti
non arrida Cupido? E Celia alfine
                                       Sacre di Tempe
                                           Amiche dive...
                               Offre Euridice...
                                                               I voti.
già resi a me, son la mia gioia e sono
tutta la mia felicità presente,
l’innocenza di un’alma; a voi pietade
fer le lagrime caste e le querele
di un cor pudico e di un amor fedele.
Felice te, mia cara sposa. All’are
ed a’ facili dei porgi tuoi preghi.
lo temo insin la lor pietade; e temo
Chieder vorrei, dopo la sposa, il figlio;
sol per mia crudeltà, cadde trafitto,
rammenta e non cancella il mio delitto.
Gloria è de’ numi il ritornarci i beni
sovra del nostro il lor poter s’innalza
e dei solo gli rende il poter tutto.
forse sarà della tua fede il frutto.
Eccoci alla regina. Ella ti renda
Sorgi, o Silvio, e favella. (Io ben v’intendo
                                      (Nobil sembianza!)
il più dolce tiranno, a’ piedi tuoi,
Ardo e Celia è il mio foco. Al suo bel volto,
hanno il piacer di offrir corone ed ostri.
Che! Tuo rival di Siracusa il prence?
Or questo è il mio dolor, ch’altri al mio bene
possa offerir ciò ch’io vorrei.
                                                     Ti lagni
dunque di Elpin, perché sì vil nascesti?
Mi lagno sol perché qual nacqui ei tace.
Nascesti vil, s’egli ti è padre.
                                                     Ei padre
mi è sol di amor, non di natura; ed io
per dover, non per sangue a lui son figlio.
                                    E come uscir potea
da sterpe sì villan fior sì gentile?
Vagia fanciullo in cuna e il primo ancora
latte suggea, quando ad Elpino impose
cenno real, né so a qual fine, il darmi
Finse ubbidir; ma sconosciuto in Tempe
seco mi trasse e in qualità di figlio
                                              Più volte
                                  E tu ne avesti ’l cenno?
Cintia ancor non avea, da che era nato.
                                         Or son tre lustri appunto.
(O qual mi serpe ardor per l’ossa!)
                                                                (E freno
                                             Questa, o regina,
è l’alta brama, onde a’ tuoi piè son tratto.
Mel tace Elpin. Sol mi accennò poc’anzi
                                 E non mentii.
                                                             Ma prima
candida rosa, onde al natal segnommi
                                 Più non v’ha dubbio, o caro...
O di questo mio sen viscere...
                                                       O tanto
                            Son io quel padre iniquo
                                          Ed io son quella
che per te tanto pianse, afflitta madre.
lagrime sol di giubilo e di amore,
le sue confonde anche di Silvio il core.
chiedo il perdon del fortunato inganno.
più della tua innocenza, o fido servo.
E il guiderdon avrai dall’amor mio.
Pietoso Elpin, quanto a te deggio anch’io!
il mio piacer nel suo possesso, o numi.
di un facile perdon che quel d’amore;
errò, regina, e gravemente, è vero,
Ma come sua discolpa è il tuo sembiante,
così sua pena è l’infelice evento.
che tu sii sua nimica, egli tuo amante.
destra real nata allo scettro. Il dona
al suo amore, al suo grado, a’ preghi miei.
quella pietà che teco usan gli dei.
(Quanto gentil, tanto infedel tu sei).
tanta pietà, non vo’ cercar; le grazie,
grazie non son, se sono caute e tarde.
la libertà del prence; indi tu stessa
l’alma disponi a compiacermi in cosa
che a me fia di contento, a te di onore.
Troppo ti deggio. È tuo di Celia il core.
sovvenga Adrasto. Ora egli è tempo. Intanto
in te a bearmi io tornerò, mio bene.
Celia, rimanti; ogni altro parta.
                                                          Al cenno
(Ma qui mi fermo inosservato). (Si ferma in disparte)
                                                            Sole
la tua beltà, l’amor di Adrasto. Ah, vedi,
non irritar gli dei col disprezzarle.
Diventa il ben perduto un gran tormento
e la nostra fortuna è un sol momento.
quella sincera libertà concedi
Dirò; sul generoso amor di Adrasto
mi perdo e mi confondo. A lui son grata
il suo gran merto e il mio dover mi è noto.
tutti ha Silvio in balia gli affetti miei.
Non nascesti mia suddita; né posso
stender su te l’autorità del cenno.
Sovra il suo cor mi diè natura impero
e per semplice ninfa arder non lice
ad un figlio di Aminta e di Euridice.
il perduto Alessandro e ad Alessandro
piacer non dee l’amor di Silvio. Ei prenda
e prence obblii ciò che adorò pastore.
non è più Silvio. Egli è dover che ancora
Celia non sia più Celia e a Silvio mora.
Anzi Silvio morrà. Perdona, o madre.
è, regina, per me l’istessa sorte
e in destin sì crudel sol cambio morte.
                                E che, vorrai, tu erede
del macedone impero e tu di regi
nobil germoglio, in basso amor di ninfa
cieco avvilir de’ tuoi natali il pregio?
N’arde anche Adrasto, il prence d’Argo; e pure
lodi e proteggi l’ardor suo; ma quando
l’esser figlio di re deggia involarmi,
addio fasti, addio reggia. È sogno ed ombra
per me l’ostro superbo e il manto adorno.
Prence non son, Silvio e pastor ritorno.
Silvio felice, o generoso amante!
più sia rival del suo monarca al figlio.
Volea di Celia oggi innalzar la sorte;
nell’amor tuo più di grandezza, io lieto
l’onor ten cedo; e testimon maggiore
questo rifiuto mio sia del mio core.
                       Nobil alma!
                                               Ecco il germano.
(Siete vicini ad esser lieti appieno,
Regina, errai ma per amarti. In poche
voci racchiusi il fallo e la discolpa.
non te ne chiedo umil perdon. Ne cada
vile di spoglie e più di cor, colei
è l’origine sol de falli miei.
              No, non è Celia; essa è l’indegna
mia rapita germana; è quella Elisa,
per cui ramingo errai provincie e mari.
In braccio a un Silvio, a un vil pastor di Tempe
pensa ella trar, ninfa lasciva, i giorni,
noi scordando, sé stessa, il padre e il regno.
Ma pensa invan. Ti giungerà il mio sdegno.
non mai congiunse in un sol giorno il fato.
anche Silvio è mio figlio. Il ciel, che a noi
or li rende pietoso, unisce il nodo.
Alti decreti, io vi consento e lodo.
poter bearti anche nel figlio.
                                                     O fede
per cui l’amore all’amicizia or cede!
punì gli audaci rapitori. Anch’io
nell’onde irate era a perir vicina;
corse opportuno e al mio destin mi tolse.
Già meditava la Sicilia e il padre;
veduto Silvio, allor mi elessi in Tempe
e vissi amando in povertà beata.
Ma più meco or godrai, sposa adorata.
                                  O strani eventi!

Notice: Undefined index: metrica in /home/apostolo/domains/apostolozeno.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8

Notice: Trying to access array offset on value of type null in /home/apostolo/domains/apostolozeno.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8