Pirro, gran re, de’ tuoi trofei qui volle
nelle tele, ne’ marmi e ne’ metalli
eternar la memoria il nostro amore.
Neottolemo, Lisimaco, Cassandro,
Demetrio, Atene, Roma, illustri nomi, (Pirro non bada né all’apparato della sala né al dir di Turio ma va riguardando i vestimenti di lui e de’ Tarentini; e poi sottovoce parla al capitano delle sue guardie, il quale dopo si parte)
ne’ fasti tuoi. Tu invitto, immortal sei,
degno germe d’Achille e degli dei.
Popolo tarentino, e qual è questa
femminea pompa in viril gente? E dove,
dov’è l’austera Sparta, onde traete
l’origine vetusta? E tu, che a questa
degenere città, Turio, sei capo,
d’elmo alla fronte e di lorica al petto,
qual si conviene a chi con Roma è in guerra,
fregi di lusso in nastri d’oro ostenti
Fine agli ozi una volta; e polve ingombri,
i portici e i teatri. In disciplina
la gioventù. Sia coraggioso il braccio
che vi difenda da minacce e torti;
e Pirro, che è con voi, vi faccia forti. (Vien recata a Pirro una tavoletta da scrivere dal suo capitano, il quale inginocchiatosi gliela sostenta sopra lo scudo. Pirro traggesi di saccoccia lo stile da scrivere e sopra la tavoletta con esso nota, nulla badando a quello che gli vien detto da Turio)
(Schiavi siam noi. Misera patria!) È questo
per noi de’ saturnali il lieto giorno?
Vuoi tu l’uso abolirne? Il rito? Ah, sire,
mal ne rampogni. Allorch’uopo lo chiese,
adoprar l’aste ne vedesti e al fianco
dalle stragi latine i nostri acciari.
(Quanto profonde il lusso e quanto salde
oggi si soffra la licenza; e poi
altra a voi norma in avvenir daranno.
avvezzo ad ammirar Pirro e i suoi gesti,
cosa altrove incontrar, di cui stupirmi.
Qual Roma a te sembrò? Quale il Senato?
Quella un tempio di dei, questo un consesso
(Qui per la patria udir mi giovi).
Ma di Pirro i trofei sparso vi avranno
Troia farò di Roma. Anch’io son Pirro.
Ma Roma accetta i patti? O in sua ruina
L’udrai da’ suoi legati, a’ quai presiede
mia vincitrice, mia regina e dea.
debolezza agli eroi. Ne’ miei grandi avi
ferma il pensier. Vi troverai gli Achilli,
Qual di lor non amò? Gli occhi di Sestia
sul cor di Pirro han vendicato il Tebro.
apprezza che le clamidi reali.
Arde d’ostri la mia che le dan pregio
maggior. Necessità doma alterezza.
da lontano segnate, io saprò sciorle.
so ch’è la sua ricchezza.
sudar, segnando i solchi, io stesso il vidi.
Cinea, l’armi di Pirro han vinta Roma;
troppo facili palme a sé non finga.
Vien l’orator nimico. (A Pirro)
Entri e m’assido. (Va sul trono)
Roma, che a te salute e se vuoi pace,
re de l’Epiro, invia, si pregia e onora
un nimico che sia degno di lei.
vincesti, è ver, non debellasti; e tanto
sangue ti costa il tuo trionfo istesso
che, se a tal prezzo anche il secondo ottieni,
non sia de’ tuoi chi vincitor te segua.
pace chiedesti. Odi. Ei risponde. Il piede
che a te nulla appartien. De’ Tarentini
e de’ Sanniti rei più non ti prenda
o per cambio o per prezzo. E poi si tratti
pace e amistade in vicendevol patto.
si accamperan le tue falangi, s’anche
diecimila Levini avessi vinti,
ti farem guerra; e affolleransi i forti
a dare il nome e ad empier le coorti.
che interesse mi tragga, odio mi spinga
a far guerra con voi che degni siete
d’esser, più che nimici, amici a Pirro.
popoli a voi non servi. Essi l’han chiesta;
io l’ho concessa; e vuol ragion che all’uopo
Voi nol curaste; e mia, col vostro spregio,
e la migliore già approvar gli dei.
Ma qual giustizia è mai che mi si parli
se ancor dell’armi ritentar la sorte
esacerbati da vergogna e pena?
No no. Vengasi a pace; e poi vi rendo
prigioni, spoglie, armi, vessilli e quanto
esser può testimon di mia vittoria.
La ricchezza di Pirro è la sua gloria. (Scende Pirro dal trono)
Or non più. Venga qui Sestia al padre. (Si partono due delle sue guardie)
Già ne intendesti i sensi.
Ma tu i miei non appieno. Or fra i doveri
di cittadino, abbiano luogo ancora
e da Sestia udrò lieto i nuovi esempi
corron le gote e duol la preme acerbo.
Con sì debole cor sostien suoi casi?
Altro che prigionia forse l’affligge.
vidi sue belle luci e più serene.
non m’ingombra l’amor che a te non abbia
dato più d’un pensiero e dirò ancora
più d’un sospir. Ma ne’ sinistri eventi
altro è il sentirne la gravezza ed altro
Ove tenda il tuo dir, mostrami, o padre.
in preda al tuo dolor. Da Pirro il seppi.
sola, in poter di re nimico. Ah! Quando
fu più giusto dolor? Pirro i miei pianti
e le perdite mie, padre, tu sai.
da me scelto in tuo sposo e de’ tuoi primi
soavi affetti illustre oggetto, è morto.
Morto è Volusio e desolata io vivo.
Non si piangono, Sestia, i cittadini
a chi muor da roman fan torto a Roma.
Egli a vista del nostro e del nimico
in cui, dell’armi e delle vesti adorno
Pirro ancor vive e il mio Volusio è morto.
non di dolor. Men ti dispiaccia il danno;
Lunghi non saran forse i ceppi tuoi;
né mancheran dopo Volusio ancora
sposi per te, che sien per Roma eroi.
(Dispietata virtù, che ne condanni
dove è tristezza a simular costanza,
fa’ il tuo poter. Piangerò sempre il caro
il cor non già, perché lo so spergiuro.
Appunto quella. (A Bircenna che si ferma a guardar Sestia e poi a Turio si volge)
Se non l’amasse il re, direi che è bella.
(S’avanzano a turbar la mesta pace,
in cui solinga col mio duol ragiono).
Glaucilla, io tal m’appello, alla felice
Sestia del suo dover reca gli omaggi.
Se felice, o Glaucilla, e se superba
mi credi, in error sei. Me in stato abbietto,
Ove tende il suo dir? (A Turio)
fama di te risuona a lei pur giunse.
Come ben finge! (A Turio)
Non dirai già così, quando i vassalli (A Sestia)
sarà che a te, sua cittadina e figlia,
di corona real splenda la chioma.
Eh! Si sa che fra poco andrai regina
delle tue ritrosie si sanno ancora.
L’arte di guadagnar l’alte fortune
L’intendo anch’io. Così sedotto è Pirro;
e Sestia occuperà ciò ch’è dovuto
a Bircenna, cui servo, a lei che è figlia
di parlarmi così ti vien, Glaucilla,
d’alma vil ti palesi e ancor maligna.
e insultar la miseria è un meritarla.
Se punto ha di virtù la tua Bircenna,
condannerà i tuoi sensi. Io non l’offesi.
né del suo trono. Ella se l’abbia e il goda.
Schiava qual sono, io non invidio a lei.
Non riamato è Pirro. Ecco per lei
contra Pirro infedel l’ire rivolga.
E le vendette ancor. Me la gran donna
contra Roma per voi, tal gli si pensa
Meno Roma or temiam. Ma quando ancora
altra in Turio ragion d’odio non fosse,
dal tuo bel labbro esca un comando; e a norma
del tuo cor reggo il mio.
Dal tuo sguardo primier vinto e conquiso.
Un facile amator non è costante.
Il vero amor nasce in un punto; e il breve
tra il mirar vago oggetto e il non amarlo,
è un torto alla beltà. Chi tosto l’ama,
meglio il poter ne riconosce e il merto.
Orsù, ti credo amante e lo gradisco;
ma salda fé n’esigo e pronta aita.
Nulla tentar, s’io nol comando. A Pirro
moverò per Bircenna i primi assalti.
Di Turio allor cimenterò la fede.
Io vivo ancora, o dei quiriti; e vivo,
vostra mercé, perché corregga un fallo
Raggiugnerolla. Oh! Fra tue guardie io possa
qui sorprenderti ancor. Tremane, o Pirro,
e per Sestia e per Roma. In tua ruina
due furie ho al fianco e assai fora una sola.
fan parermi macedone; ma il core
e sente e sa d’esser romano. Sestia,
In tua aita, in mia gloria, a miglior fato
custodi dei Volusio han riserbato.
ch’io l’ire affreni e non veduto attenda. (Entra per una porta)
vedi, qui ha Pirro accolti ampi tesori.
I tesori de’ re sono gli amici.
Mancar possono amici, ov’è ricchezza?
No, se al merito in seno ella si spande,
che gl’indegni arricchir non è da grande.
L’armi, che ho mosse dall’onor costretto,
non mi levan dal cor che i tuoi non brami
cittadini in amici e te più ch’altri,
per senno e per valor famoso e chiaro.
ingiustamente avara. Io de’ suoi torti
soffrir non vo’ che più t’aggravi il peso.
Attendi. In mia real grandezza
preme i migliori; e chi ha il poter di trarli
di miseria, e nol fa, mal degli dei
i lor doni che in te? Tuoi sien questi ori,
tue queste gemme. Io non esigo, offrendo,
servi e al dover. Non compro la tua fede.
regga la mia famiglia e la nutrichi
di parchi cibi in orticel raccolti,
di povertà mi turbò mai né questa
mi fu inciampo al salir que’ gradi eccelsi
che al decoro convien de’ magistrati
e de’ pubblici uffizi, alle famiglie
non son di aggravio. Eburnee selle e fasci
e servi e saghi e toghe e quanto è d’uopo
Roma a noi somministra. Ella n’è madre
comun. Nostro è il suo erario. In lei siam ricchi.
Qual dunque a me da’ tuoi tesori e doni
comodo e pro, quando soverchi e vani
Accettandogli, o re, que’ perderei
che son veri tesori e beni miei.
Magnanimo Fabbrizio, io tal ravviso
già m’obblio d’esser re. Del cor di Pirro
né ravvisar si sappia in tal destino,
se miglior fosti padre o cittadino.
E Sestia il sa? Sestia mi parla e tace?
Che ne deggio pensar?) Figlia.
non han sovra il mio cor dominio e possa.
non v’è bene per te, non v’è grandezza?
Tutto anzi oggetto di disprezzo e d’ira.
nimico a Roma e che con guerra ingiusta
Non mi posso doler d’atto scortese.
Cortesie di nimico insidie sono.
Onor non chiesto, io non potea vietarlo.
Che ti disser suoi sguardi in te sì attenti?
Co’ suoi di rado s’incontraro i miei.
Pietà gl’interpretai data a’ miei mali.
Né mai d’amor ti favellò?
non t’avrei l’ardir suo, non il mio rischio.
Rischio ben lo chiamasti e l’hai vicino.
Pirro è tuo amante e t’offre
sciagura mia nunzio si elegge un padre?
Vuoi miglior testimon di tua virtude?
Deh! Spaventa il suo amor col mio rifiuto.
Mal s’irrita chi può quello che chiede.
Volusio estinto, un peggior mal v’è ancora
No, figlia, se avrai cor.
se il cor potesse, non sarei tua figlia.
A che mi astrigni, dispietato onore! (Dà mano ad uno stile senza snudarlo)
Rinnova pur, rinnova i prischi esempi.
Forte sia la tua man. Mi sarai padre
avessimo a temere un Appio in Pirro,
Ah! Che senza il tuo braccio...
Prendi. Un ferro all’onor basta in difesa. (Lo dà a Sestia)
liberarsi così d’un tal nimico.
riparo avrò da’ suoi mal nati amori?
Sestia, quello è mio acciar. Vibralo e mori.
padre, da te? Liberatore acciaro,
né di scorno ti fia passar dal pugno
del maggior de’ Romani a quel di donna,
la più infelice, sì, non la più vile.
E tu, amabil Volusio, ombra adorata,
e ben tosto vedrai con qual valore
ferro letal, nel regno opaco e cieco.
Ferro non giova a chi Volusio ha seco. (Volusio esce improvvisamente e, tolto di mano a Sestia lo stilo, frettoloso si parte)
Fu Volusio? Fu un’ombra? Il suon fu certo
quel fu degli occhi. Io l’ho nel cor. Ma l’armi,
son di nimico. Ah! Ch’egli è morto; e un’ombra
mi disarmò... Ma s’ei vivesse?... E s’anco
mossi alfine a pietà de’ pianti miei?
Torna la bella età. Tornan del prisco
gli aurei felici tempi, in cui non era
Tutto era pace, libertà, diletto.
Rancor non si sapea, guerra o sospetto. (Segue di nuovo il ballo con accompagnamento di canto)
le condanna e le annulla. Ah! Sostenerle
d’onor sia impegno e di pietà, che in esse
più di Roma possenti e più di Pirro.
di Bircenna il destin. So ch’ella alfine
trono e talamo avrà. Regina e sposa
prenderà le tue parti. Il re qui in breve
Rammentargli Bircenna e la sua fede.
Con l’amante di Sestia un vano sforzo.
Ciò ch’io possa, non sai. Lasciami.
vengano allor da’ miei gli affetti tuoi.
sposa di Pirro, avrò disciolti i legni
per soffrir qui i miei torti e poi derisa?...
voglio o il tuo sangue. Non mi cal di rischio,
purché fugga vergogna. Eccolo. Al regio
manto il ravviso, al portamento altero
E le falangi e gli elefanti e tutto
Qual fer senso a Fabbrizio i tuoi tesori,
che hai qui tratte a perir. (Bircenna s’avanza)
Cinea, (La guarda, poi subito si volge a Cinea)
Ella è straniera. Ai panni
Si arretri e attenda. (A Cinea)
Il cenno intesi. (A Pirro) (Appena
Come e quando finir tra Pirro e Roma (A Fabbrizio)
ed io gli ulivi appresterò di pace.
(Pirro si obblia. Soffre Bircenna e tace).
di espor, non di cambiar l’alte sue leggi.
Anco a lei piacerà che taccian l’armi,
che Pirro le sia amico e ch’io far degni
Disio t’inganna. Un’immutabil legge
vieta al popol quirin nozze straniere.
Ma s’io... (Bircenna di nuovo s’avanza)
oltre il dover chi di Bircenna in nome
Non m’ingannai. (Piano a Pirro)
Qui grave affar di regno (A Bircenna)
Come a te piace. (Si ritira come sopra)
(Per poco ancor soffre Bircenna e tace).
non cal né di sue leggi. Il tuo mi basta
consenso e quel di Sestia.
può dispor di sua preda un vincitore?
Un tiranno il potria. Pirro ha virtute.
E amore ancor, che più di quella è forte, (Bircenna pur s’avanza)
Sestia, ch’è spoglia mia, siami consorte.
Sestia consorte? Il grande affar di regno,
Tu obblii la fede. Io la ragion sostengo
segnasti e le hai giurate. Ella tua sposa
sciolse dal patrio lido. Atra procella
in queste la gittò spiagge, ove appena
prender terra poté. Pochi fur salvi
de’ suoi. Quasi il naufragio invidia a tanti
miseri che perir, sì le dà pena
saper che infedel sei. Pirro, che alfine
tu le renda ragion, sospira e chiede.
d’un rifiuto il suo cor. Quell’alma fiera,
anche in mezzo al tuo campo, a’ lauri tuoi,
sapria farti tremar. Furie di donna
esser ponno funeste anco agli eroi.
Per cieco e vano amor perder gli amici?
Tradir sé stesso? Ah! Quanto di tua gloria
duolmi e di tua virtù! D’esserne io stato
testimon, ne ho rossor. Che dirò a Roma
Elefanti e falangi in nostro danno
vengan pure, te duce. A’ gran trionfi
e ne appiana le vie. Tu vincer forte,
Seguili pur. Corri a vergogna e danno.
quel Pirro ch’io credea, no, più non sei.
Eh! Seguane che vuol; sien di Bircenna
sien del roman saggi i consigli, ho troppo
fisso nel core il fatal dardo. Astretto
recar querele e minacciar vendette.
Io più mi guarderei da donna irata.
Parli a Sestia il mio core e il suo si ascolti.
Femmina per costume ama grandezza;
che, potendo oltraggiar, porge un diadema.
Sestia è schiava; io son re. M’ami o mi tema.
Numidico lione, ircana tigre
meglio a frenar torrei che i giovanili
caldi affetti d’un re. Quanto diverso
Pirro è da sé! Fuor di sentier lo porta
sregolato desio di falso bene
che costar gli potrebbe, anche ottenuto,
onte, rimorsi, pentimenti e pene.
a questi occhi e sparì. Caro Volusio,
volgo il piè, giro il guardo, ah! dove sei?
Signor, quel tuo sì fosco aspetto
Se non infausti, perigliosi. In breve
sinché Turio qui ascolti. Egli a me viene.
Non lunge intanto a questi muti orrori
de’ miei ragionerò miseri amori. (Ritirasi e va a passeggiar pel giardino)
Al legato roman Turio i suoi reca
Che mi chiedi in tuo pro?
di libertà, Roma al tuo cor lo dica.
Tema di servil giogo ardir ne diede
a pugnar contro voi. Vinti, non domi,
cercammo in Pirro un difensor. Ma Pirro
Patti obblia, cambia leggi, annulla riti;
e infin ne toglie sacrifizi e numi.
Si corregga l’error. Roma ne accolga
sotto l’aquile sue. Per me ten porge
e onesta libertà. Merto a ottenerla
ne faccia il tor di vita il vostro, in Pirro,
Letal velen gli darà morte. È pronta
noi di pianto versammo e voi di sangue.
l’arbitrio del Senato. Egli è la mente
la fede, i voti e le promesse. Il nome
delle decurie e gli altri magistrati.
Tanto farem; né tua virtù concede
volgono in questo ciel! Qui fede in bando,
qui giustizia in obblio. Scorgo anche inciampi
per l’istessa innocenza. Or m’odi, o figlia.
Qual desio? Qual pensier...
gli minacciai l’ire di Roma e mie.
Non più. Torni Volusio al Tebro.
Da te n’esca il comando; e s’ei ti opponga
tu assicura il suo amor; ma che coltivi
e gli dirai che basta un Muzio a Roma.
Teme il padre a ragion. Nel campo ostile
(Secondate i miei sforzi, o dei quiriti).
Qui Sestia. Oimè! (In atto di partirsene)
Tanto, Volusio, temi (Lo ferma)
l’aspetto mio? Tu me fuggir? Che debbo
non men che l’armi, hai ’l cor romano? Oh! Fossi,
ti renderanno del tuo error più accorta.
Trarmi d’affanno or puoi. Dimmi, che pensi?
Per comun bene un memorabil colpo.
Deh! Se ancor m’ami e vuoi ch’io il creda, a parte
chiamami di tua gloria. Anch’io, Volusio,
le forti cose oprar posso e soffrirle.
Si compiaccia al tuo amor. V’ha chi n’ascolti? (Guarda intorno)
mi si lascia in custodia alla mia fede,
A Pirro? Ah! Tu il nomasti. In lui cadranno
né qui mi fuggirà, se a me non manco,
Da un fier nimico e da un tiranno amante
Su via. Pirro s’uccida. E poi? Di pace
le belle rivedrem rive del Tebro?
darà l’armi all’Epiro. Il roman sangue
misto col mio. Ma no, Volusio. Il meno,
che qui tema, è per me. Veggo il tuo rischio,
veggo quello del padre. Or va’. Per cieca
cupidigia di gloria un colpo tenta
oltraggioso alla patria, a noi funesto.
tra gli Scevoli possa e i Deci eroi
la memoria eternar de’ fasti tuoi.
Pirro, ah! tu non rammenti? Altra a lui credi
Un re che t’offre amante...
Oltre non dir. Già lo comprendo. Il fiero
fatto alla tua virtù, fatto alla mia.
Ei né lusinghe ha né minacce,
onde s’abbia a sedur nel cor di Sestia
il dover e l’amor. Tu riedi al Tebro.
E che? Vorrai tormi l’onor?...
Forte più ch’altro è la costanza mia.
Lascia che almeno spettator ne resti.
No. Tu il rischio di Sestia esser potresti.
(Amor di re parli una volta e vinca). (Da lontano)
Veder Pirro e lasciarti? Io nol potei.
dolor ne’ tuoi begli occhi atre divise.
Senza grave cagion non sei sì mesta;
e colui ne fu forse il nunzio infausto. (Mostrando Volusio)
signor; d’amara angoscia il cor è oppresso.
fati non s’opponean, sarei già sposa,
cadde da eroe. Ragion faceagli in dirlo
quell’uom guerrier che nella pugna il vide.
E le dicea che in ver Megacle al pari
di feroce lion scagliarsi il vidi
di più nobil trionfo ornar sua fama.
Sestia, più non ti dolga.
troppo nel core e troppo, o dio!, negli occhi.
E troppo è fresca la memoria acerba.
Soffrirli con virtù mi fa conforto.
E rimedio, che affligga, accresce i mali.
Altra gloria è per te l’esser consorte
di chi vanta in retaggio impero e trono,
dall’idea che n’abbiam che da sé stessi.
Fa’ ch’egli taccia e a me si lasci
Eccoti il suo uccisore. (A Bircenna in lontananza)
Il cenno attenda. (A Turio; e qui Turio e il soldato passano all’opposto viale, ponendosi quivi in agguato. Bircenna si va avanzando verso Pirro)
non m’oppor roman fasto e leggi austere.
d’un già sciolto imeneo. Vanti alta stirpe,
regal sangue, alma invitta, io non la curo.
Ella torni al suo Illirio. Ella...
forse vi tornerà meno infelice.
Deh, prendati, o signor, di te pietade,
la vergine real, da me l’ascolta...
Risparmiarle già puoi. Nozze fra l’armi
Cangi anch’ella il suo core e imiti il mio.
feci, o Pirro, per te. Rimanti pure
corrono i voti tuoi, vanno i tuoi sguardi.
Nulla di me ti cal, nulla di quella
per cui prego e minaccio. Addio. Al tuo fato,
Fra poco, o re, meglio saprai qual sono.
Olà. Morte all’iniquo. (Bircenna nell’atto di partirsi dà il cenno al soldato di vibrare il colpo. Questi ubbidisce. Volusio, che vi sta attento, vi oppone a tempo lo scudo e salva Pirro)
non sempre al fianco il difensore avrai. (Si parte)
Pirro, a ucciderti venni e ti salvai. (Si parte)
(Il mio Volusio difensor di Pirro?
plebeo soldato? Eh! No. Meglio apro gli occhi.
«Pirro a ucciderti venni e ti salvai»?
Salvarmi a un tempo e minacciar? Far quello
un può de’ miei macedoni. Dir questo
Sestia, tu il sai. Tu ancora mi tradisci.
Nol negar. Già ti condanna il volto.
Quegli era il tuo Volusio; e la mia morte
qui con lui consigliasti. O iniqua! O ingrata!
Dimmi ingrata; hai ragion, s’è sconoscenza
il non poterti amar. Ma iniqua, a torto
mi chiami. È ver. Quegli è Volusio. Il trasse
qui amor; ma ti difese e ti diè vita.
Per ritormela ei stesso. Egli l’onore
al suo lo riserbava, a te il dovea.
Ma grazie al ciel rotta è la trama. Invano
A te ricondurrollo. Avrò, spietata,
con che farti tremar. L’alma disponi;
e non più t’ostinar, che nol consente
l’amor di Pirro e il tuo destin presente.
per parer forte. Chi salvar da Pirro
No, se tu ancor mi segui.
Ogni scampo n’è chiuso in terra ostile.
il favor meritar, n’apre la strada.
quello che te minaccia ultimo fato.
vana è la mia pietà. Sestia, convienti
o vederlo perir. Se tu rimani,
non ho il frutto dell’opra. Il cor di Pirro
a Bircenna si dee, tu lo ritieni.
e Glaucilla, cui servo, a me fia grata.
Sestia, ancor tu ripugni? Addio, crudele.
Vado incontro a’ custodi e sfido morte.
Questo sia mio pensier. La via che guida
fuor delle mura è quella. Ivi ne segui
tu a lento passo per non dar sospetto.
Amor, vincesti. Il cor mi batte in petto. (Turio e Volusio si partono)
Dalla fuga di Sestia e del suo amante
che così volle, il tacqui.
Parve turbarsi; mi lasciò; ma forse
tutta di Turio sia l’alta mercede.
Basta sì poco a lui? Non sì modesto
I voli dell’amor frena il rispetto.
Amor vuoi da Glaucilla? Amor ne avrai.
l’offerta di più regni; ed il mio amore
a poterti offerir non ha che un core.
Gli audaci voti omai correggo e meglio
comincio ad onorar la mia regina.
Tal sono, è vero. Alla tua fede, o Turio,
il negarmi qual son sarebbe oltraggio.
Ma troppo intanto divampar la fiamma
fer le dolci speranze, or sì infelici.
Sia in conforto al tuo duol che avrai costante
il favor di Bircenna e di Glaucilla
Sì, tra le ancelle mie la più diletta.
Beltà le ride in volto; e s’ampia dote
essa l’ha da retaggio e da fortuna.
che s’intendano meglio i nostri cori.
Obblio le andate offese e dell’illustre
figlia di Glaucia onor già rendo al grado.
rendo al dover la fede? E poscia anch’io
onte e spergiuri obblio. Non vuol decoro,
non ragion, non amor ch’io rifiutata
Nel tuo giusto dolor veggo il mio torto.
Ma che far posso? Fu sorpreso il core
lo potessi mirar, vil nol diresti.
Qual mercé ne ottenesti? Ire e disprezzi.
Crescerà per contrasto il mio trionfo.
s’affrettino a cercarla entro di Roma.
Chi dato abbia a colei mano e consiglio
la tua vita e il tuo amor non sarà mai.
non potresti trovar regina e sposa
né di me più fedel né più amorosa.
E fuggirmi poté? Poté tradirmi
i rimproveri e l’ire? Olà, custodi,
dietro l’indegna coppia...
regio voler. Per ogni parte intorno
creduta avresti? I doni miei l’ingrata
in mio danno ha rivolti. Ella è fuggita.
La figlia accusi e non condanni il padre?
fuggir? Perché? Qui nol rendean sicuro
la ragion delle genti? Il grado? E Pirro?
Or va’; m’ostenta la virtù romana.
e Fabbrizio a sé stesso, a Roma, a Pirro.
Né a te né a Roma né a sé stesso ei manca.
Torni la sconsigliata a quella sorte
il piè non le aggravasti; e in sua custodia
Se ne abusò. Degna è di pena; e l’abbia.
di ragion sovra lei l’armi ti danno,
non risparmiar. Lo soffrirà la figlia
del tuo poter. Quel che di più volesse
esigerne la forza è contra il giusto,
contra il dover. Pur s’uopo il chiegga, il sappi,
Sestia, che ha roman petto e ch’è mia figlia,
fra morte e disonor non si consiglia.
Generoso Fabbrizio, or ben m’avveggio...
Oprando con virtù, lodi non chieggio.
In sì funesto amor che più ostinarti? (A Pirro)
Non anco ei giunge a disperar. Deh, parti. (A Cinea che si parte)
(Poiché lunge è il mio ben, nulla si tema).
mia prigioniera. Nol temevi e lieta
col tuo Volusio t’affrettavi al Tebro,
tra’ gaudi tuoi l’onte di Pirro e l’ire;
ma t’ingannasti. Or qual discolpa, ingrata,
da quella fuga avrai che t’hanno aperta
tuoi benefizi mi serviano appunto
di più cruccio e terror che i ceppi e i mali,
onde aggravar del mio servaggio il peso
potevi. Io ti vedea per desir vano
che al tuo fianco trovai, l’amore, il rischio
di lui t’hanno sedotta; e in fuggir seco,
a Volusio servisti e non a Pirro.
Più che non pensi, a te servii. Già posso,
or che Volusio è salvo, osare e dirti
ciò che tratto dal cor mai non m’avrebbe
nella pugna il suo error, qui dal suo braccio
non avresti sfuggita. Io lo ritenni;
né potendo al tuo amor render amore,
t’usai pietà, per non parerti ingrata.
Ciò ch’ei fece in tuo pro, Pirro, il vedesti;
ei potesse tentar, Sestia il sapea.
per te, per lui. Gli consigliai la fuga.
Ma gran ben non gli parve uscir di rischio
senza me. Vinse amor; vinse pietade.
S’errai, caro è l’error. L’austero padre
ma Volusio ei mi salva, in cui ragione
non avean l’armi tue. Questo a me basta.
Non son nel peggior fato; e mi consola
che, costretta a soffrir, soffrirò sola.
Sfortunato amor mio! Che fei? Che dissi? (Volusio viene fra guardie)
Minaccia il volto e inerme è il braccio.
Per timor d’irritar, m’arretro e taccio. (Si ritira in disparte)
di che farti tremar. Megacle uccisi.
Ti faranno parlar ruote e flagelli.
Chi petto ha per morir, l’ha per tacere.
Sestia disse le trame. A che le taci?
Perché chieder a me ciò che già sai?
Se il ciel non confondea gli empi disegni,
Tor del mondo i tiranni atto è da forte.
O d’anima romana eccelso pregio
cercar da un tradimento i suoi trionfi!
Gli cercai nel conflitto; e grazie rendi
e che poi ti salvò, se in vita or sei.
In custodia de’ re veglian gli dei.
Tu mi rinfacci una pietà non tua.
e di Sestia il tiranno in te ancor viva.
A me Sestia rammenti? Ella ti perde.
Tua morte io ritardai. Tu la mia affretta.
Verrà l’odio di Sestia in mia vendetta.
Morte e pena, sì, avrai che degna sia
della tua audacia e dell’offesa mia.
Troppo il tuo duol sofferse,
Sestia, ti lascio in libertà di pianto.
Supplice a me verrà. (Piano a Cinea)
Che cor protervo! (Piano a Cinea)
Vana pietà qui più m’arresta. Andiamo. (A Cinea)
Oimè! Dove, o signor? Che far pretendi?
L’amor non meritai. L’odio non curo.
Deh! Se vuoi che al tuo piè... (Volendo proseguire, vede Fabbrizio che la riguarda e le fa cenno)
Cinea, tel dissi (Piano a Cinea)
Sta ancor pensosa. (Piano a Pirro)
(L’amor mi sprona. Mi spaventa il padre.
Sestia, che ha roman petto e ch’è sua figlia,
avvilirsi non dee... Ma il mio Volusio?... (Guarda di nuovo il padre. Pirro e Cinea parlano sommesso)
che sia prezzo il mio amor).
Va’ pur. Volusio e con lui Sestia mora. (A Pirro risoluta. Pirro guarda Cinea. Fabbrizio fa applauso a Sestia. Sestia sta di nuovo pensosa)
e ne fui testimon. Con qual mia gioia,
questo amplesso tel dica.
ch’io ricevo da te, sarà l’estremo.
Giovane incauto! Io ’l salvo. È mio comando
e a me fidi il pensier della tua sorte;
e si perde egli stesso e vien qui a morte.
Tratto da quell’amor che non ha legge.
Io feci il suo periglio. Ah! Sua difesa
sii tu. Placagli il re. Padre, tu ’l puoi.
Ciò ch’io possa non so; ma poco onore
sul rischio suo, non perché ei sia tuo sposo
ma perché in lui v’è il cittadin romano.
Che non fa amor paterno? Odami Pirro. (Si parte)
Fora miglior consiglio usar clemenza.
Sestia non la implorò. Dall’esser chieste
le grazie de’ regnanti acquistan pregio.
l’esercito disponi. Il campo tutto
chi alla vita d’un re tenta gl’insulti.
Il facondo tuo dir, cui più conquiste
deggio che all’armi mie, fra’ suoi trionfi
non conterà quel del mio sdegno. Io voglio
che tremino una volta odio ed orgoglio. (Va a sedere al tavolino. Lo ascolta alquanto e poi scrive)
Il romano orator? Venga. (Si leva) Ei vien forse
Volusio è in tuo poter. Sia che ti giovi
crederlo delinquente o reo tel mostri
un certo audace giovanil trasporto,
non aspettar che in suo favor m’adopri.
S’ei n’è degno, abbia morte. Iniquo è al pari
chi protegge le colpe e chi le assolve.
devi pria bilanciar demerto e pena;
e non lasciar che da privato affetto
peso a’ falli s’aggiunga e ne’ gastighi,
più che severità, sdegno abbia parte.
e del regnar so le virtù e i doveri.
più popoli al tuo nome ed io con loro.
Ma l’amor proprio in certi casi un velo
qui non venne a tentar, fino in mia stanza,
l’eccidio mio? La sola idea, ch’ei n’ebbe,
lieve colpa a te sembra? A tali eccessi
pena s’indugerà, per dar poi tempo
che a maturezza iniquità li tragga?
Ei nol seppe negar; né Sestia il tacque.
e del ben, che ti fece, obblio ti prenda.
Il geloso amor mio fa che in Volusio
il nimico mi finga e l’assassino.
la già data sentenza. Orsù, da questa
Si laceri il reo foglio; e tu che solo (Straccia la sentenza)
la grand’alma spogliar puoi d’ogni affetto,
giudica tu Volusio. Io tel rimetto.
sostien le veci. D’un roman sul fato,
Ma giudicando rammentar ti dei
che il re d’Epiro e non Fabbrizio or sei.
Dura necessità ch’esser io deggia
in genero, anzi in figlio. E chi a tal legge
può costrignermi?... Chi?... Forse al protervo
fato, che il preme, esimerò il suo capo,
Anzi più affanno a lui, più scorno a Roma
fia che un barbaro re sotto la scure
in figura di reo. No, non fia vero.
L’onta è comune. Mi dimandan questo
sacrifizio funesto e patria e onore.
Di romana fortezza armati, o core.
Grazie agli dei, grazie al buon padre. Il cielo
m’ebbe pietà. Tu dal furor di Pirro
chiedi il tuo sposo. Ei ne ha l’arbitrio.
Che? Tu sospiri? Il re m’avria delusa?
Purtroppo è ver. Da me il destin ne pende.
E pena l’amor tuo, quando mel rende?
Tu suocero di lui, tu padre mio...
Giudice di Volusio ora son io.
Che mai fece il meschin? Qui non si tratta
o di sprezzate leggi o di negletta
militar disciplina. Il sol suo fallo
è aver pensato e non tentato un colpo,
per cui gli si dovria da te e da Roma
potrei; ma Pirro e non Fabbrizio or sono.
te giudice, o signor, la morte mia.
di tutti gli odi miei barbaro oggetto;
col più placido core e col più forte,
incontrar mi vedrai supplizio e morte.
Morte e supplizio a te verrà ma allora
che dal giudice tuo sarai convinto.
Lo so; il delitto, onde accusato io sono,
sta nell’aver voluto uccider Pirro.
Nel conflitto era gloria e qui era colpa.
che il giudice di Pirro in me t’ascolta.
abbi di Sestia, abbi di te pietade.
Giustifica te stesso. Arte supplisca,
vile così? Tu ancor n’avresti orrore.
ch’io per tema di pena il ver t’asconda.
il nimico e il rival. Due faci all’ira
Il colpo, che impedii, non mi discolpi
e che, s’ora potessi, io pur farei.
Per la patria e per te morendo, o sposa,
non mi posso pentir degli odi miei.
E se al dolor non sai far petto, altrove
sul destino di lui piangi, se vuoi.
fosse il giudice tuo! Potrei sperarlo
del carnefice tuo, del tuo tiranno.
del mio dolor perdo ragion. Perdessi
tutto usa il tuo rigor. Mal lo dividi.
Me ancor condanna, se Volusio uccidi.
la morte mia. Non accusarne il padre.
E fato e sposo e Pirro e Roma e padre,
tutto iniquo è per me, tutto spietato.
abbastanza arrossir de’ tuoi sospiri.
I tuoi ciechi desiri, onde vorresti
e me ingiusto e lui vil, dal core esiglia.
Vanne e sii meno amante o sii più figlia.
Qualche all’amor, qualche fiacchezza al sesso
che da forte cadesti e con la lode
Volusio, addio. Più che di Sestia il duolo,
mi strigne il cor la tua virtù. Te questa
accompagni alla tomba e fra’ tuoi vanti
allora avrai sin di Fabbrizio i pianti.
Vivrà in Sestia il mio amor. Vivrà ne’ fasti
de’ romani trofei la mia memoria.
Che più bramar? Bello è il morir con gloria.
la sua amistà? Nulla di Sestia il pianto?
Pregio è d’alma romana all’equitade
sacrificar figli, congiunti, amici.
Come? In Fabbrizio il fier decreto è giusto?
sire, tra il dar consiglio e il porlo in opra.
Spesso s’insinua come onesto e retto
ciò che in sé si conosce iniquo e torto.
Taci; e lui vedi in suo pensier raccolto.
Del tranquillo suo cor fa fede il volto.
Volusio, o Pirro, il tuo giudizio assolvo.
far la pena eseguir? Giusto sarai.
segui quel calle, ove il gran cor ti chiama.
qui al tuo merto ogni onor.
Volusio tacerò. Dirò che Pirro
Tarentini e Sanniti; a’ prigionieri
nega cambio e riscatto; e che a lui piace
ingiusta guerra più che onesta pace.
Oh! S’uom sì grande ognor potessi al fianco...
Qual io mi sia, tu non conosci appieno. (Fabbrizio prende in mano una carta)
Non di nimici e non d’amici
sei buon giudice, o re. T’inganni in tutti.
fai guerra a’ buoni e ne’ malvagi hai fede.
Né pensar già che amor di te mi spinga
Quel vero amor, che in nobil petto alligna,
da me l’esige. Onta farebbe a Roma
saper le insidie e te soffrirne oppresso;
che, dando braccio a iniquità sì enormi,
ne mancasse valor per farti guerra.
O perfidia! O virtù! Vil Turio! Ingrato (Dopo aver letto)
Cinea, si vuol della mia morte in prezzo
l’amicizia di Roma. A me s’appresta,
in mercé di perigli e di sudori,
letal bevanda. Inorridisci; e leggi. (Dà la carta a Cinea)
Fé non si serba a’ traditori. (Verso Turio)
nimico ancor, che mai faresti amico!
L’onesto oprar di chi ben opra è il fine.
Mio re, sia tempo omai che generoso...
Sforzo ah quanto funesto al mio riposo!
Sestia crudel! Sì mi consoli?
e per vincerla ancor petto ho che basta
e forze ancor. Sol tua virtù m’ha vinto.
i romani cattivi; a te gli rendo;
te Volusio già assolto, a te lo dono.
E Sestia, a me ancor cara... Ah! Dir nol posso
col suo amante fedel segua il buon padre
e obblii di Pirro l’infelice amore.
In un barbaro re spirti sì eccelsi?
siami a cor la difesa; io gli abbandono
alla loro viltade e al lor rimorso;
ma trar d’Italia il piede e dalle tempie
strapparmi io stesso i già raccolti allori,
parria viltà. Guerra con Roma io voglio,
guerra d’onor, non d’odio; e un dì m’accolga
vincitore o anche vinto il Campidoglio.
Gran re, non da’ trofei che ti dier l’armi
ma da quei che or ti dà l’anima eccelsa,
Roma conoscerà che mai non ebbe
più dubbio Marte a sostener. Volusio,
Sestia, i cattivi, io più di tutti, al Tebro
e l’armi appresterem. Ma credi, o Pirro,
che, assai più che da guerra e da vittoria,
vien da pace a un buon re grandezza e gloria.
E nel comun contento io sola, io sola
che meglio spente sien del primo incendio
un amor l’altro incalza. Il mio vuol tempo.
Ma la mia fede e il tuo dover rammenta.
Regno, amor, guerra, pace e gli altri pregi,
per cui gloria s’ottien, di più grandi alme
son l’oggetto e il piacer. Qual va per uno
titolo, qual per altro illustre e chiaro;
nome d’immortal fama, augusto Carlo;
e come un sol trofeo formano insieme,
raccolte e sovraposte, armi e vessilli,
alzano eterno monumento i regni
e del pubblico amor gli ossequi e i voti
e i bellici trionfi e la costante
pace che doni e che difendi. Accenno
i tuoi vanti, o signor; ma di chi m’ode,
né lor fa torto la mia scarsa lode.
ove sia circonscritto il mondo intero,
l’ampia mole di lui l’occhio non vede
ma l’intelletto ne comprende il vero.