Metrica: interrogazione
819 endecasillabi (recitativo) in Enone Venezia, Pasquali, 1744 
non erano per Egle. Egli è altrui sposo.
                             Della vezzosa Enone.
Di lui che irriga i nostri campi e specchio
fa di sue limpid’acque al patrio monte.
più che agnella e colomba i denti e l’ugne
serto gentile a quella soglia appeso?
                             Or va’; da’ fede a ninfa
che affetti di parer schifa e selvaggia.
fugge amori, odia amanti; e poi...
                                                              Di scusa
pendea sul capo a Niso, il suo germano,
omicida di Alceo. Paride, a cui
diede senno e valor su noi l’impero,
sospese e rivocò - che non ottiene
beltà che s’ami e preghi? - il mortal colpo.
Ma le nozze di Enon fur di cotesta
sua pietà la mercé. Senza un tal patto,
e l’imeneo necessità divenne.
Non glielo invidio. Se nol fece amore,
non è un gran ben. Lo seguiran da presso
i rancori, i dispetti e le sciagure.
Ho pietà di quel duol che a te sul volto
non ben da tua virtù premuto e chiuso.
che il perder un infido abbia a dolermi?
L’ampie tue messi e il mio sembiante ad altri
Paride sia di Enon; ma sì gran torto
la figlia di Agelao, di te che a morte
lo togliesti bambino e che qual padre...
Fuori che a te, né a lui né ad altri è noto
ch’ira non ti trasporti anche a tradirmi.
Non temerne. Tranquilla, indifferente
mirerò l’offensor; né di un acerbo
duol, che lo sgridi, il farò andar superbo.
dovrò tacer? Pur vidi a’ miei sospiri
Paride impietosirsi. Enon giurarmi
che mai non l’amerebbe e che da forza
d’invincibil destin n’era costretta.
di lor proteste e del destino e d’Egle;
e il non ultimo io son de’ lor diletti.
Misera! E tacerò? Meriterei
con sì vile indolenza i torti miei.
                                   Egle sì mesta?
Cleone, Eurialo, ah! se mi amaste!
                                                                A tutta
prova metti il mio amor.
                                               Vincerà tutti
e perigli e rimorsi un tuo comando.
Piacemi. Ciecamente amor ragiona
col voler di chi s’ama e più non chiede.
Che far deve il mio amor?
                                                 Che la mia fede?
                         Di chi?
                                         Di un empio amante,
di Paride e di Enon. Né li punisca
laccio, ferro o velen. Non è il mio sdegno
d’indole sì crudel. Dispetto, affanno,
pentimento, furor spargano il loro
imeneo di amarezze. Egle oltraggiata
il trastullo non sia de’ lor riposi.
Libero è già il mio cor. Quale augellino,
cui due lacci sien tesi, ov’ei sen cada,
or questo guarda, or quello, alfin là dove
fa a lui fischio gentil più dolce invito,
abbassa il volo e libertà vi perde.
poi non varrà, se un altro volo io tento.
Cleon, senza rival goda il tuo amore;
non vo’ per esser lieto esser malvagio.
Se cosa rea mi fosse imposta, il prezzo
torcer non mi faria dal calle onesto.
Non ti par cosa rea di un casto letto
con insidia e livor turbar la pace?
Eh! V’entrerà a scomporlo Astrea sdegnata.
Che? Di Niso l’error tale a te sembra
E quando mai non si punì di morte
chi altrui la diè? Di Alceo la grida il sangue.
E stan per Niso l’alta stirpe e gli anni
teneri ancora e il repentino incontro
e il provocato giovanile ardore.
Piange, promette Enone; e il reo si salva.
Ecco l’util che vien dal porre in mano
a gioventù i governi e i magistrati.
A lei per giudicar manca quel lume
che dona esperienza; e s’anco n’abbia,
sregolato disio tosto l’estingue,
talché giustizia ne rimane al buio
e le leggi e il dover vanno in obblio.
Io l’onesta pietà deggio all’amico.
Ed io l’opra fedel deggio all’amante.
Segua ognun suo dover. Vedrem se il cielo
più assista ad amicizia o più ad amore.
Egle allor fia mio acquisto e tuo dolore.
Qual più ingiusto timor fu mai del mio?
Tolto fra poco il mio germano a morte,
l’abbraccerò... Ma non ancor l’abbraccio.
fu in affanno il disio, pure è mio sposo...
Ma le pronube tede all’ara sacra
non anco sfavillar. Quanto in mia pena
importuno timor. Vedrò l’aprile
pria venir meno i fiori, al sole i rai
che a Paride la fé mancar giammai.
Che un governo sia cura e noia e peso,
che lontano da te mi tiene, o cara.
Il frigio messagger, che a me poc’anzi
sì sollecito corse, avviso reca
che in Ida oggi verrà Priamo il re nostro.
A placar l’ombra, con funerea pompa,
del suo Alessandro, miserabil figlio.
Quel cui già quattro lustri espor bambino
ei fe’ nel vicin bosco appiè del monte?
Appunto per timor di vani auguri,
quasi piaccia agli dii che al mal si cerchi
con una scelleraggine il riparo
o cangiar possa i fati un atto iniquo.
Oimè! Ch’ei turberà le nostre nozze.
ne illustrerà col suo reale aspetto.
O forse al mio fratello...
                                            Oh! Quanto sei
timida e diffidente! Al sen fra poco
che di Eurialo si cerchi, alla cui fede
sta de’ rei la custodia. Ei ne avrà il cenno.
Al tuo dolce parlar, qual nebbia al sole,
e temenza e dolor da me sen fugge.
Ben n’hai ragion, sposa diletta, ogni ombra
da te scacciando che mia fede oltraggi.
Certa così la tua mi fosse. O mostri
quanto chiede dover, non quanto amore.
Ah! Se vedessi il cor, dove tu regni.
Non dicevi così, pria che di Niso
la pietà ti obbligasse ad esser mia.
Di Niso la pietà femmi tua sposa
ma non tua amante. Delle mie pupille
e prima e sempre fosti idolo e lume.
Strane prove d’amor mi davi allora,
gli sdegni esercitando e le ripulse.
Io soffria più di te, facendo forza
se al divieto mancai, taccia l’arcano.
Se puoi tacer, puoi non amarmi ancora.
(Perdona, o genitor. Mi sforza un nume
sai che mi è padre e ch’ei ne’ giri ascosi
dell’avvenir penetra. Egli: «Per quanto
ami il tuo ben» diceami «e ’l tuo riposo,
fuggi Paride, o figlia. A lui consorte
non trarrai che in miseria infausti giorni.
Sta ne’ fati così». Ma quanto, ahi! quanto
è difficil fuggir destino e amore!
Tutto in favor si unì della tua stella;
anzi stella fatal fu il tuo bel volto
che vinse in me ragion, voler, virtude.
i mali, che verranno, un sì gran bene.
Siami Pari fedele e sfido i fati.
Fedel ti fui, sprezzato amante; ed ora,
sposo felice, ti sarei spergiuro?
mio sol voto sarà piacerti, amarti.
Soavi accenti, esce a incontrarvi l’alma
e in me rientra e di piacer m’inonda.
                                Tu parti?
                                                    Il vuol dovere;
                                            Dover crudele;
deh, sia ancor tuo dover l’esser fedele.
Pallide cure, egri sospetti, addio.
Nulla omai può accader, per cui la fede
Cantate il gaudio mio, compagne amiche,
e ne suonin le selve e gli antri e i colli
e l’erme valli e le campagne apriche. (In questo mentre vedesi aprire l’uscio della grotta e alzarsi pian piano fuor del suo letto il fiume Cibrene, assiso nella sua reggia e dalle deità sue compagne corteggiato. Precede una sinfonia)
ma più misera ancor. Di un nume e padre
ti abbandonasti al tuo fatale amore.
e quest’alghe grondar! Vedrai tradito
Senza fratello? E senza sposo? Ah! Padre,
qual minaccia! Qual perdita! Qual morte
per la misera Enon! Che far potea?
Pietà, destin, necessitade, amore
han combattuto e vinto il debil core.
Perdona... O dei! Dove mi volgo? Irato
mi preme inevitabile. Il fratello
mi si offre esangue. E Pari?... Ah! Mi tradisce.
giuramenti tradirmi? E il credo? E ’l temo?
No no, di sua virtù, di sua costanza
troppe prove mi diè l’alma gentile;
e l’amor suo, della sua fede armato,
è più forte per me che il padre e ’l fato.
m’hai gittato, o Cleon! Deh, tu che padre
mi fosti per amor, se non per sangue,
                                      Consiglio allora
util darti io potea, quando un reo prezzo
non era ancor la sfortunata Enone.
Disperato è così dunque il mio male
che mi tragga a perir dovunque il fugga?
La via migliore io ti additai. Dall’ira
del re salva il tuo capo e il giusto adempi.
Ch’io la misera, oimè! così tradisca?
Altro far puoi per non tradir te stesso?
I gemiti di lei temo e le strida.
Priamo irato più temi e il tuo periglio.
E non parla il tuo amor? Crudel silenzio!
Vorrei; ma che poss’io? Se Niso assolvi,
ti rendi ingiusto, e se il condanni, iniquo.
dall’onde assorto o tra li scogli infranto,
in suo scampo non ha che voce o pianto.
Ancor sì irresoluto? Eh, miglior uso
fa’ di un utile indugio. Il re non trovi
te reo nell’altrui vita. Allor del pari
in Niso e in te cadria ’l suo sdegno, in Niso
che altrui diè morte, in te che nol punisti.
                      Si darà pace. In poche strida
scuserà il fallo tuo col tuo periglio,
che alfin per un marito uso è di ognuna
porre in obblio padri, fratelli e tutto.
Un saggio amico e che non può?...
                                                               Al tuo cenno
son corso e Niso anche affrettommi. O quanto
                                (Misero!) A lui
e a te venga a baciar, tolto alla scure,
la man liberatrice. Impero mai
pur deggio? (O ria necessitade!)  A Niso
fa’ che in brev’ora sia reciso il capo
e la data sentenza in lui si adempia.
                                      Pianga e si accheti.
Tuo è l’ubbidire e mio è ’l comando in Ida.
Barbara legge! Sfortunato amico! (Si parte)
Ma funesta e crudel. Diletta sposa,
tu ’l vedi. Io son costretto; e in te, se m’ami,
gli ancor recenti coniugali affetti
di vincer l’ira e di asciugare il pianto.
Cleon, da te partir Paride io vidi
                                         Egle è ubbidita.
                             Di Paride i contenti
turba lutto e rancor; le maritali
le tede agita l’ira; i giuramenti
occupa la perfidia; e di fraterno
                                  Sì, quel di Niso, in onta
già corre al piè della tradita Enone.
E che? Di condannar l’opra t’infingi,
inganni, gelosie, frodi e cent’arti
i letti nuzziali e vi fan nido,
                                       Io la via scelsi
che prima mi si offerse in tua vendetta.
Posi a questa il confine. Al mio non fiero
fa rimorso e fa orror. L’ombra di Niso
verrà a romper miei sonni.
                                                   Eh! Scorgi Enone
che da lungi a noi vien, sospinta forse
sugli occhi tuoi de’ suoi mal lieti amori.
Per anco ignora ella i suoi mali?
                                                           Il credo,
al gaudio, al brio che le scintilla in volto.
Lasciami seco. A te dovrò il gran bene
anzi che invidia, in me pietà risvegli.
Or tra Eurialo e Cleon discerner puoi...
Egle ingiusta non è. So che dir vuoi.
Venga pur la rival. Lieta mi ostenti
i trofei del suo amor, quei del mio danno.
a lei faccia il mio torto o a me il suo inganno.
Ida tutto festeggia. Egle è la sola
stassi e mi fugge. Io la credea più amica.
d’Egle non v’è. Darai fra poco, Enone,
quella, che neghi a me, fede a te stessa.
Un perfido amator non è un gran bene.
A te perfido il fingi. Io il so costante.
Guai, se tale per noi fosse ogni amante.
Mal gli oggetti distingue occhio che è fosco.
Ne giudica assai peggio alma ingannata.
Quell’inganno, in cui sono, a te fa senso.
Senso d’invidia, no, ma di pietade.
Oh! Sempre io possa esser così compianta.
Misera! Il tuo piacer sparì con l’ombre.
Questo anzi è giorno di mia gioia e pace.
Non siam anco al meriggio. Il nembo è presso.
Rido de’ tuoi presagi. Oggi nel tempio,
di Pari mi vedrai strigner la destra.
Ma di sangue fraterno aspersa e tinta.
Enon, purtroppo Egle è verace. Eh! Corri.
Così tu a riparar giunga il reo colpo,
per cui non so se a te dovrà, meschina,
lagrime trar dal ciglio tenebroso
il fratel morto o il perfido tuo sposo.
Semplice! Si credea strapparmi almeno
per farsene un trofeo! Quasi l’ottenne,
ch’anco una falsa idea d’aspra sciagura
il diletto e la calma... Ah! Se mai vero
ciò che non crede il cor. Pur mi sto in pena
son d’abbracciarlo. Anche ogni breve indugio
è a chi molto disia lungo dolore.
Ma Paride è fedel. Chetati, o core.
Tu il primo adempi lagrimoso ufficio, (In lontano ad Eurialo)
ch’io non ho cor. (Si ritira per non esser veduto)
                                 Com’io pur farlo? (Da sé avanzandosi)
                                                                   Eurialo,
qui senza Niso? Ove il lasciasti? A’ piedi
tienlo or dover... Tu non rispondi e volgi,
qual fa nuncio funesto, altrove i lumi.
                                    Informe tronco ei giace.
                                          Perduto abbiamo
tu il germano, io l’amico.
                                               (Ed io me stesso).
                                      Assai meno
reo che infelice. Un timor giusto il prese
del re vicino e lo costrinse a un atto
Niso ancora per me. Questi gli estremi
che tu non voglia aggiugner danno a danno
e con ira, funesta al tuo riposo,
perder dopo il fratello anche lo sposo.
Del mio destin l’inevitabil forza
Ceder conviene.  Al tuo signore e mio
riedi; e quantunque acerbo amaro lutto
mi prema, gli dirai che da quel punto,
in cui l’elessi mio consorte e donno,
del suo solo voler legge a me feci,
che di quanto a lui piace io sia contenta.
Or sì ben mostri, o saggia donna e forte,
di qual senno e fermezza...
                                                  O generosa,
le labbra ree della fatal sentenza.
Paride, il tuo dover, la tua tristezza
benché sposo crudel. Ne avrai dal mondo
applausi e dal tuo re. Biasmo e periglio
la pietade e l’amor. Niso mi han tolto
le leggi e il suo destino; e s’io ne piango,
son le lagrime mie sfogo del senso,
Il tempo e la ragion faran ch’io vinca
questi deboli affetti; e in ripensando
che la tua vita assicurasti a costo
delle perdite mie, con men di affanno
ancor dirò ben compensato il danno.
Di cotanta bontà dammi al tuo piede...
No, al mio signore atto sì umil sconviene.
                                 Quel che per te mi accende
                                               E finch’io viva,
sarà studio e pensier dell’amor mio.
Paride, il credo; e tanto spero anch’io.
si obblia, si cangia Enone? O Enon s’infinge?
Non so che creder deggia. A lei sì a core
e scusa il fratricida? In mobil sesso
tanto ancor fa accortezza. È facil cosa,
a saggia donna da più affetti oppressa,
tanto il mutar, quanto il celar sé stessa.
voci festose, o fortunate genti,
non anche infetto da civil contagio
in queste pastorali erme contrade.
Piaccia agli dii ch’io ritrovar qui possa
di cui non so se assicurar mi debba
per me e sì oscuro è il favellar del cielo.
Voi fate intanto che al gran Giove ideo
si apprestino sul colle. Indi del figlio
zelo non men dover che gloria sia
                                        Sei tu che hai queste
m’han gli altrui voti il non ambito incarco.
rettissimi giudici alta ragione.
(Egle nol dice e nol direbbe Enone).
favorevol presagio, allor che in volto
gli fissai ’l primo sguardo. Il ben impreso
sentier, Paride, segui; e del sovrano
nostro amor ti assicura ad ogni evento.
                   Ite, o fidi, ad eseguir miei cenni.
                                      (Che sarà mai?)
(Buon per me, che di Enon l’ire placai).
S’io di tua fede dubitar potessi,
                                  E che la turba?
è di vani fantasmi, or vien dal cielo.
Se a lui creder degg’io, tu m’ingannasti.
Fievol cagion per dubitarne.
                                                     Esposto
certo da te fu il mio Alessandro...
                                                             A fiere
selvagge; e colà vedi il monte e il bosco.
Pasto il misero fu d’orsa feroce.
Ah! Dopo il quinto sole, in cui rividi
il fatal loco, qual sperarne avanzo
                                          E pur la corsa
Facilmente il disio forma e dipinge
l’immagin delle cose a noi più care.
Ma in loco d’abbracciarlo, alzo e in lui vibro
un suo grido mi desta e d’orror tutto
mi sento e di sudor gelido e molle.
scotesi e ti rinfaccia il figlio ucciso.
fui per esser buon re. Fiamma e ruina
i sogni e i vaticini. Io n’era in pena;
e da crudel pietà preso consiglio,
del regno alla salvezza uccisi il figlio.
alla più desolata afflitta donna
che in terra sia, tratta a sì acerbo e duro
da chi iniquo tra noi sostien tue veci.
Di lui che tal m’ha fatto ingiuria e torto
da moverne a pietà le fiere e i sassi.
Levati; e i torti tuoi spiega; ma avverti
che tu non sia qual chi, in soffrir la pena
non è, o signor, che d’aver dato ad uomo,
che fé non ebbe mai, troppo di fede.
Dirò. Sentenza ei pronunziò di morte
in Niso, il fratel mio, che in repentina
rissa avea tolto altro pastor di vita.
neglette avesse, io ne l’avrei punito.
Io da fraterno amor vinta, a gittarmi
corsi a’ piedi del perfido e per Niso
                  Ma invano. E questo è il grave torto,
non perfido, o signor, se la ripulsa
                                    Co’ più solenni
egli dato mi avria libero e salvo
il mio caro germano al novo giorno
e meco celebrate avria le nozze
nel tempio. Ecco il mio fallo. A sue lusinghe
credula m’abbandono... Ed in quel punto
di esiger la mercé di mia pietade,
in quel punto... Oimè! Misera! Egli fece
al mio dolce fratel troncar per mano
                                     E il vero ascolto?
Purtroppo; e scenda in me, se il ver non dico,
che merita colui che, sotto il manto
e di non anco celebrate nozze,
m’ha insieme col mio onor morto il fratello,
che sopravviver al mio mal non posso
Deh! Se in alma di re giustizia ha loco,
di me, misera donna; e sia quell’empio,
qual di perfidia, di giustizia esempio.
sei per la eccelsa stirpe, onde discendi,
certa sii che di Paride sul capo
cadrà la pena a tanto error dovuta.
o da vile pietà, manco al dovere,
e tutti i regni miei strugga quel foco
saria stato fatale a Priamo e a Troia.
E s’io dal pianto o dall’amor mi lascio
sedur di quel perverso, in mio martoro
ei tradimenti a tradimenti aggiunga
Ma di vita egli è indegno e di perdono.
iniquità, cui non s’udì l’uguale,
Mancò, ingannando la gentil donzella,
se inosservata, lo rendea spergiuro.
Con l’imeneo le si compensi il danno.
La salvezza di Niso essere il prezzo
Quello se le defrauda. Il suo possesso
fatto è ingiuria e rapina. Enon delusa
Mal si puote sfuggir forza di fato.
Dunque Enon vuol mia morte? E chiudea l’ire?
                                       Paride, è vero
che per sentenza tua Niso sia morto?
Alla legge ubbidii che il condannava,
Hai soddisfatto al tuo dover. Ma acceso
d’un malvagio disio, dimmi, in qual legge
trovi che giusto sia tradir donzella,
sotto titol di sposo e con promessa
di renderle il fratel libero e salvo,
e poi nulla adempir de’ patti iniqui,
doppiamente ingannata? Di’. Rispondi.
Perché taci? A che tremi? Ov’è quel franco
parlar che han gl’innocenti? Ardisci omai.
Giudice io ti fo cor. Tu reo non l’hai.
Re, de’ due gravi eccessi, onde al tuo trono
accusato son io, basta che un solo
Ma se l’opre giustifica un fin retto,
men colpevole sono. Amai gran tempo
ne riportai. Piegò quel cor ritroso
la sventura di Niso. Ella in suo scampo
pianse, pregò. Dall’amor mio l’ottiene,
purché sposa mi sia. Vi assente; e ’l nodo
celebrato già fora in faccia ai numi;
ma si sperò che il tuo vicino arrivo
ne accresceria la pompa. Un breve indugio
non fa oltraggio alla fede. Io gliela serbo.
Sua è la mano, suo il cor. Vadasi al tempio.
                                      Duolsi di Niso,
forza d’amor nella promessa iniqua.
                                     Ma quando abuso
lice al giudice ancor far del suo grado,
                                         Amor...
                                                         Già intesi.
O a ben regger sé stessa, e meno gli altri,
o sempre inetta gioventù! Di Enone
disponti agli sponsali; e soddisfatto
                              Tanto anch’io bramo, o sire.
(Così fine i perigli abbiano e l’ire).
in sì avverso destin? Chi in mio soccorso
sarà? Pietoso re? Ma giusto e irato.
Femmina amante? Ma tradita e offesa.
Qual primo placherò? Tu, bella dea
che in ricever da me nel gran litigio
tanti mi promettesti almi diletti,
vien tu in mia aita; e non soffrir che chiuda
i teneri anni miei morte angosciosa
in odio al mio regnante e alla mia sposa.
                      Tu quel di Enon.
                                                       Suo impero
è che tu vada al tempio e che di sposa
porga e riceva la scambievol fede.
si accoppierà che con quell’empio Enone.
Eccelso re, questa non è la pena
sì atrocemente. Ah! Non voler che a lato
per cui vita mi fia peggior che morte.
Esser anzi vorrei pasto alle belve
che giunta al peggior mostro della terra.
L’imeneo, che ricusi, è il sol compenso
pura sanno quest’alma e che mia colpa
                              All’odio mio, che è giusto,
strugge quel di nimica. A me dell’onta
la ragione dell’odio ancor rimanga.
Eh! Datti pace omai. Lascia che adempia
Sii moglie; e cura mia sia il vendicarti.
Ella sen va dolente a’ suoi sponsali,
Chi la costringe all’abborrito nodo
riporralla ben tosto in libertate
Dopo le nozze ancor legge sì atroce?
Cleon, non lo farei, se il solo oltraggio
di Enon fosse il suo onor. Ma v’è la testa
Sposa del fratricida, ella trarrebbe
Non vi è stato peggior di quel di moglie
in talamo odioso. Io non ho lei
ma Paride a punir. Vo’ che sia questo
ma quand’anco egli fosse un de’ miei figli,
altri non prenderei voti e consigli.
Eccola. Eurialo è seco e par che ’l miri
disdegnosa. Chi sa? Sono in amore
farne, sarien più brevi i lor martiri.
                                          Ora nel tempio
degl’inni nuzziali il canto eccheggia.
Tornan dunque a goder gli sposi amanti?
Si rinnovano i miei? Sì poco a core
ti fur d’Egle i comandi? E tu mi amasti?
Bella ma ingiusta ninfa, è ver, non seppi
farti acquisto e mercé d’atti malvagi.
e più innocente amor. Se nol gradisci,
Sì, bell’idolo mio, tutte usai l’arti
del tuo sdegno in favor per meritarti.
Vani sforzi, o Cleon. Già sai le nozze...
Nozze infauste, infelici, atre, lugubri.
fia lo stame vital sotto la scure.
                                               Opra felice
de’ miei consigli, a ben servirti intesi.
quando a Niso diè morte. Or del suo inganno
ne paga il fio. Tu vendicata il frutto
tutta l’atrocità d’un fier rimorso.
Chi t’impose, o crudel, che d’Egle un voto
fosse il sangue di lui? Lo amava e allora
tel dicean l’ire mie. L’amo e più forte
male il cenno intendesti; e tu dovevi
più a mirarmi non sii, non che ad amarmi.
Andrò, ingrata, sì, andrò, contento almeno
Non mi posso pentir di aver già tolto
a te un amante, a me un rival. Per sempre
in te resti a infierir rabbia e dolore.
Vincer lieve a me fia dispetto e amore.
                                        Né minor pena
                                    In che peccai?
                                             E tu la mano.
                                   Che far potea?
Tutto, il colpo impedir, campar l’amico
                                        Ma...
                                                    Non ascolto
ragion. Paride salva e avrai perdono.
Se dato fosse rivocar dall’ombre
lasciami in libertà sospiri e pianti.
Tutti in odio or mi sono amori e amanti.
Cor, non t’intendo. Or odi. Or ami. Or cerchi
la morte? Ah! No. Viva anche altrui; ma viva.
Ripariam, se si può, l’orribil colpo.
vedrem morto colui che in gir fra l’ombre
di Paride piacesse il fato acerbo,
Enon, ti convenia mostrarne affanno.
quasi d’opra gentil, quasi di eccelso
che sì vago garzon, senza che a lui
giovi l’esser tuo sposo, uccidi e sveni.
Oh! Chi creduto avria che dopo tanti
amor, dacch’io l’abborro? In lui ti piace
utile sarà a lui la tua pietade.
Chiedi. Ottiengli perdon. Puote in te sola
Quella ancora di Niso era in lui solo.
Quanto indegno ei n’è più, più ne avrai lode.
Seguami ciò che vuol, lode o pur biasmo,
giusto sembri od ingiusto, altro non calmi
Di cotesta ostinata ira proterva
un dì ti pentirai. Credilo ad Egle.
Finirà, pria che l’ira, in me la vita.
Vo’ che mora il perverso. Egle, che tanta
mostra averne pietà, vada, il difenda,
ad ogni altra che a Enon la gloria ascriva.
Piacemi; e in onta tua farò ch’ei viva.
Di un vano minacciar, forti miei sdegni,
implacabile Enon. S’anche in suo scampo
basto a perderlo... O dei! (Vedutosi nel rivoltarsi vicino Paride, vuol fuggirsene; ma vien fermata da lui)
                                                Fermati...
                                                                     Lascia...
Pria ch’io vada a morir...
                                               Lasciami, iniquo...
                                Mel darà il tuo sangue.
                 Nemmen per pena ei ti si deve.
frapponi al mio destin. Mirami e parto.
bella nimica mia, sposa nol dico,
spremute da pietà. Morrei contento.
Pietà, sì, da quest’occhi a me le spreme
ma non per te. Niso infelice! È forza
in faccia al tuo uccisor. Ma tu, che sotto
nudrivi un falso cor, perché ugualmente
trofeo di tua fierezza esser dovesse
non attender da me che t’accompagni
nemmeno al tuo supplizio un mio sospiro.
vanne... (Siate ora forti, o mie giust’ire).
Vanne... Sì, lo dirò... Vanne a morire.
Crudel, pur lo dicesti; e pur del fiero (Si leva)
labbro ti uscì la ria condanna. Enone,
consorte, addio. Tu, dopo estinto, almeno
l’odio tuo sul mio sasso; e di’ talvolta:
Errò; ma fu destin. N’ebbe il gastigo;
ma il seguiro alla tomba amore e fede;
e se non si opponean gli astri nimici,
ei mio sposo ed io sua, giorni felici».
O per mio fato e per tua colpa, o sempre
che pretendi? Che vuoi? Nel fratricida
far ch’io abborra lo sposo? O nello sposo
far ch’ami il fratricida? Ah! Se all’amore
loco più non riman per l’innocenza,
lasciala all’odio mio. Suoni di Niso
Mostrami l’atra scure; il tronco capo
recami e il sangue suo. De’ tuoi fa’ pompa
vili spergiuri. Irrita il mio dolore.
Ma taci l’imeneo, taci l’amore.
ed il talamo ancora e l’ara e i numi.
aggrava il mio furor. Che mai di peggio
di quel che amante e sposo? Il meritava
la mia fede? Il mio amor? Posi in obblio
per te minacce di destin. Per sempre
Vanne a morir. Non finirà, già il sento,
né pur con la tua morte il mio tormento.
in mezzo all’ire mie tenero affetto
che quasi disarmò la mia vendetta.
Pur vinsi; e quel perverso avrà pur morte.
Morte?... Crudel vittoria! O dio! Tra poco,
scolorirà quel volto e quelle labbra
ammutiran, forse col nome ancora
di Enon... Vana pietà! Piangasi e mora.
Qual è questo dell’alma atroce affanno
per l’infelice giovane? Rimorso
non è, se giusto fui. Non è pietade,
s’è dolor tanto acerbo; e s’è dolore,
men grave la cagion, donde son mossa,
non oserei di presentarmi, o sire,
al tuo aspetto real, semplice ninfa,
solo a’ suoi boschi e alle sue greggi avvezza.
Qual sei? Perché a me vieni? E che richiedi?
Di Agelao sono figlia. Egle è ’l mio nome.
Figlia di fedel servo, a me sei cara.
Pria che segua il mio dir, per lui t’imploro
                 Sol per chi è reo perdon si chiede.
Tal egli è forse, se pietade è colpa.
In me svegli un timor. Fa’ ch’io t’intenda.
Ad esser sei vicin misero e iniquo.
Due gran mali ad un re, miseria e colpa.
Ambo sfuggir potrai; ma dammi il padre.
Te ne assicuro a sì gran prezzo. Parla.
In Paride tu uccidi un che è tuo figlio.
Paride figlio mio? Sogni o vaneggi.
Né sogno né vaneggio. Il ver ti dico.
Non è mio figlio chi pastor qui nacque.
Qui non ebbe il natal ma qui la vita.
Le fasce egli sortì da ignobil padre.
Di’ da padre crudel che espor lo fece.
Tal era il mio; ma il divorar le fiere.
Le fiere men di te fur dispietate.
Del padre ecco il delitto, ecco il tuo ancora,
se non rivochi la crudel sentenza.
che tanto palesai geloso arcano.
                                            Per non vederti
commetter crudeltà così esecranda.
Quando e perché l’alto segreto il padre
                      Non so tacerti il vero.
Atterrir volle un mio nascente affetto.
Ciò che zelo e pietà parea poc’anzi
era dunque in te amor. Non arrossirne.
Credine ciò che vuoi. Pari è tuo figlio.
facil non creda a giovanetta amante.
Agelao torrà i dubbi ai detti miei.
Già parlò il mio dover. Tu padre sei.
Fieri sospetti Egle in me ha desti. È male
il creder tutto; e il creder nulla è peggio.
(Arte or mi giovi). Sì dolente e mesto
                                            Deh! Come, o sire,
non esserlo di Pari al duro caso?
so che il prendesti ad educar qual padre.
Gli accorti modi e l’alma eccelsa e i rari
pregi mel rendean caro al par di figlio.
Nato certo egli par di regal sangue.
L’onor di queste selve in lui fia spento.
Quanta i suoi genitor n’avranno angoscia!
Fortuna loro è l’ignorarne il fato.
L’ignorano? T’inganni. Io te ne accerto.
Fama in recar sciagure ali ha sì preste?
Eh! Parlò già la figlia. Or parli il padre.
(Oimè! Che ascolto? Egle mi avria tradito?)
                  Servo infedel, cessa una volta
d’esser mendace; o ti trarranno a forza
torture e verghe il mal celato arcano.
(Fu il parlar già mio fallo, or fia mia morte).
Attendine pietà, se il ver ne dici.
Qual la posso sperar colpevol servo,
se non l’ebbe da te figlio innocente?
Di questo figlio vo’ saper che avvenne.
In Paride egli vive, a più spietato
stato ne fora lagrimevol pasto;
ma quelle più di te n’ebber pietate.
Nella selva il lasciasti; e sai che in esso
L’ignorerei, se dopo corso il quinto
dì non tornava a riveder l’infausto
             E in vita il trovasti?
                                                   Illeso il vidi
alle poppe allattar d’orsa, a lui fatta
Qual rimanessi, non saprei. Da interna
forza sentia spingermi a lui; ma tema
a cercar nutrimento. Allor fo core.
Mi avanzo e, preso il pargoletto in braccio,
in mia casa lo reco e sotto il nome
forzarmi ad infierir? Potea parerne
la primiera condanna o timor vano
di sogno femminile o ambiziosa
da quel dover che, a chi sceglieste al regno,
per vostra legge incombe. O legge! O pena!
Povero figlio! Esser non posso padre,
                                  Così richiede
la comun causa e la giurata fede.
Enon si rassicuri. I suoi natali
tacciansi a lui per risparmiargli affanno;
e il morir gli si affretti. Io vado intanto
la sua, la mia sciagura a pianger solo,
che sugli occhi di un re par vile il pianto;
ma nell’alma di un padre è giusto il duolo.
E tu sei genitor? Solo una volta
desti il viver al figlio e due gliel togli.
l’amante e arrischi il padre. Ah! Che non tanto
silenzio m’imponea timor di pena,
quanto il veder sul capo sventurato
premer la man d’inesorabil fato.
Figlio di Priamo è l’uccisor di Niso? (Ad Enone)
                                       E il ver ti disse.
Tradite or sì vi veggo, o mie giust’ire.
                                     Saresti ancora
tanto crudel, fino a portar sul trono
le furie tue? Fino a voler che un padre
                          A suo piacer ne faccia,
che il può, contra la fede e contra il giusto.
la ragione dell’odio, ancorché vano.
nel giudicio già dato e tu il potessi
Né potendo il vorria. Suo corso adempia
ciascuno, ei di giustizia, io di vendetta.
Eh! No, serbalo a te, serbalo al padre;
e cangerai, nuora di re, tua sorte.
Enon resti a’ suoi boschi. Ei vada a morte.
Scampo non s’apre al misero, che troppo
congiurano in suo mal natura e amore.
Malvagio consiglier! (Ad Eurialo) Barbaro core! (Ad Enone)
                                                 Enon, di’ il vero.
                                  Fuor che di sdegno,
d’ogni altro affetto mio Paride è indegno.
Altro suonan le voci, altro il cor pensa.
Di ciò che pensa il cor, dà segni il labbro.
Niso sorger potesse a nuova vita!
quel riviver non può né ceder questo.
Non mi lasciar. Con me qui Priamo attendi.
Anzi del suo dolor fuggo l’aspetto
                                               Cosa udir grata
                                     Dopo il funesto
nuncio che mi recasti, io nulla spero.
donde si attende men, sorge fin lieto.
Non pensassi far sì che preghi io porga
pria vederne lo strazio e poi morire.
Veggo i custodi. Il re non è lontano.
                              Ogni conforto è vano.
Ora il sogno, or le smanie... Eurialo, dimmi
e finisci di uccidermi, del figlio
Non t’irriti, o signor, ch’io, posto indugio
al sovrano comando, a te qui venga
cosa a svelar che, tua giustizia salva,
te varrà a trar d’affanno e d’ira Enone.
Ei gitterà le sue parole al vento.
Per la morte di Alceo, giusta sentenza (A Priamo)
cadde in Niso omicida; e l’eseguirla
e dopo le giurate infauste nozze.
Detto questo anco avrei. L’impeto affrena. (Ad Enone)
intanto il lieto avviso. A me, cui molto
dell’amico increscea, nacque in pensiero
tu del garzone, al chiaro sangue, al fallo
in caso repentino, a’ già conclusi
sponsali e al ben che ne verrebbe a questa
E tanto iniquamente, oimè! tradita. (A Priamo)
(Donna non può tacer). Temprato avresti (A Priamo)
il rigor della legge e che ben fosse
un sì nobil pensier, che dentro il cieco
carcer non giaceria l’informe busto...
Attendi il fine e non turbar suoi detti. (Ad Enone)
in sorte sì crudel qual è la mia?
Standomi fermo a salvar Niso, io feci (A Priamo)
segretamente ad uom, per gravi eccessi
troncare il capo e, fattol ricoprire
delle vesti di Niso, il grido sparsi...
Cieli! Ed è vivo il mio germano? (Ad Eurialo)
                                                             È vivo.
E con lui vivrà ancora il figlio mio.
Tanto è il piacer, che mi si affolla intorno
io m’abbia a cominciar. Pietoso amico!
Clemente re! Diletto Niso! Amato
Pari! Felice Enon! Sire, più ch’altro,
mi fa lieta il mio ben, perché è tuo bene.
Tu con me, tu per me misero... Ah! Fammi
contenta appien, come tu appieno il sei.
dammi col reo fratello il caro sposo.
Vieni omai, figlio mio, vientene in queste
braccia. Non lo sdegnar, se ben due volte
ti fu il padre sì rio. Lo voller forse
per far prova di me gli avversi dei.
Ma alfin s’impietosir. Tu i mali obblia,
che ti feci costretto, ed ama il padre.
la vita che mi desti e che or mi rendi,
per poterla in tuo pro, quand’uopo il chiegga,
spender con più di gloria; e assai più cara
Non do leggi al suo core. Ella risponda.
Crudel! Ch’io più sia tua? Ch’io più mi scordi
Non lo farò, no, se mi sforzi ancora
l’antico amor, no, se il tuo padre istesso.
Credilo, non a me... ma a questo amplesso.
Fido ognor ti sarò, quale or ti sono.
Sì, che invan spereresti altro perdono.
Egle, Eurialo, Agelao, siate or voi tutti,
Mi trae dagli occhi l’allegrezza il pianto.
Ed Eurialo non parla? Ei cui primiero
si deve il merto di sì lieti eventi?
                            Ben vi consente il padre.
Eurialo, l’amor tuo servì a’ miei voti
più di quel di Cleon. Ti accetto ed amo.
Del felice mio inganno or colgo il frutto.
(E a me sol resta la vergogna e il lutto).
Vedi, Cleon, se l’amistà trionfa.
Egle è più tua conquista e mio dolore?
(A non servir più ingrate apprenda il core).
Niso non obbliamo. A lui si vada,
Non mai giorno splendé più fortunato.
Fra le tre dee l’alto litigio insorse,
vanno le fole achee. Ciascuna altera
di sua dote maggior, qual per beltate,
qual per senno e valor, qual per grandezza,
ne contesero il vanto; e l’aureo pomo,
che le gare svegliò, stava in potere
del bel pastore ideo, giudice eletto
a decretar per la più degna il pregio.
il giudicio fatal. Due tu ne oltraggi
nel trofeo d’una sola. Esser vuoi giusto
ed a tutte gradir? Vedi ogni dote
di beltà, di grandezza e di virtute,
in quell’emule dee sparsa e divisa,
Questa qual fia? L’austriaca augusta Elisa.

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