Metrica: interrogazione
878 endecasillabi (recitativo) in Caio Fabbricio Vienna, van Ghelen, 1729 
Pirro, gran re, de’ tuoi trofei qui volle
ne le tele, ne’ marmi e ne’ metalli
eternar la memoria il nostro amore.
Neottolemo, Lisimaco, Cassandro,
Demetrio, Atene, Roma, illustri nomi, (Pirro non bada né all’apparato della sala né al dir di Turio; ma va riguardando i vestimenti di esso e dei Tarentini; e poi sottovoce parla al capitano delle sue guardie, il quale poi parte)
nei fasti tuoi. Tu invitto, immortal sei,
degno germe di Achille e degli dei.
Popolo tarentin, qual è cotesta
femminea pompa in viril gente? E dove,
dove è l’austera Sparta, onde traete
l’origine vetusta? E tu, che a questa
degenere città, Turio, sei capo,
d’elmo a la fronte e di lorica al petto,
qual si conviene a chi con Roma è in guerra,
fregi di lusso in nastri d’oro ostenti
Fine agli ozi una volta; e polve ingombri,
i portici e i teatri. In disciplina
la gioventù. Sia cittadino il braccio,
che vi difenda da minacce e torti;
e Pirro, che è con voi, vi faccia forti. (Vien recata a Pirro una tavoletta da scrivere dal suo capitano, il quale inginocchiatosi gliela sostenta sopra lo scudo. Pirro traggesi di saccoccia lo stile scrittorio e sopra la tavoletta con esso scrive, nulla badando a quello che gli vien detto da Turio)
(Schiavi siam noi. Misera patria!) È questo
per noi dei saturnali il lieto giorno?
Vuoi tu l’uso abolirne? Il rito? Ah! Sire,
mal ne rampogni. Alor che d’uopo il chiese,
trattar ne hai visti aste guerriere e al fianco
de le stragi latine i nostri acciari.
(Quanto profonde il lusso e quanto salde
oggi si soffra la licenza; e poi
altra a voi norma in avvenir daranno.
avvezzo ad ammirar Pirro e i suoi gesti,
cosa altrove incontrar, di cui stupirmi.
Qual Roma a te sembrò? Quale il Senato?
Quella un tempio di dei, questo un consesso
             (Qui per la patria udir mi giovi).
Ma di Pirro i trofei sparso vi avranno
                                         Da le sconfitte
                                             Ferro non basta?
Troia farò di Roma. Anch’io son Pirro.
Ma Roma accetta i patti? O in sua ruina
L’udrai da’ suoi legati, a’ quai presiede
                                               Di Sestia il padre?
                                              Dilla, o Cinea,
mia vincitrice, mia regina e dea.
debolezza agli eroi. Ne’ miei grand’avi
ferma il pensier. Vi troverai gli Achilli,
Qual di lor non amò? Gli occhi di Sestia
sul cor di Pirro han vendicato il Tebro.
Arde d’ostri la mia che le dan pregio
maggior. Necessità doma alterezza.
da lontano segnate. Io saprò sciorle.
                                              In su l’aratro
sudar, segnando i solchi, io stesso il vidi.
Cinea, l’armi di Pirro han vinta Roma;
                                          In tua lusinga,
troppo facili palme a sé non finga.
Qui l’orator nemico. (A Pirro)
                                        Entri e m’assido. (Va sul trono)
Roma, che a te salute e se vuoi pace,
re de l’Epiro, invia, si pregia e onora
vincesti, è ver, non debellasti; e tanto
sangue ti costa il tuo trionfo istesso
che, se a tal prezzo anche il secondo ottieni,
non sia de’ tuoi chi vincitor te segua.
pace chiedesti. Odi. Ei risponde. Il piede
che a te nulla appartien. De’ Tarentini
e de’ Sanniti rei più non ti prenda
o per cambio, o per prezzo. E poi si tratti
pace e amistade in vicendevol patti.
accamperan le tue falangi, s’anche
ti farem guerra; e affolleransi i forti
a dare il nome e ad empier le coorti.
che interesse mi tragga, odio mi spinga
a far guerra con voi che degni siete
d’esser, più che nemici, amici a Pirro.
popoli a voi non servi. Essi l’han chiesta;
io l’ho concessa; e vuol ragion che a l’uopo
Voi nol curaste e mia, col vostro sprezzo,
e la migliore già approvar gli dei.
Ma qual giustizia è mai che mi si parli
se ancor de l’armi ritentar la sorte
No no, vengasi a pace; e poi vi rendo
prigioni, spoglie, armi, vessilli e quanto
esser può testimon di mia vittoria.
La ricchezza di Pirro è la sua gloria. (Scende Pirro dal trono)
                     Or non più. Venga qui Sestia al padre. (Partono due delle sue guardie)
                     Già ne intendesti i sensi.
Ma tu i miei non appieno. In fra i doveri
di cittadino, abbiano or luogo ancora
                              Non ricuso il dono;
e da Sestia udrò lieto i nuovi esempi
                                     (Oh! Se sapesse!)
corron le gote e duol la preme acerbo.
Con sì debole cor sostien suoi casi?
Altro che prigionia forse l’affligge.
vidi sue belle luci e più serene.
non m’ingombra l’amor che a te non abbia
dato più d’un pensiero e dirò ancora
più d’un sospir. Ma ne’ sinistri eventi
altro è ’l sentirne la gravezza ed altro
Ove tenda il tuo dir, mostrami, o padre.
in preda al tuo dolor. Da Pirro il seppi.
sola, in poter di re nemico... Ah! Quando
fu più giusto dolor? Pirro i miei pianti
e le perdite mie, padre, tu sai.
da me scelto in tuo sposo e de’ tuoi primi
soavi affetti illustre oggetto, è morto.
Morto è Volusio e desolata io vivo.
Non si piangono, Sestia, i cittadini
a chi muor da roman fan torto a Roma.
Egli a vista del nostro e del nemico
in cui de l’armi e de le vesti adorno
Pirro ancor vive e ’l mio Volusio è morto.
non di dolor. Sia men di senso al danno,
Lunghi non saran forse i ceppi tuoi
né mancheran dopo Volusio ancora
sposi per te che sien per Roma eroi.
(Dispietata virtù che ne condanni
dove è tristezza a simular costanza,
fa’ il tuo poter. Piangerò sempre il caro
il cor non già, perché lo so spergiuro.
                                 Sestia? (A Turio)
                                                 Appunto quella. (A Bircenna che si ferma a guardar Sestia attentamente e poi a Turio si volge)
Se non l’amasse il re, direi che è bella.
(Si avanzano a turbar la mesta pace,
in cui solinga col mio duol ragiono).
Glaucilla, io tal mi appello, a la felice
Sestia del suo dover reca gli omaggi.
Se felice, o Glaucilla, e se superba
mi credi, in error sei. Me in stato abbietto
                                         Quella che intorno
fama di te risuona a lei pur giunse.
                                                Come ben finge! (A Turio)
Non dirai già così, quando i vassalli (A Sestia)
                                          Gloria di Roma
sarà che a te, sua cittadina e figlia,
di corona real splenda la chioma.
Eh! Si sa che fra poco andrai regina
de le tue ritrosie si sanno ancora.
L’arte di guadagnar l’alte fortune
L’intendo anch’io. Così sedotto è Pirro;
e Sestia occuperà ciò che è dovuto
a Bircenna, cui servo, a lei che è figlia
                                   Se la baldanza
di parlarmi così, ti vien, Glaucilla,
d’alma vil ti palesi e ancor maligna.
e insultar la miseria è un meritarla.
Se punto ha di virtù la tua Bircenna,
condannerà i tuoi sensi. Io non l’offesi.
né del suo trono. Ella se l’abbia e ’l goda.
Schiava qual sono, io non invidio a lei.
                                         Quell’alterezza
Pirro non è riamato. Ecco per lei
                                            Tutte ella dunque
contra Pirro infedel l’ire rivolga.
E le vendette ancor. Me la gran donna
contra Roma per voi, tal gli si pensa
                                  Ah! Tu non sai qual duro
Meno Roma or temiam. Ma quando ancora
altra in Turio ragion d’odio non fosse,
dal tuo bel labbro esca un comando; e a norma
                                             Tanto già m’ami?
Dal tuo sguardo primier vinto e conquiso.
Un facile amator non è costante.
Il vero amor nasce in un punto; e ’l breve
tra ’l mirar vago oggetto e ’l non amarlo,
è un torto a la beltà! Chi tosto l’ama,
meglio il poter ne riconosce e ’l merto.
Orsù, ti credo amante e lo gradisco;
ma salda fé n’esiggo e pronta aita.
Nulla tentar, s’io nol comando. A Pirro
moverò per Bircenna i primi assalti.
Di Turio alor cimenterò la fede.
Io vivo ancora, o dei quiriti; e vivo,
vostra mercé, perché corregga un fallo
Raggiugnerolla. Oh! Fra tue guardie i’ possa
qui sorprenderti ancor. Tremane, o Pirro,
e per Sestia e per Roma. In tua ruina
due furie ho al fianco e basteria una sola.
e sente e sa d’esser romano. Sestia,
In tua aita, in mia gloria, a miglior fato
custodi dei, Volusio han riserbato.
ch’io l’ire affreni e inosservato attenda). (Entra per una porta)
vedi, qui ha Pirro accolti ampi tesori.
Mancar possono amici, ove è ricchezza?
No, se al merito in seno ella si spande,
che gl’indegni arricchir non è da grande.
L’armi, che ho mosse da l’onor costretto,
non mi levan dal cor che i tuoi non brami
cittadini in amici e te più ch’altri,
per senno e per valor famoso e chiaro.
ingiustamente avara. Io de’ suoi torti
soffrir non vo’ che più t’aggravi il peso.
                     Attendi. In mia real grandezza
preme i migliori; e chi ha ’l poter di trarli
di miseria e nol fa, mal degli dei
i lor doni che in te? Tuoi sien questi ori,
tue queste gemme. Io non esiggo, offrendo,
servi e al dover. Non compro la tua fede.
regga la mia famiglia e la nutrichi
di parchi cibi in orticel raccolti,
di povertà mi turbò mai; né questa
mi fu inciampo a salir que’ gradi eccelsi
che al decoro convien de’ magistrati
e dei pubblici uffici, a le famiglie
non son di aggravio. Eburnee selle e fasci
e servi e saghi e toghe e quanto è d’uopo
Roma a noi somministra. Ella n’è madre
comun. Nostro è ’l suo erario. In lei siam ricchi.
Qual dunque a me da’ tuoi tesori e doni
comodo e pro, quando soverchi e vani
Accettandoli, o re, que’ perderei
che son veri tesori e beni miei.
Magnanimo Fabbricio, un tal ravviso
già m’obblio d’esser re. Del cor di Pirro
né ravvisar si sappia in tal destino,
se miglior fosti padre o cittadino.
E Sestia il sa? Sestia mi parla? E tace?
                                                         Buon padre.
non han sovra il mio cor dominio e possa.
non v’è bene per te, non v’è grandezza?
Tutto anzi oggetto di disprezzo e d’ira.
                                      Per valor feroce,
nemico a Roma e che con guerra ingiusta
Non mi posso doler d’atto scortese.
Cortesie di nemico insidie sono.
Onor non chiesto, io non potea vietarlo.
Che ti disser suoi sguardi in te sì attenti?
Coi suoi di rado s’incontraro i miei.
Pietà gl’interpretai data a’ miei mali.
                                                Taciuto
non ti avrei l’ardir suo, non il mio rischio.
Rischio ben lo chiamasti e l’hai vicino.
                                Pirro è tuo amante e t’offre
                                    Ahimè! E di tanta
sciagura mia nuncio si elegge un padre?
Vuoi miglior testimon di tua virtude?
Deh! Spaventa il suo amor col mio rifiuto.
Mal si irrita chi può quello che chiede.
Volusio estinto, un peggior mal v’è ancora
                  No, figlia, se avrai cor.
                                                            Mancarmi
se il cor potesse, non sarei tua figlia.
A che mi astrigni, dispietato onore! (Dà di mano ad uno stile ma senza snudarlo)
Rinnova pur, rinnova i prischi esempi.
Forte sia la tua man. Mi sarai padre
avessimo a temere un Appio in Pirro,
                                                       Il tuo ti resta.
Prendi. Un ferro a l’onor basta in difesa. (Lo dà a Sestia)
                       No. Spiacerebbe a Roma
liberarsi così di un tal nemico.
riparo a me da’ suoi mal nati amori?
Sestia, quello è mio acciar. Vibralo e mori.
padre, da te? Liberatore acciaro,
né di scorno ti fia passar dal pugno
del maggior de’ Romani a quel di donna,
la più infelice, sì, non la più vile.
E tu, amabil Volusio, ombra adorata,
e ben tosto vedrai con qual valore
ferro letal, nel regno opaco e cieco.
Ferro non giova a chi Volusio ha seco. (Volusio esce improvvisamente e, tolto di mano a Sestia lo stilo, frettoloso si parte)
Fu Volusio? Fu un’ombra? Il suon fu certo
quel fu degli occhi. Io l’ho nel cor. Ma l’armi,
son di nemico. Ah! Ch’egli è morto; e un’ombra
mi disarmò... Ma s’ei vivesse?... E s’anco
mossi alfine a pietà de’ pianti miei?
Torna la bella età. Tornan del prisco
gli aurei felici tempi, in cui non era
Tutto era pace, libertà, diletto.
Rancor non si sapea, guerra o sospetto. (Siegue di nuovo il ballo con accompagnamento di canto)
                                       E pur con legge
le condanna e le annulla. Ah! Sostenerle
d’onor sia impegno e di pietà, che in esse
più di Roma possenti e più di Pirro.
di Bircenna il destin. So ch’ella alfine
trono e talamo avrà. Regina e sposa
prenderà le tue parti. Il re qui in breve
                                         E che far pensi?
Rammentargli Bircenna e la sua fede.
Con l’amante di Sestia inutil sforzo.
Ciò ch’io possa, non sai. Lasciami.
                                                               E poi?
vengano alor dai miei gli affetti tuoi.
sposa di Pirro avrò disciolti i legni
per soffrir qui i miei torti e poi derisa?...
voglio o ’l tuo sangue. Non mi cal di rischio,
purché fugga vergogna. Eccolo. Al regio
manto il ravviso, al portamento altero
E le falangi e gli elefanti e tutto
                                  E visto avrai né forse
Qual fer senso a Fabbricio i tuoi tesori,
che hai qui tratte a perir. (Bircenna si avanza)
                                                 Gran re...
                                                                     Cinea, (La guarda e subito poi si volge a Cinea)
                            Ella è straniera. Ai panni
                                       Il cenno intesi. (A Pirro) (A pena
Come e quando finir tra Pirro e Roma (A Fabbricio)
                          Gli onesti patti adempi
ed io gli ulivi appresterò di pace.
(Pirro si obblia. Soffre Bircenna e tace).
                               Roma il poter mi diede
di espor, non di cambiar l’alte sue leggi.
Anco a lei piacerà che taccian l’armi,
che Pirro le sia amico e ch’io far degni
Disio t’inganna. Un’immutabil legge
vieta al popol quirin nozze straniere.
                                       Ma s’io... (Bircenna di nuovo si avanza)
                                                          Già attese (A Pirro)
oltre il dover chi di Bircenna in nome
Non m’ingannai. (Piano a Pirro)
                                  Qui grave affar di regno (A Bircenna)
                                            Come a te piace. (Si ritira come sopra)
(Per poco ancor soffre Bircenna e tace).
non cal né di sue leggi. Il tuo mi basta
                                                A chi gli è servo
                                  Né a suo talento (Fiero)
può dispor di sua preda un vincitore?
Un tiranno il potria. Pirro ha virtute.
E amore ancor che più di quello è forte. (Bircenna pur si avanza)
Sestia, che è spoglia mia, siami in consorte.
Sestia in consorte? Il grande affar di regno,
                                            Olà.
                                                       No, Pirro.
Tu obblii la fede. Io la ragion sostengo
segnasti e le hai giurate. Ella tua sposa
sciolse dal patrio lido. Atra procella
in queste la gittò spiagge, ove a pena
prender terra poté. Pochi salvarsi
de’ suoi. Quasi il naufragio invidia a tanti
miseri che perir, sì le dà pena
il saperti infedel. Pirro, che alfine
tu le renda ragion, sospira e chiede.
d’un rifiuto il tuo cor. Quell’alma fiera,
anche in mezzo al tuo campo, ai lauri tuoi,
sapria farti tremar. Furie di donna
esser ponno funeste anco agli eroi.
Per cieco e vano amor perder gli amici?
Tradir sé stesso? Ah! Quanto di tua gloria
duolmi e di tua virtù! D’esserne io stato
testimon, ne ho rossor. Che dirò a Roma
Elefanti e falangi in nostro danno
vengan pure, te duce. Ai gran trionfi
e ne appiana le vie. Tu vincer forte,
Seguili pur. Corri a vergogna e danno.
Quel Pirro, ch’io credea, no, più non sei.
Eh! Seguane che vuol; sien di Bircenna
sien del roman saggi i consigli, ho troppo
fisso nel core il fatal dardo. Astretto
                                                Cinea, che tosto
recar querele e minacciar vendette.
Io più mi guarderei da donna irata.
Parli a Sestia il mio core e ’l suo si ascolti.
Femmina per costume ama grandezza;
che potendo oltraggiar, porge un diadema.
Sestia è schiava. Io son re. M’ami o mi tema.
meglio a frenar torrei che i giovanili
caldi affetti di un re. Quanto diverso
Pirro è da sé! Fuor di sentier lo porta
che costar gli potrebbe, anche ottenuto,
onte, rimorsi, pentimenti e pene.
sugli occhi e ne sparì. Caro Volusio,
volgo il piè, giro il guardo, ah! dove sei?
                Signor, quel tuo sì fosco aspetto
Se non infausti, perigliosi. In breve
                         Penoso indugio!
                                                         Il soffri,
sinché Turio qui ascolti. Egli a me viene.
Non lunge intanto a questi muti orrori
de’ miei ragionerò miseri amori. (Ritirasi e va a passeggiar pel giardino)
Al legato roman Turio i suoi reca
                                                 Silenzio e fede.
                                      Quanto amor possa
di libertà, Roma al tuo cor lo dica.
Tema di servil giogo ardir ne diede
a pugnar contro voi. Vinti, non domi,
cercammo in Pirro un difensor. Ma Pirro
Patti obblia, cambia leggi, annulla riti;
e infin ne toglie sacrifici e numi.
Si corregga l’error. Roma ne accolga
sotto l’aquile sue. Per me ten porge
e onesta libertà. Merto a ottenerla
ne faccia il tor di vita il vostro, in Pirro,
Letal velen gli darà morte. È pronta
noi di pianto versammo e voi di sangue.
l’arbitrio del Senato. Egli è la mente
la fede, i voti e le promesse. Il nome
de le decurie e gli altri magistrati.
Tanto farem; né tua virtù concede
volgono in questo ciel! Qui fede in bando.
Qui giustizia in obblio. Scorgo anche inciampi
per l’istessa innocenza. Or m’odi, o figlia.
                      E che?
                                     Sotto nemiche spoglie
                                            Anche a’ miei lumi
                                                  Siasi qual voglia,
                                         Gli favellasti?
gli minacciai l’ire di Roma e mie.
                   Non più. Torni Volusio al Tebro.
Da te n’esca il comando e, s’ei ti opponga
tu assicura il suo amor; ma che coltivi
e gli dirai che basta un Muzio a Roma.
Teme il padre a ragion. Nel campo ostile
(Secondate i miei sforzi, o dei quiriti). (Da sé)
Qui Sestia. Ahimè! (In atto di partirsene)
                                      Tanto, Volusio, temi (Lo ferma)
l’aspetto mio? Tu me fuggir? Che debbo
non men che l’armi, hai ’l cor romano? Oh! Fossi,
                                Ti giudico e condanno,
                                            Pochi momenti
ti renderanno del tuo error più accorta.
Trarmi d’affanno or puoi. Dimmi che pensi.
In comun bene un memorabil colpo.
Deh! Se ancor m’ami e vuoi ch’io ’l creda, a parte
chiamami di tua gloria. Anch’io, Volusio,
le forti cose oprar posso e soffrirle.
Si compiaccia al tuo amor. V’ha chi ne ascolti? (Guarda intorno)
mi si lascia in custodia a la mia fede,
A Pirro? Ah! Tu ’l nomasti. In lui cadranno
né qui mi fuggirà, se a me non manco,
                                      Da l’opra audace
Da un fier nemico e da un tiranno amante
Su via. Pirro si uccida. E poi? Di pace
le belle rivedrem rive del Tebro?
darà l’armi a l’Epiro. Il roman sangue
misto col mio. Ma no, Volusio. Il meno,
che qui tema, è per me. Veggo il tuo rischio.
Veggo quello del padre. Or va’. Per cieca
cupidigia di gloria un colpo tenta
oltraggioso a la patria, a noi funesto.
tra gli Scevoli possa e i Deci eroi
la memoria eternar dei fasti tuoi.
Pirro ah! tu non rammenti? Altra a lui credi
                                 Un re che t’offre amante...
Oltre non dir. Già lo comprendo. Il fiero
fatto a la tua virtù, fatto a la mia.
                      Ei né lusinghe ha né minacce,
onde s’abbia a sedur nel cor di Sestia
il dover e l’amor. Tu riedi al Tebro.
E che? Vorrai tormi l’onor?...
                                                      Sì, il voglio.
Forte più ch’altro è la costanza mia.
Lascia che almeno spettator ne resti.
No. Tu il rischio di Sestia esser potresti.
(Amor di re parli una volta e vinca). (In lontano)
Veder Pirro e lasciarti? Io nol potei.
dolor, ne’ tuoi begli occhi, atre divise.
Senza grave cagion non sei sì mesta
e colui ne fu forse il nuncio infausto. (Mostrando Volusio)
signor. D’amara angoscia il cor sta oppresso.
fati non si opponean, sarei già sposa,
cadde da eroe. Ragion faceagli in dirlo
quell’uom guerrier che ne la pugna il vide.
E le dicea che su Megacle al pari
di feroce lion scagliarsi il vidi
di più nobil trionfo ornar sua fama.
                                             Ah! L’ho presente
troppo nel core e troppo, o dio!, negli occhi.
E troppo è fresca la memoria acerba.
Soffrirli con virtù mi fa conforto.
E rimedio, che affligga, accresce i mali.
Altra gloria è per te l’esser consorte
di chi vanta in retaggio impero e trono,
da l’idea che ne abbiam che da sé stessi.
                  Fa’ ch’egli taccia e a me si lasci
Eccoti il suo uccisore. (A Bircenna in lontano)
                                          Il cenno attenda. (A Turio. Turio e ’l soldato passano all’opposto viale, ponendosi quivi in agguato. Bircenna si va avanzando verso Pirro)
non mi oppor roman fasto e leggi austere.
d’un già sciolto imeneo. Vanti alta stirpe,
regal sangue, alma invitta, io non la curo.
Ella torni al suo Illirio. Ella...
                                                     Sì, Pirro,
                             Che? Non partisti?
Deh! Prendati, o signor, di te pietade,
la vergine real, da me l’ascolta...
Risparmiarle già puoi. Nozze fra l’armi
Cangi anch’ella il suo core e imiti il mio.
feci, o Pirro, per te. Rimanti pure
corrono i voti tuoi, vanno i tuoi sguardi.
Nulla di me ti cal, nulla di quella
per cui prego e minaccio. Addio. Al tuo fato,
Fra poco, o re, meglio saprai qual sono.
                                         Io lo difendo. (Bircenna nell’atto di partire dà il cenno al soldato di vibrare il colpo. Questi ubbidisce. Volusio, che vi sta attento, vi oppone a tempo lo scudo e salva Pirro)
non sempre al fianco il difensore avrai. (Parte)
Pirro, a ucciderti venni e ti salvai. (Parte)
(Il mio Volusio difensor di Pirro?
                                      Quanti ad un tempo
plebeo soldato? Eh! No. Meglio apro gli occhi.
«Pirro a ucciderti venni e ti salvai».
Salvarmi a un tempo e minacciar? Far quello
un può de’ miei macedoni. Dir questo
uno sol può de’ tuoi romani. Ah! Sestia,
Sestia, tu ’l sai. Tu ancora mi tradisci.
         Nol negar. Già ti condanna il volto.
Quegli era il tuo Volusio; e la mia morte
qui con lui consigliasti. O iniqua! O ingrata!
Dimmi ingrata, hai ragion, se è sconoscenza
il non poterti amar. Ma iniqua, a torto
mi chiami. È ver. Quegli è Volusio. Il trasse
qui amor ma ti difese e ti diè vita.
Per ritormela ei stesso. Egli l’onore
Al suo lo riserbava, a te il dovea.
Ma grazie al ciel rotta è la trama. Invano
A te riccondurrollo. Avrò, spietata,
con che farti tremar. L’alma disponi;
e non più t’ostinar che nol consente
l’amor di Pirro e ’l tuo destin presente.
per parer forte. Chi salvar da Pirro
                                          E tu con essi.
                                               E dove?
                                                                Al Tebro.
Ogni scampo n’è chiuso in terra ostile.
il favor meritar, n’apre la strada.
quello che te minaccia ultimo fato.
                                 Io morir posso.
                                                               E posso
vana è la mia pietà. Sestia, convienti
non ho il frutto de l’opra. Il cor di Pirro
e Glaucilla, cui servo, a me fia grata.
Sestia, ancor tu ripugni? Addio, crudele.
Vado incontro ai custodi e sfido morte.
Questo sia mio pensier. La via che guida
fuor de le mura è quella. Ivi ne segui
tu a lento passo per non dar sospetto.
Amor, vincesti. Il cor mi batte in petto. (Turio e Volusio partono)
Da la fuga di Sestia e del suo amante
                                           Parmi di udirne
                                           Ei che ne disse?
Parve turbarsi; mi lasciò; ma forse
                                        Quanto ti deggio!
tutta di Turio sia l’alta mercede.
Basta sì poco a lui? Non sì modesto
I voli de l’amor frena il rispetto.
Amor vuoi da Glaucilla? Amor ne avrai.
l’offerta di più regni; ed il mio amore
a poterti offerir non ha che un core.
                              Ciò che ne dicon tutti.
Gli audaci voti omai correggo e meglio
Tal sono, è vero. A la tua fede, o Turio,
il negarmi qual son farebbe oltraggio.
Ma troppo intanto divampar la fiamma
fer le dolci speranze, or sì infelici.
Sia in conforto al tuo duol che avrai costante
il favor di Bircenna e di Glaucilla
Sì, tra le ancelle mie la più diletta.
Beltà le ride in volto; e se ampia dote
essa l’ha da retaggio e da fortuna.
che s’intendano meglio i nostri cori.
Obblio le andate offese e de l’illustre
figlia di Glaucia onor già rendo al grado.
rendo al dover la fede? E poscia anch’io
onte e spergiuri obblio. Non vuol decoro,
non ragion, non amor ch’io rifiutata
Nel tuo giusto dolor veggo il mio torto.
Ma che far posso? Fu sorpreso il core
                                      Se co’ miei lumi
lo potessi mirar, vil nol diresti.
Qual mercé ne ottennesti? Ire e disprezzi.
Crescerà per contrasto il mio trionfo.
                                             Tua schiava? Eh! Pirro,
s’affrettino a cercarla entro di Roma.
                                         O dei! L’ingrata?...
Chi dato abbia a colei mano e consiglio
la tua vita e ’l tuo amor non sarà mai.
non potresti trovar regina e sposa
né di me più fedel né più amorosa.
i rimproveri e l’ire? Olà, custodi,
                                               Il tuo prevenni
regio voler. Per ogni parte intorno
creduta avresti? I doni miei l’ingrata
in mio danno ha rivolti. Ella è fuggita.
La figlia accusi e non condanni il padre?
                                    Fabbricio ancora?
Fuggir? Perché? Qui nol rendean sicuro
la ragion de le genti? Il grado? E Pirro?
Or va’; mi ostenta la virtù romana.
e Fabbricio a sé stesso, a Roma, a Pirro.
Né a te né a Roma né a sé stesso ei manca.
Torni la sconsigliata a quella sorte
il piè non le aggravasti; e in sua custodia
Se ne abusò. Degna è di pena; e l’abbia.
di ragion sovra lei l’armi ti danno,
non risparmiar. Lo soffrirà la figlia
del tuo poter. Quel che di più volesse
esiggerne la forza è contra il giusto,
contra il dover. Pur s’uopo il chiegga, il sappi,
Sestia, che ha roman petto e che è mia figlia,
fra morte e disonor non si consiglia.
Generoso Fabbricio, or ben m’avveggio...
Oprando con virtù, lodi non chieggio.
In sì funesto amor che più ostinarti?
Non anco ei giugne a disperar. Tu parti. (Cinea parte)
(Poiché lunge è ’l mio ben, nulla si tema). (Da sé)
mia prigioniera. Nol temevi e lieta
col tuo Volusio ti affrettavi al Tebro,
tra i gaudi tuoi, l’onte di Pirro e l’ire.
Ma t’ingannasti. Or qual discolpa, ingrata,
da quella fuga avrai che t’hanno aperta
di più cruccio e terror che i ceppi e i mali,
onde aggravar del mio servaggio il peso
potevi. Io ti vedea per desir vano
che al tuo fianco trovai, l’amore, il rischio
di lui t’hanno sedotta; e in fuggir seco,
Più che non pensi, a te servii. Già posso,
orché Volusio è salvo, osare e dirti
ciò che tratto dal cor mai non mi avrebbe
ne la pugna il suo error, qui dal suo braccio
non avresti sfuggita. Io lo ritenni;
né potendo al tuo amor render amore,
t’usai pietà per non parerti ingrata.
Ciò ch’ei fece in tuo pro, Pirro, il vedesti;
ei potesse tentar, Sestia il sapea.
per te, per lui. Gli consigliai la fuga.
Ma un gran ben non gli parve uscir di rischio
senza me. Vinse amor. Vinse pietade.
Se errai, caro è l’error. L’austero padre
ma Volusio ei mi salva, in cui ragione
non avean l’armi tue. Questo a me basta.
Non son nel peggior fato; e mi consola
che, costretta a soffrir, soffrirò sola.
                          Signor, quanto oggi devi
                                         Volusio?
                                                           O dei!
Sfortunato amor mio! Che fei? Che dissi? (Volusio viene fra guardie)
              Minaccia il volto e inerme è ’l braccio.
Per timor d’irritar, mi arretro e taccio. (Si ritira in disparte)
                                      Romano, o Pirro.
di che farti tremar. Megacle uccisi.
                                Mi fa tremar. (Da sé)
                                                           Non rendo
Ti faranno parlar ruote e flagelli.
Chi petto ha per morir, l’ha per tacere.
Sestia disse le trame. A che le taci?
Perché chieder a me ciò che già sai?
                                       E ti salvai.
Se il ciel non confondea gli empi disegni,
Tor del mondo i tiranni atto è da forte.
O d’anima romana eccelso pregio!
Cercar da un assassinio i suoi trionfi!
Li cercai nel conflitto; e grazie rendi
e che poi ti salvò, se in vita or sei.
In custodia dei re veglian gli dei.
Tu mi rinfacci una pietà non tua.
e di Sestia il tiranno in te ancor viva.
A me Sestia rammenti? Ella ti perde.
Tua morte io ritardai. Tu la mia affretta.
Verrà l’odio di Sestia in mia vendetta.
                                      Dillo costanza.
Morte e pena, sì, avrai che degna sia
de la tua audacia e de l’offesa mia.
                         Troppo il tuo duol sofferse.
Sestia, ti lascio in libertà di pianto.
Supplice a me verrà. (Piano a Cinea)
                                         Né pur d’un guardo
                    Che farò? (Da sé)
                                        Che cor protervo! (Piano a Cinea)
Vana pietà qui più t’arresta. Andiamo. (A Cinea)
Ahimè! Dove, o signor? Che far pretendi?
L’amor non meritai. L’odio non curo.
                                      Del mio ti calse?
Deh! Se vuoi che al tuo piè... (Volendo proseguire vede Fabbricio che la riguarda e le fa cenno)
                                                      Cinea, tel dissi (Piano a Cinea)
                                      Sta ancor pensosa. (Piano a Pirro)
L’amor mi sprona. Mi spaventa il padre. (Da sé)
Sestia, che ha roman petto e che è sua figlia,
avvilirsi non dee... Ma ’l mio Volusio?... (Guarda di nuovo il padre. Pirro e Cinea parlano sommesso)
                                                  Non viene ancora?
Va’ pur. Volusio e con lui Sestia mora. (A Pirro risoluta. Pirro guarda Cinea. Fabbricio fa applauso a Sestia. Sestia sta di nuovo pensosa)
                                     Figlia, in soccorso
e ne fui testimon. Con qual mia gioia,
                                             Ah! Questo, o padre,
ch’io ricevo da te, sarà l’estremo.
Giovane incauto! Io ’l salvo. È mio comando
e a me fidi il pensier della tua sorte;
e si perde egli stesso e vien qui a morte.
Tratto da quell’amor che non ha legge,
io feci il suo periglio. Ah! Sua difesa
sii tu. Placagli il re. Padre, tu ’l puoi.
Ciò ch’io possa non so; ma poco onore
sul rischio suo, non perché e’ sia tuo sposo
ma perché in lui v’è il cittadin romano.
Che non fa amor paterno? Odami Pirro. (Parte)
Fora miglior consiglio usar clemenza.
Sestia non la implorò. Da l’esser chieste
le grazie de’ regnanti acquistan pregio.
l’esercito disponi. Il campo tutto
chi a la vita di un re tenta gl’insulti.
Il facondo tuo dir, cui più conquiste
deggio che a l’armi mie, fra i suoi trionfi
non conterà quel del mio sdegno. Io voglio
che tremino una volta odio ed orgoglio. (Va a sedere al tavolino. Lo ascolta alquanto e poi scrive)
Il romano orator? Venga. Ei vien forse (Si leva)
                           Re, per suo fato avverso
Volusio è in tuo poter. Sia che ti giovi
crederlo delinquente o reo tel mostri
un certo audace giovanil trasporto,
non aspettar che in suo favor m’adopri.
S’ei n’è degno, abbia morte. Iniquo è al pari
chi protegge le colpe e chi le assolve.
devi pria bilanciar demerto e pena;
e non lasciar che da privato affetto
peso ai falli si aggiunga e nei gastighi,
più che severità, sdegno abbia parte.
e del regnar so le virtù e i doveri.
più popoli al tuo nome ed io con loro.
Ma l’amor proprio in certi casi un velo
                                           Come? Volusio
qui non venne a tentar, fino in mia stanza,
l’eccidio mio? La sola idea, ch’ei n’ebbe,
lieve colpa a te sembra? A tali eccessi
pena s’indugierà, per dar poi tempo
che a maturezza iniquità li tragga?
                                   Da l’altrui rabbia
Ei nol seppe negar né Sestia il tacque.
e del ben, che ti fece, obblio ti prenda.
                                        Basta. T’intendo.
Il geloso amor mio fa che in Volusio
il nemico mi finga e l’assassino.
la già data sentenza. Orsù, da questa
Si laceri il reo foglio; e tu, che solo (Straccia la sentenza)
la grand’alma spogliar puoi d’ogni affetto,
giudica tu Volusio. Io tel rimetto.
                                 Sì. Tu di Pirro
sostien le veci. Di un roman sul fato,
che il re di Epiro e non Fabbricio or sei.
Dura necessità! Ch’esser io deggia
in genero, anzi in figlio. E chi a tal legge
può costrignermi?... Chi?... Forse al protervo
fato, che il preme, esimerò il suo capo,
Anzi più affanno a lui, più scorno a Roma
fia che un barbaro re sotto la scure
in figura di reo. No. Non fia vero.
L’onta è comune. Mi dimandan questo
sacrificio funesto e patria e onore.
Di romana fortezza armati, o core.
Grazie agli dii. Grazie al buon padre. Il cielo
m’ebbe pietà. Tu dal furor di Pirro
                                            Onde il sapesti?
chiedi il tuo sposo. Ei ne ha l’arbitrio.
                                                                     Ah! Figlia.
Che? Tu sospiri? Il re m’avria delusa?
Purtroppo è ver. Da me il destin ne pende.
E pena l’amor tuo, quando mel rende?
Tu suocero di lui, tu padre mio...
                                          Deh! Qual dal labbro
Che mai fece il meschin? Qui non si tratta
o di sprezzate leggi o di negletta
militar disciplina. Il sol suo fallo
è aver pensato e non tentato un colpo,
per cui gli si dovria da te e da Roma
potrei; ma Pirro e non Fabbricio or sono.
                                  Né ingiusta fia,
te giudice, o signor, la morte mia.
di tutti gli odi miei barbaro oggetto;
col più placido core e col più forte,
incontrar mi vedrai supplicio e morte.
Morte e supplicio a te verrà; ma alora
che dal giudice tuo sarai convinto.
Lo so, il delitto, onde accusato io sono,
sta ne l’aver voluto uccider Pirro.
Nel conflitto era gloria e qui era colpa.
che il giudice di Pirro in me ti ascolta.
                                                Ah! No. Se m’ami,
abbi di Sestia, abbi di te pietade.
Giustifica te stesso. Arte supplisca,
                                       Che? Mi vorresti
vile così? Tu ancor ne avresti orrore.
ch’io per tema di pena il ver ti asconda.
il nemico e ’l rival. Due faci a l’ira
Il colpo, che impedii, non mi discolpi
e che s’ora potessi, io pur farei.
Per la patria e per te morendo, o sposa,
non mi posso pentir degli odi miei.
                                          L’ultimo? Ah! Padre.
E se al dolor non sai far petto, altrove
sul destino di lui piangi, se ’l vuoi.
fosse il giudice tuo. Potrei sperarlo
del carnefice tuo, del tuo tiranno.
del mio dolor perdo ragion. Perdessi
tutto usa il tuo rigor. Mal lo dividi.
Me ancor condanna, se Volusio uccidi.
la morte mia. Non accusarne il padre.
E fato e sposo e Pirro e Roma e padre,
tutto iniquo è per me, tutto spietato.
abbastanza arrossir de’ tuoi sospiri.
I tuoi ciechi desiri, onde vorresti
e me ingiusto e lui vil, dal core esiglia.
Vanne e sii meno amante o sii più figlia.
Qualche a l’amor, qualche fiacchezza al sesso
                               Qual da Pirro schermo
                                   Cara a lei sempre
                                      Abbia per Pirro
                                       L’avrà qual deve
che da forte cadesti e con la lode
Volusio, addio. Più che di Sestia il duolo,
mi strigne il cor la tua virtù. Te questa
accompagni a la tomba e fra’ tuoi vanti
alora avrai sin di Fabbricio i pianti.
Vivrà in Sestia il mio amor. Vivrà ne’ fasti
de’ romani trofei la mia memoria.
Che più bramar? Bello è ’l morir con gloria.
                                           E nulla il mosse
la sua amistà? Nulla di Sestia il pianto?
Pregio è d’alma romana a l’equitade
sacrificar figli, congiunti, amici.
Come? In Fabbricio il fier decreto è giusto?
                                            V’è gran divario,
sire, tra ’l dar consiglio e ’l porlo in opra.
Spesso s’insinua come onesto e retto
ciò che in sé si conosce iniquo e torto.
Taci; e lui vedi in suo pensier raccolto.
Del tranquillo suo cor fa fede il volto.
Volusio, o Pirro, il tuo giudicio assolvo.
far la pena eseguir? Giusto sarai.
segui quel calle, ove il gran cor ti chiama.
                         Che? Tu partir? Si rende
                                                  Roma mi attende.
Tarentini e Sanniti, ai prigionieri
nega cambio e riscatto e che a lui piace
ingiusta guerra più che onesta pace.
Oh! Se uom sì grande ognor potessi al fianco...
Qual io mi sia, tu non conosci appieno. (Fabbricio prende in mano una carta)
                  Non di nemici e non di amici
sei buon giudice, o re. T’inganni in tutti.
fai guerra ai buoni e nei malvagi hai fede.
Né pensar già che amor di te mi spinga
Quel vero amor, che in nobil petto alligna,
da me l’esigge. Onta farebbe a Roma,
saper le insidie e te soffrirne oppresso;
che, dando braccio a iniquità sì enormi,
ne mancasse valor per farti guerra.
O perfidia! O virtù! Vil Turio! Ingrato (Dopo aver letto)
Cinea, si vuol de la mia morte in prezzo
l’amicizia di Roma. A me si appresta,
letal bevanda. Inorridisci; e leggi. (Dà la carta a Cinea)
                 Fé non si serba ai traditori. (Verso Turio)
nemico ancor, che mai faresti amico?
L’onesto oprar di chi ben opra è ’l fine.
Mio re, sia tempo omai che generoso...
Sforzo, ah! quanto funesto al mio riposo!
                                                         O dio!
e per vincerla ancor petto ho che basta
e forze ancor. Sol tua virtù mi ha vinto.
te Volusio già assolto, a te lo dono.
E Sestia, a me ancor cara... Ah! Dir nol posso
col suo amante fedel segua il buon padre
e obblii di Pirro l’infelice amore.
In un barbaro re spirti sì eccelsi!
siami a cor la difesa; io gli abandono
a la loro viltade e al lor rimorso;
ma trar d’Italia il piede e da le tempia
strapparmi io stesso i già raccolti allori,
parria viltà. Guerra con Roma io voglio;
guerra d’onor, non d’odio; e un dì mi accolga
vincitore o anche vinto il Campidoglio.
Gran re, non dai trofei che ti dier l’armi
ma da quei che or ti dà l’anima eccelsa,
più dubbio Marte a sostener. Volusio,
Sestia, i cattivi, io più di tutti, al Tebro
e l’armi appresterem. Ma credi, o Pirro,
che, assai più che da guerra e da vittoria,
vien da pace a un buon re grandezza e gloria.
E nel comun contento io sola, io sola
che meglio spente sien del primo incendio
un amor l’altro incalza. Il mio vuol tempo.
Ma la mia fede e ’l tuo dover rammenta.
Regno, amor, guerra, pace e gli altri pregi,
per cui gloria si ottien, di più grandi alme
son l’oggetto e ’l piacer. Qual va per uno
titolo, qual per altro illustre e chiaro;
raccolte e sovraposte, armi e vessilli,
e del pubblico amor gli ossequi e i voti
i tuoi vanti, o signor; ma di chi m’ode,
l’ampia mole di lui l’occhio non vede
ma l’intelletto ne comprende il vero.

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