Metrica: interrogazione
636 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Firenze, Vangelisti, 1704 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
nell’aperte sue piaghe il suo delitto.
son degne del tuo nome e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto.
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo. (Ad Alessandro)
                                                              O amico.
ma non senza rossor, non senza pena.
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
segui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che ’l suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
Nol soffrirò. Sento che m’empie un cuore
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor; ma sappi intanto
che un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti allor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi accanto.
dell’amor mio, costei sen viene e seco
rinfaccerà dell’amor mio le fiamme,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e straniera beltà più non mi piace.
                               Osserverò s’è dessa.
                                                  In quale oggetto
                             (Finger mi giovi).
                                                                (O numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto e quando?
(Ah, quasi dissi il fier destin d’amarti).
                         Di segretario in grado
                                (O come è scaltro!)
                                                                     Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
Giorno (ah giorno fatal) che in voi s’accese
allor che le giurasti eterno amore
io sol fui testimon del suo dolore.
ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon delle sue pene,
                                        Non mi sovviene.
                                                  A chi favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
estinguer nel mio sangue il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor? Gismondo,
tu pur non mi ravvisi o te n’infingi?
ben ti ravviso e t’ho pietade ancora.
Mi ha tradito il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
questi temendo il suo rival germano
nascose il foco e col mio labro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi esentò dalla reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose, minacciò; compiacqui
al suo furor; tolsi congedo e tacqui.
stringavi sposi un maritale amplesso.
non avrà il fatto; al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Nell’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco t’abbraccio.
                                                           Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a trovar pace a te, mia vita, appresso.
(Io fui del mio morir fabro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così penoso e che t’affligge?
                            Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer di una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi d’Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace;
nell’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di por mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è all’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
                                        Lo sa ’l tuo core.
mentita fede, lusinghieri accenti,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Senti.
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovean miglior mercede.
sarai dell’amor mio, sarai del regno.
dell’aver vinto è tuo retaggio; vinse
coll’armi tue, col tuo gran nome Ernando.
tu reggesti la mano, ei strinse il brando.
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiagge, il fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Vincislao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni, è mia gran sorte.
o sposa al trono o vendicata a morte.
                               Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la viddi o pur ne intesi.
                                                          O dei!
mentitor me dicesti; ove t’aggrada
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon dell’armi io non recuso.
                                           T’aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
vorrebbe e pur non sa crederti il cuore.
parto non siano un dì le tue ruine,
retaggio del fallir son le sciagure
e dei superbi è sempre infausto il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume;
che, se cangio l’altar, non cangio nume.
Non molto andrà che d’Erenice in seno
strinsi, affrettai, cor ebbi a farlo e ’l lodo.
il mio cor nel tuo seno, io vel lasciai,
perché quel d’Alessandro in lui trovai.
ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice; altro sospiro.
Ancor ten prego. Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor t’adora.
a favor d’Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
T’amai dal primo istante in cui ti vidi;
tel dissi nell’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor d’Ernando.
Dove è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spinge e mi trasporta?
deggio, più che al suo labro, al suo gran core;
fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
senza desio, senza speranza t’amo...
ma col cor d’Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio t’adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa, io solo
se ’l nieghi alle mie voci, al tuo sembiante.
Vanne. Ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea nell’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovinezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella il pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor non mai si terge e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
                               In traccia appunto, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Nella ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene, a me germana e d’Erenice
la fida amica, il tutto intesi.
                                                    Ah troppo,
È tempo sì di vendicarmi. Iniqua,
parto col mio furor, tu taci il tutto.
Io mi credea che d’Erenice al nodo
quello di Casimiro e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco;
più feroce ei divien, non meno amante.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette io fei cader, se a voi
gl’innocenti miei preghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’arme.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura.
qual ti debba chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Dimmi, di’, Casimiro. Ignoto il volto
Amor non promettesti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
                                     Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti?
la fede vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io, perfido, all’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?) (In atto di partire, Lucinda lo trattiene)
No no, da questo luogo ad armi asciutte
                          (Corre all’occaso il sole
e in braccio ad Erenice Ernando è atteso).
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
Tolgasi quest’inciampo all’amor mio.
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vil, ma generoso e forte
nelle perdite mie restami il core.
non godrai lungamente, o traditore.
le lituane spade empier di stragi
senz’onor, senza fede e senza regno.
mi tacci, o re; la mia ragione, il giusto
parlan su questo labro e se tu nieghi
farò le mie vendette; ho avvezza anch’io
la fronte alle corone, il piede al trono,
so punir, so regnar, Lucinda io sono.
Lucinda? (Scendendo dal trono)
                     Eh padre, un mentitore è desso.
Mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
che doni alle menzogne, il braccio mio
tali le dichiarò. Regina, addio.
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
                                            A te poc’anzi,
sire, parlò Lucinda, augusta erede
e del suo grado esser gli accenti indegni.
Or taccia il regio labro e parli solo,
per implorar giustizia o almen pietade
di Lucinda infelice, il pianto, il duolo.
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
nell’amor nostro e rasserena il ciglio;
sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men dalla tua virtù, giusto regnante,
né disperiam, teneri affetti; l’alma
di letargo a coprir, se non d’oblio.
Gismondo, ov’è il mio figlio?
                                                      Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
(Temo anch’io l’ire di un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor; qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
qual acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma; e in che v’offesi, o dei? (Casimiro entra con stile insanguinato)
                                           Padre... (O stelle!)
                                 (Ah, che dirò?)
                                                               Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo).
Nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi, ah, di quel sangue.
                                                                   Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue,
                                                  E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
                                                     A’ tuoi cenni.
                         Ernando vive? Ernando amico.
(Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi?
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor della tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire,
così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua, lagrime chiedo e sangue;
ti vo’ giudice e padre. Ah, rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
                                              A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
piacque ’l pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
a me recar consorte il primo amplesso
egli dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, sulle mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Aimè... Perdona
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal della vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza,
giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente.
il silenzio del labro e più di tutto
della strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
                                                  (O destra, o ferro).
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar ch’hai nelle vene.
di te, di me; ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fusse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto;
io stesso mi condanno, io stesso aborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
(Qual raggio a noi volgesti, astri feroci?)
                              Sire, i tuoi cenni attendo.
                                    Esequirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando, un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re ben può salvare un figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno,
il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
Morirà Casimiro. (Lucinda sopraggiunge)
                                   (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
coll’amor mio dalle tue leggi esento;
tal lo dichiaro e come re né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
rispetta il grado e il tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
tal lo condanno. Il grado, a cui l’inalzi,
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Vincislao vive e tu perdesti il padre.
muore il tuo sposo e ’l tuo dolor pur vive.
Questa, o regnante, questa è la tua fede?
o due volte ingannata alma infelice.
or mi sovvien, ch’ella s’adempia è giusto.
Ma la giustizia offesa? E la mia fede?
                                                O dei, che pensa!
                             Spenta è per me pietade?
Regina, il pianto affrena, alla promessa
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio e fa’ che sciolto
sia là condotto ove la gioia ha in uso
                                                   Ah sire,
che nunzia io sia del lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni onde a te s’apra
                                  Eh non temer, regina.
Sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel fregio. Il cor ti manca
di Casimiro. Io vel porrò. Lo attendi
il tuo pallido orror sarà più grato.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
qui d’intorno t’aggiri, ombra insepolta,
tu ricevi i miei voti e tu gli ascolta.
Ernando a te consacra, alma diletta,
e sarà gloria mia la tua vendetta.
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a ragionar d’amore.
né la tua fé né l’amistà d’Ernando
non può irritarti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte
                            E s’egli è tal, l’accetto.
                                               Tale il prometto.
                              Andiamo. Io più d’un seno
                                               Andiamo.
fia ch’Erenice all’amor tuo dà fede.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah sì, per me cadde il fratel. Ma cadde
Volea morto il rival; n’ha colpa amore.
sei mia gran colpa. O d’Erenice, o troppe
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché v’amai; sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel m’adora.
Lucinda a me? Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia della mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labro tuo morte non è ma vita.
                            (Caro dolor). Custodi,
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo; del primo
e la vendetta mia fia l’abbracciarti.
Prenci, non più dimore, il re vi attende.
                                                  Già scordo
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon; temer non dei.
                            Andiamo; o gioia!
                                                               O sorte!
Né sciolga un sì bel laccio altri che morte.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede, impegno
ne serve all’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
                                          Strane vicende,
vi figura il pensiero e non v’intende.
                                   E qui t’attende il padre.
son padre ancora. Allor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuorché un tal dono. Abbilo a grado, il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
                                                    Eh, lascia
pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor l’impone
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede. (Le dà un anello)
                           Mio ben.
                                              Mio dolce amore.
                                                 Due volte
all’amor tuo si è sodisfatto?
                                                   Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai;
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi,
se mi sei più crudel, meno m’offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
la vita che ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far, che dir poss’io? Veggio i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango; o sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
ecciterò ne’ popoli lo sdegno,
ch’esser può mio delitto e tuo periglio;
il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
serbi il nome di figlio a chi t’uccide,
nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante;
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua, vanne, l’incontra, all’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta;
dal ferro uccisa o dal dolor. Tu piangi?
Tu impallidisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
che ti chiedo in morendo. Addio, mia sposa,
                                    Tu parti?
                                                        Addio.
la pietà di quel pianto; andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui il pianto? All’armi, all’armi,
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
nella reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e d’abbracciarlo
fuori de’ ceppi... Ah dove son? Che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai; né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno, dove
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, m’agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio alla vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
alla patria, al monarca, alla tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati d’amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Vincislao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Nelle tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire;
se discolpe cercassi, io sarei ingiusto;
sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signor?
                                                            A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori
e insegnami costanza allor che mori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te della vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, colla tua pietade io non m’assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
tu giungi, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei,
in ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia delle leggi io non ti deggio.
Principe, al tuo destin scampo non veggio.
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
d’acciar la destra e di costanza il core.
                                      O dei!
                                                    Che avvenne?
                                                                                Il prence...
                                           Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
ognun grida, ognun freme; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
sodisfarò, sodisfarò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
non per viltà ma perdonai per gloria.
Duci, soldati, popoli, Lucinda, (Con spada alla mano)
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
rendetemi i miei ceppi o questo ferro
trafiggerammi. E tu datti alfin pace,
mio solo amor, mio sol dolor, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse;
di me disponi. In me le leggi adempi,
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio ribel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque (Va sul trono)
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro delle leggi e non sovrano;
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre non re mi troverà natura.
Qual re avesti, o Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Vincislao si cava la corona e la vuol porre al figlio)
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei.
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai colla tua mano. (Corona il figlio)
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
Ti abbraccio, amico; e tu, Erenice, in lui
                                                   O sorte!
ancor ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che ’l vivo abbracci.
nell’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubbilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, siano tue glorie.
Oggi per te rinasco, oggi più degno
principio e nuova vita e nuovo regno.

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