Or che presso al meriggio il sol più ferve
solleciti partiam; sarebbe adesso
fare un tormento d’un piacer,
che il mio l’è tuo voler.
Ma qual vegg’io (Si volta verso la collina)
sul vicin colle in così strano arnese
di cui leggemmo fino ad or con riso
corri a scoprirne il ver.
Pronto ubbidisco. (Parte)
ma poi che meglio osservo, alle già note (Osserva nuovamente don Chisciotte)
armi, all’aspetto, al portamento, agli atti
esser altri non può. Segni sì certi
Venga, vedrem se la descritta copia
al suo perfetto original risponde.
Ben mi volea meravigliar che tanto
star potesse don Alvaro lontano
dal fianco della bella Altisidora.
Ed io sorpresa fui da meraviglia
come star mi poté tanto d’appresso.
È quello che tradisce un vecchio amante;
sciorre un accento sol per me non puoi.
E pur non v’è chi più di me ti stimi.
Se la stima è disprezzo, intiera godo
non suol tenere amor; cuopre talvolta
col disprezzo la stima e il tempo solo...
È quello che tradisce un vecchio amante.
Laurindo, qual piacer la nuova caccia
fra le delizie sue questo non conta
E fra i signori suoi pochi ne addita
del tuo gran merto ancor.
caminano a gran passi e il cor del duca
a chi s’apre il sentier col proprio merto.
(Questa è favella di nascente amore;
ah gelosia crudel!) Con piena mano
piovette il cielo i doni suoi più rari.
Sono i doni del ciel semplici semi
col ben oprar non gli feconda in noi.
La duchessa qual è? (A Grullo)
Di lui non n’ho che far. (S’inginocchia alla duchessa) Signora mia...
(Sancio pian pian, signora mia l’è poco.
Signora mia, padrona obligatissima.
Così va ben). Padrona obligatissima,
s’io non le dico che son Sancio Panza,
già lei non lo saprà. Perché lo sappia
Ma parliamo più liscio e naturale;
a cavallo ed a piè, come comanda,
e la ragion... Parentesi, signora, (Si alza)
sia detto qui fra noi con confidenza,
questa mi pare un po’ d’impertinenza.
mi par che si diletti di burlare,
perché, mentre ti faccio l’ambasciata,
ride sotto cappotto a tutt’andare.
al signor Sancio ambasciador scudiero.
Così appunto hai da dir; ma i miei gattucci,
sorella, è un pezzo ch’hanno aperto gl’occhi;
né s’ha da mangiar cavolo con ciechi.
la seguirò se mi parrà, m’intendi?
E se mi rompi niente gli stivali
starò qui senza dire una parola.
mandato dall’errante cavaliero
il cavalier della figura trista
ed or si chiama quello de’ leoni,
però che tutti i cavalieri erranti,
si mutano più nomi che camicie.
altre duchesse ancor. Voglio dir io
più conosciuto assai della malerba.
col capo general de’ galeotti,
quel diavol che lavora di sassate
quello che dopo mi rubbò il mio Ruccio.
Un asino, signore, per servirla.
Or passando dall’asino al padrone,
Un giorno si trovò con mezz’orecchio
che un certo manigoldo biscaglino
con quell’elmo incantato di Mambrino.
Insomma il tuo signor che cosa vuole?
e non interrompiate Sancio Panza.
Lasciatelo pur dir, ch’egli ha ragione.
Suol dirsi: «Chi ha ragion, Giove l’ammazzi»;
consiste la ragione. Or come dico, (S’inginocchia di novo)
don Chisciotte per me ti fa sapere
che, se la tua grandezza gliel consente,
per baciarti la mano; e t’assicuro
ch’egli ti fa un favor particolare.
Inver, Sancio galante, hai bene esposta
tua nobile ambasciata; alzati ormai,
che non conviene a uno scudier sì degno
Alzati, amico, (Sancio s’alza)
e torna al tuo signor. Digli che questo
luogo non è dov’io ricever possa,
colla duchessa mia, cotanto onore
da un uom del merto suo. Di’ che l’attendo
nel castello vicino e che a sua voglia
di chi serve e comanda a un tempo istesso.
Gli dirò tutto fino ad un finocchio;
ma questo brutto nome di castello
che in un altro castello mi fu data;
ed in quella faccenda mi convenne
volare in aria, senz’aver le penne.
Tosto partiam; se don Chisciotte giugne,
al certo offrir non ci potea la sorte.
Secondo il genio lor, vo’ che si pasca
la folle idea che a vaneggiar gli guida.
Tu, don Alvaro, intanto il passo affretta
e nel castello il popolo previeni,
onde concorde il mio voler secondi.
lo conoscono ancor. Parti, che al fianco
presto anch’io ti sarò. (Parte)
il felice rival si resti in pace). (Parte lentamente, guardando sempre Altisidora)
Altisidora, inver questa è fierezza;
don Alvaro partì senza un tuo sguardo.
La credetti pietà; scemar tormento
risparmio di dolor, per lui che t’ama,
fiero martir si fa. L’estrema parte
della pupilla, immoto, in te raccolse;
senza prendere il sì dagli occhi tuoi,
se, forzato a partir, partir dovea.
Come, Laurindo! A sì fatal cimento
poni la tua virtù? Restar qui solo?
Che dovrà dir don Alvaro, per cui
tanto riguardo usar ti sei proposto
meno onesto per lui, di questa sorte
che in questo punto d’amistà la legge,
sempre sagra per te, da te si offende?
potria forse rapir dagli occhi tuoi
qualche piccolo sguardo inavvertito,
che imparasse il tuo cor qualche sospiro.
Non ho di che temer, s’io non ti miro.
oggetto da forzar le tue pupille,
Il tuo poter conosci e mi deridi.
Io deridere un uom ch’opra qual chiede
giusto dover? Ma non parria ch’io fossi
nemica di virtù? Che bella gloria
quando, già carco d’anni, il mondo intiero
andrà mostrando in te fra mille lodi
l’esempio raro d’amistà perfetta.
Lascia, crudel, di tormentarmi. Oh dio!
se il sospiro è d’amore, ecco perduta
quella gloria per te. Non tel diss’io
che della tua virtù troppo ti fidi?
Il tuo poter conosci e mi deridi.
Da sì austera virtù tuo cor dissente,
Crudele iniquo amor, perché non torni
a questo cor la libertà primiera?
e l’alma oppressa e in tanto foco accesa
l’antica pace di trovar dispera.
Crudele iniquo amor, perché non torni
a questo cor la libertà primiera?
Ma, signora Rodrigues, cosa fa?
La corte è già partita di tre ore.
Che vuoi far, Grullo mio, la vecchia età
Che? Si mette fra ’l numer delle vecchie?
Quando giuoca la donna al passatrenta,
se prudenza non ha di ceder loco
si diventa la favola d’ognuno.
(Qui bisogna grattare. Ha de’ denari
Stavo facendo i conti fra me stesso,
ch’ella passi trent’anni. Mi perdoni.
La faccia non gli mostra.
troppo è mancata da quattr’anni in poi
che Altisidora è capitata in corte.
Tu sai che ne’ disgusti non s’ingrassa.
La compatisco, povera signora.
è un diavol maledetto dell’inferno.
ch’io non ingolli de’ bocconi amari
per sua cagion. Si tratta ch’è maligna
ch’ancor io la conosco e tanto basta;
tutti quanti ci siam per un zampino.
Non fia mai ver che un cavalier sì degno
che Amadis già fondò. (S’inginocchia)
di cui molto mi duol. Sorgi.
m’avesse fino ai tenebrosi abissi,
d’aver veduto il tuo gentil sembiante.
altra bellezza di lodar disdice.
È vero, sì signor, ma la natura
che, se fa un vaso veramente bello,
può farne poco dopo in un momento
de’ belli come quello più di cento.
Sancio ha buon fondo e sto per dir che forse
alcuno mai de’ cavalieri erranti
scudiero ugual sortì. Le sue parole
in quella scabra, rozza, informe spoglia
per breve spazio, riposar con esse
faccia, signor, tuoi bellici pensieri.
Si adempia il tuo volere, a cui mi prostro;
se esempio abbiam tra i cavalieri erranti.
Per un momento sol, donna crudele,
arresta il passo e un infelice ascolta.
(Oh che noioso incontro! Or me ne scioglio).
di Laurindo mio? Presto rispondi?
Che quel titol di «tuo» nuovo mi giugne.
Come! Un uom, qual tu sei, di tanto lume
non ha capito ancor che un punto solo
fu quello che mi vinse, allor che il vidi?
Tra speranza e timor stetti perplesso.
Ma non ti par che veramente sia
L’error del labbro lo corresse il core.
un certo non so che, per cui mi piaci.
D’uopo sarà che a lui grazie ne renda.
e nol sapendo ancor grazie dispensa.
E non ti basta ancor d’avermi tolta
senza voler questo trionfo vano
ch’io mi distrugga al suon de’ tuoi sospiri?
Laurindo, è crudeltà; dovria bastarti
ch’ei ti cede il mio cor, benché ti ceda
cosa che sua non fu giammai.
che amor forza non vuol, sa che t’adoro,
È quella che già tengo e che giurata
E questa è l’amistà di cui ti vanti?
né ti chiamar l’ira di lui; se puoi,
nega per me di non sentire amore.
Altisidora col parlar confuso
luogo al dubbio lasciò. Vivi nel posto
che il suo favor ti dà; ma sappi intanto
che don Alvaro un cor serba nel petto,
cinto di tal virtù che ancora ingrato
ti vuol esser cortese a tuo dispetto. (Parte)
Laurindo, udisti? Cosa fai? Che pensi?
ingrato e mancator. La sua nemica,
che il fier tumulto del suo cor ben vede,
e la tua fé, come giurata fosse
per sicura la dà, mentre t’annoda
col guardo feritor la lingua e i sensi.
Laurindo, sogni? Cosa fai? Che pensi?
che don Chisciotte non ti veda.
De’ leoni al famoso cavaliero
l’armi deporre non facesti ancora?
Perduto il guardo nel di lui bel volto
(Dulcinea, non temere; ho il cor guernito
Signor, non vedi (S’inginocchia)
che ai piedi tuoi per implorar perdono...
Oh dio! Sorgi, che fai? Troppo disdice
l’idea del garbo e della gentilezza
in un atto simil vedersi avante.
Dammi l’onor che il militare usbergo
non son uso a deporre. Elmo e bracciali
da per me stesso gli torrò. (Sovrana,
incomparabil Dulcinea, se il fato
mi contende l’onor che la tua destra
porger mi possa aita, almen sei certa (In atto che si toglie l’elmo e i bracciali)
che ammetter non vogl’io destra profana).
Una più lieve spada almen permetti
maneggiare a tuo pro, di buona voglia
(Perdona, Dulcinea, l’è complimento).
O quanto questa spada è meno acuta
mi vibra in sen coi tuoi sereni sguardi.
il complimento andrebbe troppo avanti).
Signor, la mensa è pronta. (Al duca)
si porga da lavar. (Le damigelle porgono da lavar a don Chisciotte)
si stropicci ben ben, signor padrone;
le sue mani saranno quattro mesi
che l’acqua non san dir che cosa sia.
senno e prudenza. Lo scudiero sciocco
fa più sciocco il padron; basta, m’intendi.
Senno e poco parlar, Sancio da bene.
che per dire una cosa competente
ne dichi cento poi delle scipite.
Sancio, senno e prudenza tieni a mente.
Si aspetta sol vosignoria.
Son pronto. (Don Chisciotte corre precipitoso a tavola)
Siedi, siedi, signor. Quello è il tuo loco.
A te piace così, saria delitto (Seggono tutti unitamente)
mi dica un poco; gli scudieri erranti
hanno luogo distinto per mangiare
stanno a mangiar con tutta l’altra gente?
Sancio, senno e prudenza tieni a mente.
averà conquistato un qualche regno.
da governare a mia disposizione.
d’un’isola vacante che mi trovo,
governatore adesso ti dichiaro.
Mettiti, Sancio, inginocchion davanti
al signor duca; e per sì gran favore
baciagli i piè. Parla aggiustato, intendi?
Pensa che infin tu sei governatore.
che ha bene chi fa ben. Parlo in tal forma
per non dir troppo e mal.
il nostro buon governator novello
spedisco la faccenda. Con licenza.
Sancio governator, senno e prudenza. (Sancio e Grullo partono)
con pietra bianca può segnarsi.
sarebbe più felice e più sereno,
l’ambrosia a Giove e il nettare agli dei.
Signor, di sua bellezza adombra in parte
qualche più facil tratto.
Non bramar ciò, ben mio, ti pentiresti
del tropp’alto desire; e per vergogna
al comparir di lei ti asconderesti.
Ma dimmi, cavalier, quando mandasti
Sancio con un tuo foglio al tuo bel nume,
m’è noto pur che tal beltà non vide?
l’opra maligna de’ crudeli incanti.
Anch’io son giorni che la vidi e pure
tanto diversa la trovai che orrore
or mi fa tra me stesso il rammentarlo.
Frestone incantator vigliacco,
invidioso la sua faccia bella
in orribil cambiò. Le trecce bionde,
son corde da chitarra. Il grato odore
che traspirava dal suo piè leggiero,
per confortare i cavalieri erranti
or s’è fatta una cosa sì fetente
da far proprio venire un accidente.
Non vi dirò delle regali spoglie
di stelle trapuntate in campo azzurro,
in bel gruppo raccolte al molle fianco
davanti e sciolte maestose a tergo,
di vesti d’una succida villana,
perché in asina nera convertita
vidi perfino la sua bianca alfana.
Presto, signori, presto, al vicin bosco
v’è un orso di statura gigantesca
che manda fiamme dalla bocca; e gli urli
che mette son sì fieri e spaventosi
che si senton di qua. (Si alzano tutti dalla tavola)
è quel maligno mio persecutore.
avessi adesso l’incantato scudo
fece torre a Brunel da Bradamante...
ma non è troppo che ne feci dono
a un certo nuovo paladin di Francia.
Ti sieguo. (Partendo) Molto riderem. (Alla duchessa. Parte)
al principio risponde, ho gran timore
di potermi frenar. Si chiami Sancio
nel delicato lor vano puntiglio
n’han qualche spezie anch’essi e tu lo sai,
Ambi son folli ed io sono infelice.
dà una scappata all’isola vacante,
caro governo ce ne andiamo in fumo.
E via, non facciamo cirimonie.
Ubbidisco. Si suol dire (Si pongono a sedere)
che povertà non guasta gentilezza.
Or che siamo qui soli e niun ci sente,
voglio che il mio signor governatore
dice che Sancio non ha mai veduta
questa storia a sapere i fatti altrui?
Anzi dice di più che un certo foglio,
ch’ebbe in Sierra Morena dal padrone
Sancio non lo portò, perché rimase
Or come adunque egli ebbe tanto ardire
ingannando il padrone, e mensognero
tradir la fedeltà di buon scudiero?
risponderò con libertà; si dice:
«Chi l’ha fatta si guardi; e buona cura
che un disordin che nasca ne fa cento».
Sappiate adunque in primo et antimonio
che il signor don Chisciotte mio padrone,
spedito per le poste il suo cervello.
E di quel che lo serve cosa pensi?
Di grazia non saltiam di palo in frasca.
Stabilito che sia matto spacciato,
che in sé stesse non han capo né coda,
e questa cosa non la sa la storia,
ch’io gli feci pigliar per Dulcinea
una villana che incontrai per via;
ed egli se la bevve e la credette
convertita in villana per magia.
un scrupulo or mi vien. Se don Chisciotte
privo è di senno e Sancio lo conosce
e nonostante ancor lo serve e il siegue,
senza dubbio di lui sarà più matto;
e mal farebbe il mio signore adesso,
se l’isola ti dasse a governare,
quando non sai ben governar te stesso.
Perdinci, che lo scrupolo è venuto
con parto dritto e qui non v’è risposta.
son più matto di lui, questo è verissimo;
ma non saprei, non posso far di meno.
m’ha dato tre polledri; mi capite?
Son tutte cose... Vo’ dir io che il miele
si fa giusto leccar, perché l’è dolce.
Circa il governo poi me ne rimetto;
alla formica vil nacquero l’ale.
la promessa terrà; ma per tornare
al discorso primier, son ben sicura
che quel che si credeva ingannatore
Quella bifolca, che pigliar facesti
al tuo caro signor per Dulcinea,
era ella stessa; e per maligno incanto
orrida in volto e in così rozzo ammanto.
O diavol maledetto! O questa è bella!
Io lo credo d’avanzo. Questi maghi
sanno far di gran cose; e pur da prima
non ci credevo troppo, perché intende... (Incomincia a pigliar sonno)
Lo stesso incantatore, or son due giorni,
capitò nel castello e un pieno conto
Sì... Eh?... Dite, v’ascolto.
E ben, signora, v’è risposta alcuna?
Vorrei scrivere un verso a mia figliuola
con qualche buona nuova. Ti rammenta
che qui si tratta di promessa.
È vero. Incanti... Perché no... (Dormendo)
dove a seder tu sei. Quando si sveglia
nascose osserverem. Senti, Rodrigues,
potrebbe fargli ingiuria ed io non voglio.
D’altro non cerca, m’ubbidisci e taci. (Partono la duchessa e Altisidora)
tutto quel che si vuol; se avete un’ora
Dite, dite, signora, che v’ascolto.
lo so che i cortigiani tutti quanti
son macinati in un mulin da vento.
Non erano mulini, eran giganti.
ha da servir per guardia ad un villano,
che tal costui qui mi rassembra al volto?
Dite, dite, signora, che vi ascolto.
M’ascolti, villanaccio, e che ti pensi
Questo qui non è luogo da birbanti.
O ancora dormo o questi sono incanti.
Ed ebbe tanto cor di profferire
ch’io di lui mi scordassi e che a quest’occhi
Disumanato cor, Laurindo ingrato.
sciolse il perfido labro, udisti il suono
della barbara voce uscir tremante?
si cambiò, si confuse o trasse almeno,
represso per metà, qualche sospiro
contro sua voglia ancor? Dimmi, che fece?
Ei nominò don Alvaro più volte...
poi sciolse il crudo accento e in sulla faccia
gli vidi il disperato e non l’amante.
Ei nominò don Alvaro più volte?
Dunque sol per don Alvaro mi sdegna.
l’ingiuria del rifiuto...
vedesti il disperato e non l’amante.
Che pensi, Altisidora? E tu vorrai
e che non puote amor? Con quest’oltraggio
sua forza in me raddoppia.
nasconde il cor d’Altisidora in seno?
Ti sdegna, ti rifiuta e tu sì folle
lo scusi, lo difendi e ancor l’adori?
Ma se dipoi... Chi sa... Forse potria,
se don Alvaro è quel... No, che l’ingrato
non merita pietà. Troppo son folle.
Torna, Doralba, a quel crudel, nascondi
la smania del cor mio. Digli... Ma forse
a costo del suo duol... Saria viltade.
Digli ch’io l’odio pur, digli che sai
che il derisi finor ma non l’amai.
ben ci vedo il tuo cor; se quel crudele
renduto si saria di te più degno.
E che facesti, Altisidora? Come
frenar saprai l’innamorato sguardo
a fronte del crudel che ti tormenta?
non sospiri per te, ch’ei non condanni
la sconsigliata sua vana follia
ripieno di dolor? Barbare stelle!
iniquo, empio, crudel, tu solo, oh dio,
sei rapitor della mia pace e sei
la barbara cagion del dolor mio.
Signora, non temer; perché m’ascolti,
Ma tu non mi rispondi? In sul mio labro
perde i suoi pregi e non ti par più quello?
(Ancor vanta il trionfo).
un certo non so che, per cui fa d’uopo
che a Laurindo tuo grazie ne renda.
Mal nato cavalier, togliti adesso
chiedi la colpa tua; ma intanto aspetta
dall’odio mio la più crudel vendetta.
se reo son io del tuo dolor, discenda
la fiamma ultrice del gran Giove irato
e in faccia agli occhi tuoi venga percosso...
Ma giunge il duca, dispietate stelle!
Partir conviene e favellar non posso. (Parte)
Prova del braccio tuo, tolto dal busto
restami ancor, nel rammentar la forza
non merita stupore. Ah, se quell’orso...
Tuo smisurato ardir pose in spavento
non hai veduta ancor. Sancio, tu sai...
di chi mal vede entro di te raccolta
gl’Amadis, gli Splandiani e i Florismarti
e la bella virtù, più che l’invidia
pensa a tenerla ascosa e che l’offende,
più si palesa e tanto più risplende.
Laurindo ha presa feminile spoglia, (A parte alla duchessa)
incantator don Alvaro si finge,
ma questi nol ravviso. Olà, favella;
chi sei tu? Donde vieni? E chi ti manda?
qui mi manda a cercar di don Chisciotte.
la faccia satirina al grave suono
e da te stesso ravvisar nol sai?
Scusa, signore, ho tante cose in testa
ch’una ne dissi e cento ne pensai.
parla, t’ascolto con sicuro ciglio.
Quel che mi sforza co’ suoi tanti circoli
a pigliar corpo a un tempo e voce aerea
a te mi manda, cavalier terribile,
con ordine preciso impreteribile
che in questo luogo tu l’attenda immobile,
qual se tu fossi appunto una piramide.
Or or qui lo vedrai venir sollecito
con Dulcinea, ch’è la tua stella Fosforo,
perché a riguardo de’ tuoi tanti meriti
render la vuole d’ogni incanto libera
e vuol che torni nello stato pristino,
nel qual si trova già per privilegio,
con che l’essempio non trapassi ai posteri.
Questo è quel tanto che dovea concludere;
e dimmi presto quel ch’ho da rispondere.
Demone tutelar della mia bella,
l’inchina per mia parte e digli ch’io
a piè fermo l’attendo, già disposto
se l’opra mia fia d’uopo al disincanto,
e questi poi s’elegga o spada o lancia;
son sempre don Chisciotte della Mancia.
(Per Diana, la duchessa ha detto il vero).
Sancio è molto confuso. (A parte al duca)
ha che pensare anch’esso. (A parte alla duchessa)
incontri un tal piacer? (Anche a parte fra loro)
recan sempre con sé danno o periglio;
fia ben che tutti mi venghiate a tergo,
ch’io di tutti sarò scudo e difesa,
non perché in voi possa cader timore
ma perché basto solo a tanta impresa.
Dalle caverne affumicate e nere
famoso cavaliero de’ leoni,
mi porta la pietà ch’ho per costei,
che, ad onta ancor de’ miei temuti incanti,
l’ebbi sempre nemico ed or m’ha posto
fra i più infelici e disperati amanti.
sa meritarsi l’odio e non l’amore.
Taci, non sai qual possa abbia Merlino;
ch’or lo conosco ben, così favello.
ma l’è tempo perduto, parlo chiaro.
Mia Dulcinea, son fido. Don Merlino,
già tu sai tutto, intendi tutto, avanti.
qui ti condussi il sospirato bene;
ma i fati, ch’han di lui cura e pensiero,
ne destinar l’impresa al tuo scudiero.
Questa sarebbe bella; come a dire?
Sancio, felice te. Sentiamo il modo.
Lo dica il caposatiro Astarotte;
Sancio eseguisca e ascolti don Chisciotte.
Signore, questa pillola...
Potentissimo duca, un’infelice (S’inginocchia)
colle compagne sue chiede soccorso.
E taci, che giugni inopportuna.
Lascia che spieghi il doloroso accento.
Il numero è tremilacinquecento.
mio conforto, mio lume e mio riposo,
mia speranza, mio cor, dolce mia vita,
Basta, basta, mi sento venir meno,
voglio sperar che il tuo gentil scudiero
Taci, animal, se replicar ti sento...
Signore, son tremilacinquecento.
E ben? Se fosser centomila, tanto
l’hai da pigliar, son bagattelle, amico.
Le torrà, le torrà. Siegui, mio nume.
Poi che pietoso le torrà, già vedi
hanno l’antica forza in sé raccolta
per poterti obligar, pronto ad ogn’opra,
per mio voler quell’infelice ascolta.
Dolorida è il mio nome. Io son contessa
Son giusto trentacinque centinaia.
Il terzo lustro avea compiuto appena
che nella corte il mio destin mi trasse.
La corte è una gran scuola. Andiamo avanti.
Donna Magunzia, celebre regina
alla mia cura Antonomasia bella,
uom di matura età, gran siniscalco
senz’amarlo il soffriva. Indi a non poco
giunse d’Italia un cavalier privato...
era di corte o cavaliero errante?
in nodo d’amistà forte si strinse
E in quel libraccio non si fa defalco.
Agli occhi dell’infanta non dispiacque
nascoso amor già l’attendeva al varco.
Per derider, cred’io, quel folle amante,
Se lo dice Merlino, sarà vero.
mostrò il suo folle ardor la prima volta.
Tu l’istoria non sai; taci ed ascolta.
Questo è nuovo piacer; la lor favella
i conti non si fan tanto sicuri.
è l’orecchio che porgi a mio riguardo
all’afflitta matrona? Attendi ad essa
Oh dio... Dica, contessa.
Il cavalier vide il cimento appena
che donzella real raro si pone
a combattere un cor vile ed abietto,
se luce di dovere ha in sé raccolta.
Tu l’istoria non sai; taci ed ascolta.
Valoroso pugnò, vinse e il trionfo
al misero costò pianto e sospiri.
in questo lo tenea per mentitore.
Gliel disse, è ver, ma in quel medesmo istante
l’error del labro lo corresse il core.
Se lo dice Merlino, sarà vero.
che lo credea rival, d’ira si accese
e con prudenza la cuoprì da saggio.
Ma fin da quel momento si dispose
all’amico rival d’esser cortese.
Ma tu non sai l’istoria; ascolta e taci.
incantator, cugino di Magunzia,
portossi il cavalier. Nota gli fece
questa dolente istoria; e perché volle
dar prova di sua fé, d’esser mutato
L’incantator lo consolò ma insieme
la donzella converse in fiero drago,
in coccodrillo il siniscalco e a noi,
senza saper perché, le molli guancie
di quest’ispido pel ci ricoperse.
quel celebre campion; solo a quel forte (Accenna don Chisciotte)
riserba Malambrun l’audace impresa;
ch’alla grande opra si cimenta invano.
Dulcinea lo comanda; e tanto basta.
io servirò Dolorida barbuta
del numero tremilacinquecento.
Se non si può, ti accerto
che torni una villana come prima.
E spargerò le mie preghiere al vento?
Che non si fa defalco ti rammento.
Or si tronchi il garrir. Sancio, t’eleggi;
o tu perdi il governo o ti percuoti.
lo non ne posso più. Nume adorato,
ti svenerò l’iniquo. (Pone furiosamente la lancia in resta contro di Sancio)
Ah poveretto! (Spaventato)
Signor, me ne darò settantamila.
Poi non temer, che l’isola è sicura.
Viene con questo bacio... Dulci... Oh dio,
che strana metamorfosi è mai questa?
Sancio spergiuro. Ah, cara Dulcinea... (Corre furioso verso Sancio)
Che ferma? L’empio scelerato
giurò con labro pieno di mensogna.
ha cambiato in cavallo il mio tesoro;
l’hai da pagar. (A Sancio) Bucefalo adorato,
farò le tue vendette. (Vuol correr nuovamente e Laurindo lo trattiene)
almeno almeno fu cambiato in mirto;
ma la mia cara in un caval di legno
è cosa troppo dura. Ah Sancio infame,
il fido tuo scudier. Questo è il cavallo
che mandò Malambrun, come ti disse
t’ebbe pietà; non avea Sancio appena
dato fine al solenne giuramento
ch’ella a volo n’andò per far men grave
nell’atto del partire il tuo tormento.
un sospiro ardentissimo e poi subito
un bacio rispettoso all’aer vano
ma più degli altri i cavalieri erranti.
che tale è il nome del destrier; per aria
ei porteratti al regno di Candaia.
Ma dimmi, come regolar lo debbo?
Girando il ferro che si trova in fronte.
In groppa teco il tuo scudier ti prendi,
che senza lui non puoi tentar l’impresa.
Vieni, Sancio fedel, senno e coraggio.
che l’occhio fral nella region del foco
Sono a servirli. (Grullo gli benda ambidue)
Più cieco e folle ancor di lor tu sei. (A Laurindo)
Se tal non fossi, un traditor sarei. (Parte)
Giove vi regga in cielo, anime grandi. (In tempo che salgono a cavallo)
Mia signora duchessa, schiavo, schiavo.
Signor duca garbato, servitore.
Arrivati già siam. Grazie agli dei.
S’è fatto questo viaggio in un baleno. (Si sbendano)
Ma sparì Clavilegno e inoltre parmi
E viva il fior de’ cavalieri erranti.
Leggi il cartello, o valoroso, e mira
come ti prezzi Malambruno il saggio.
basta di don Chisciotte il sol coraggio».
Don Malambruno mi fa troppo onore.
gisti pel ciel, tornata al primo aspetto
da’ nostri occhi si tolse.
che supera fin quel del conte Orlando.
Perché nol sai mirar cogl’occhi miei,
ch’egli è un tiranno e il mentitor tu sei.
che amor forza non vuol, che già m’è noto
ch’egli t’adora, ch’egli è tuo, che tieni
la sua giurata fede e che lo debbo
io sono il falso, io sono il mentitore?
Per vincer quel crudel tutto t’infinsi;
con superbo rifiuto alfin rispose
per tuo consiglio, traditor.
è disposta per te. Chi mai t’offende?
vantar per mio consiglio?
d’aver mancato al mio dover? Non soffro
Caro mi fai costar ciò che ti devo.
del nome sei di cavalier, se pensi
che, per quel poco che mi devi, or voglia
sei tu, se credi che Laurindo possa
macchiare il proprio onore.
teco sostanze e cor? Laurindo, parti.
E reo mi debbo far, se reo non sono?
esser non gli vogl’io ma...
il vile e il mentitor fra noi qual sia.
lo spacci effetto reo del mio consiglio?
Io ciò non dissi; e questo braccio ancora
in altro luogo a sostenerlo è pronto.
Generoso ti fui; né ciò che feci,
benché costi al mio cor penoso affanno,
pentimento mi sveglia. Assai maggiore
del tuo si chiude in questo petto il core.
volle, per non mi tor d’ogni speranza,
con tal sospetto mitigar l’offesa.
la tua virtù per colpa; e ingiurioso
ti fui per sua cagione. Essa corregga
con altrettanto ardor pel tuo bel core
ti cedo all’amor suo. Rimanti avvinto
in così dolce nodo; e ver non fia
che il mio dover da tua virtù sia vinto.
L’opra degna è di te. Ceder bisogna
infine al tuo gran cor. Per me non sono
atto a trovar compenso a tanto dono.
come lampi da nubi, escono i beni.
in sì feroce cor tanta pietade?
sfogar potrà la lingua i suoi tormenti.
T’inganni, Altisidora. Il caro amico
a troppo costo suo cede a quel bene
che sospirar lo fa. Men generoso
ti ritorno al suo amore e non ti voglio.
Oh dio! Questo crudel non ebbe mai
per me punto d’amor. Crudo, inumano,
per tormentarmi con più forza, veste
la fierezza a virtù. L’avessi udito,
nel rinnuovare il barbaro rifiuto,
mandar dal petto un misero sospiro
per deridermi ancor; fiero tiranno,
Perché, barbaro, ingrato? Almen per poco
senti pietà, se tu non senti amore.
io lo vidi partir tinto di rabbia;
raro frenar si può. Ben sai che amore
anco a virtù non è, che due begl’occhi
fan violenza e la virtù si perde.
ma congiunta col ben. Poi il mal, che sorge
per nostra colpa, certa forza accoglie
in noi che quasi libertà ci lega,
ciechi ci rende e al buon camin ci toglie.
di dire al signor duca la faccenda.
Sotto promessa di future nozze
tolse a tua figlia assai miglior partito.
sedur lasciossi e pose in abbandono
un ben sicuro per un mal più certo.
dice che non ha data la parola
di pigliar sopra questo, se bisogna,
al tribunal qualunque giuramento.
T’assiston prove della fé giurata?
Signor, se quella matta spiritata
Ancora a me successe una tal cosa
perché quest’uominacci son demoni,
onde quando mi fece la promessa
volli presenti sette testimoni.
se non che quest’indegno la mariti.
Ma se l’è un uom cattivo, e perché vuoi
Ma la Giulia n’è tanto incapricciata
che, s’ella con costui non si marita,
io la vedo in due giorni seppellita.
mi è stato detto che si può forzare.
E di questa promessa che supponi,
che non direbbe una bugia giocosa,
se si pensasse diventar duchessa.
Oh, in quanto a poi, non fo per dir che sia
parto di questo seno, è una ragazza
che val proprio un Perù, savia, modesta;
del viso non ne parlo; ognun mi dice
che quella faccia sua così pienotta,
l’aveva anch’io, quand’era giovanotta.
Che si potrebbe far, per consolarla?
Un solo scampo vi ritrovo; e questo
d’affanno la torrà. Corri veloce
dal signor don Chisciotte. Ad esso esponi
questa disgrazia tua; poscia lo prega
d’esser lo scudo della gente oppressa,
a mantenere il coniugale impegno.
Ma adesso dormirà questo signore.
Non può dormir, che appunto il suo scudiero,
che questa notte parte pel governo,
e da lui si portò. Corri, che in tempo
toglie sopra di sé cotanto affare,
gran favor mi farà. L’iniquo intanto
che si arresti farò, perché non tenti
e campo aperto nel castello avranno.
Per non perder più tempo adesso vado.
Il ciel vi renda il bene che mi fate.
Materia è questa di novel piacere.
Quel che nel bosco oggi godemmo, ancora
riso mi desta e maraviglia insieme.
S’uniron tanti donchisciotti a un punto
distinguer non sapea l’originale.
Molto fu combattuta e molto grato
mi fu vederla in quell’impegno.
allorch’ha posta la servil catena,
pone l’amante in disperato affanno;
il dritto lume di ragion gli vela
e di mite signor divien tiranno.
Sancio amico e figliuol, varia è la sorte
quel che veste il mattin, spoglia la sera;
chi re si addormentò, servo si desta.
Or s’ella a suo piacer dona e ritoglie,
ti dia sempre timor questo suo dono
che l’è men tuo, quanto più tuo lo pensi.
ci hai da pensar ma non perché ti debba
tal cosa insuperbir, ch’ella ti venne
Un buon principio abbiam, se lo conosci,
A questa conoscenza unisci il senno,
che il senno sol rende fortuna stabile.
la nave, che ha buon vento, arriva al porto;
assai ben balla a chi fortuna suona;
e a chi la va seconda, sembra savio.
I soliti proverbi. In tua buonora
lascia star quest’inezie e attento ascolta
ciò che ti dice il tuo novel Catone,
dal procelloso mar dove t’ingolfi.
L’udirò senza manco rifiatare.
(Non l’intendo; ma so che dice bene).
Quest’altra è più farina pel mio sacco.
Queste son tutte cose belle e buone;
Perché legger non so, siccome
quanti governatori ci saranno
che, a dirla in fra di noi con confidenza,
di me ancor meno forse ne sapranno!
Quando parli del mal, pensa a te stesso;
quando parli del ben, pensa al compagno.
Chi ben pensa ben opra, dice il vero;
ma il grano non si dà senza la paglia
e Giove è solo in ciel senza difetto.
procurerò di fare il mio dovere.
Giustizia è il tuo dover.
Per me gli stracci non andranno all’aria,
che le borse e le some andran del pari.
«Caro mi vendi e giusto mi misura.
Non giudicar per legge né per carte,
se non ascolti l’una e l’altra parte».
Qualche altro proverbio, che son pochi.
Signor, se non mi posso trattenere;
ma non ne vo’ più dir da galantuomo.
con questi maledetti tuoi strambotti,
sciocco importuno. Or via, prendi e t’acheta.
Legger te gli farai sera e mattina;
e sappi ch’oltre a quelli che t’ho detto,
te n’ho segnati molti, acciò che impari
il necessario pel trattar civile.
Obligato gli son, signor padrone.
Ma sarà tempo ormai che la finisca
e che la lasci riposare in pace.
a baciare, uh, uh, uh, scopiar mi sento.
Animo, amico Sancio. Il molle pianto
(tenerezza mi fa) tosto rasciuga.
Non piango, non signore; m’è venuto
per accidente un poco di singozzo.
Gli domando perdono, uh, uh, di quanto
(Muover mi sento anch’io). Pel nuovo grado
umiliar tanto non ti devi. Sorgi.
Amadis non permise a Candalino,
quando all’isola ferma il mandò conte,
un atto così abietto; e fe’ lo stesso,
con il suo Casaballo, Galaorre.
Sorgi, ti dico, non intendi ancora
che il conte Candalino non lo fece?
Il conte Candalino mi perdoni,
o non avea l’amor di Sancio Panza.
il troppo affetto m’averia tradito.
Già s’è percosso trentacinque volte
a onor di Dulcinea. Che bella prova
d’intiera fedeltà! Me ne stupisco.
Mio signore e padron, la riverisco.
Questa è qualche fantasma o qualche fata.
Tempo notturno, un’ora stravagante...
Solo con sola... Vo’ dir io, son cose...
d’ascoltarmi di grazia. Il signor duca
Non ho che replicar; dica, l’ascolto
se sappia ch’io son dama.
Dunque s’accosti un passo. Colle dame
sta sempre la virtù. Parli.
una figliuola ch’è piuttosto bella.
Ne godo; ma per me sono impegnato.
No, signor, non si metta in apprensione,
ch’è impegnata ancor essa.
Ma non è altro che quell’uomo indegno,
che le ha promesso di sposarla, adesso
non vuol più mantener la sua parola;
e io vedo disperar la mia figliuola.
Il signor duca forse mi comanda
e la battaglia doverà seguire
qui nel castello adesso al nuovo giorno.
corrispondere a tanta gentilezza?
sono superflui e vani tutti quanti.
Questo è il dover de’ cavalieri erranti.
Che la vostra figliuola sarà sposa.
Ho già sentito questo cavalliero
Co’ suoi favori proprio m’ha sorpresa.
(Adesso è il tempo che bel bel qualcosa
questa promessa sua mi dà sospetto.
che senza sentir prima il suo scudiero
a ritrovarlo per sentir che dice.
Ma lo scudier parti già pel governo.
gli feci dopo il pranzo e in questo caso
Ma credi tu che non ci sia rimedio?
(Adesso te la ficco). Col danaro,
una misera doppia! È tempo perso.
Angelica si pose ad un balcone,
perch’Orlando vedesse sua bellezza,
quando in Albracca a singolar tenzone
fu col forte Agrican di Tartaria;
nel mentre pugnerò col falso amante,
grazia cotanta mi facesse anch’ella.
Aita, che son dentro in questa fossa.
Chi sei tu che domandi il mio soccorso?
tu non m’inganni. Sancio andò al governo.
gite di quel meschin; voleva il duca
il solo suo timor, non il suo danno.
che alfin si ritrovò. Porgiamgli aita. (A don Chisciotte)
Ferma, non ti fidare; in simil guisa
quel vecchio mago, che allevò Ruggiero,
deluse il fior de’ cavalieri erranti.
non profanar quel riverito nome
colla fetente lingua; il tergo tutto
già ti rivolgo e non ti ascolto.
gli porgerò ben io. Vieni.
è più che certo né costui lo teme.
Vi ringrazio dugentomila volte,
perché pel mio padron potea crepare.
Cosa t’avvenne mai? Stette in gran pena
con dugento grandissimi bastoni,
ne l’uscir dal castel con tutta forza
m’hanno dato il buon viaggio in sulle spalle.
L’asino mio fedel buona memoria,
è stato forse più di me percosso,
posta ha fra i piedi l’onorata testa
e m’ha precipitato dentro al fosso.
Ringrazia il ciel che, benché infranto e pesto
come tu sei, potea seguir di peggio.
Sia ringraziato il ciel ma non di questo.
Penso all’ingiuria delle bastonate,
che, se il nostro Merlino l’ha segnate,
i conti son saldati tutti quanti,
che bastan per trecento disincanti.
con quelle del prestato giuramento.
Solleciti partite. Impaziente
di quest’affare parlarem per via;
combatter debbo e il sole in ciel già splende.
proprio la tua disgrazia il cor mi tocca.
È morto quasi col mio nome in bocca.
sei forte ancor né la ragion ti vince?
Io penso al mio dover, d’altro non curo.
Se pensi al tuo dover, pensa a te stesso.
A me stesso pensai, quando ti resi,
grato, amor per amor, fede per fede;
né mi tentar di più. Se tu sapessi
questo dover quanto mi costa, oh dio.
Sol voglio ciò che debbo.
e, quando n’esce fuor, nel vizio cade.
Con questa infine, sol me stesso offendo.
Quel che nuoce a sé stesso e altrui non giova
è stoltezza seguir. Qual ne ricavo
da’ replicati tuoi vani rifiuti
profitto pel mio cor? Sei forse certo
che lasciato quel ben, per cui sospiri,
possa tosto quel ben donarmi amore?
Certo son io che non ti faccio offesa.
Tu rifiuti un mio dono, e un don che tanto
si accorda col tuo cor; lungi mi fai
da legge d’onestà; per te divengo
ingiusto in faccia al mondo; infin mi rendi
e ardisci dir dipoi che non m’offendi?
Don Alvaro, perdona un cor sincero;
è più ingegnoso il tuo parlar che vero.
Tanta virtù d’ira m’accende il seno;
vincer nol posso e superar dispero
ch’altro far più non so. Tutto ho tentato.
il duca che da te senta i suoi cenni.
Ti vidi dal castello in questo loco
e in questo loco a ritrovar ti venni.
di finger tutto per goder. Tu dunque
mostrar dovrai sotto d’un vel nascosa
la tradita donzella; e don Chisciotte,
darà grato piacere. Io poi sul campo
d’amante traditor farò figura.
La faresti miglior da appassionato.
Fatta un tempo l’avria ma non adesso.
Così non dice Altisidora offesa.
Quanto s’inganna mai. Se tu poc’anzi
m’avessi udito favellar col fiero
che ho pena del suo duol; ma poi non lodo
la scelta di Laurindo. Oh, quanto meglio
avria fatto a seguir l’antico impegno.
perché non senti amor; sì vivo affetto
nasce in noi senza noi; né può l’amante
scegliersi a suo voler l’amato oggetto.
dico sol quello che per me farei,
Intesi di parlar s’io fossi in quella
e, ciò supposto, il detto mio confermo.
per me la speme sua; dille che in breve
col sospirato ben sarà contenta.
Raffrena il pianto; agevol cosa parmi
non vagliono il mio Ruccio. Poverino.
Ma col dolerti nol ritorni in vita.
Povero Sancio mio, ti compatisco.
Che bestia di giudizio! M’intendeva
ch’era proprio una cosa da stordire;
e quando gli mettevo la cavezza,
volendomi mostrare il suo buon core,
cominciava a ragliar per tenerezza.
ho pensato ben bene all’accidente
che m’è successo; e con sì tristo augurio
non voglio governar. Quel che t’avviene
perché dice il proverbio che alle volte
e si compra con essa o lite o tigna.
più buon governator sortir potea.
Tal sembra in vista agnel che dentro è lupo;
che un uom cattivo, se buono è tenuto,
può far del mal che poi non gli è creduto.
con questi motti suoi parla da saggio.
Sotto la spoglia di pietà mentita
si nasconde talvolta un cor malvaggio
che tal giammai si crede, ond’è che, intento
termina un male col pensier di cento.
Ogni breve dimora, al valoroso
ch’è in atto di pugnar, divien tormento.
Marte all’armi rassembra, al volto Amore.
Più che mi tenti, tanto più resisto.
mi chiamo il cavaliero de’ leoni.
Ed io la calamita de’ bastoni.
della pugna fatal dichiara i patti;
la tradita donzella in alto ascenda,
prendano il campo i cavalieri e ognuno
dalle trombe guerriere il cenno attenda.
Se don Chisciotte vincerà, l’ignoto
guerrier sposar dovrà quest’infelice;
se cederà, che il giusto ciel non voglia,
costui dal noto impegno allor si scioglia.
Presto, che il cor di don Chisciotte freme.
giudice e spettator m’avrete insieme. (S’incamina il duca per salire nelle ringhiere, don Alvaro lo trattiene)
tu stesso... (A don Alvaro a parte)
Or or l’alta cagion saprai. (Al duca a parte)
A fronte posto di sì grand’eroe,
freddo timor le vene mi ricerca,
L’amico ha le budella in un paniere.
(Don Alvaro è il guerriero!)
tu per altro riserba il tuo coraggio
a dieci forti cavalieri erranti
che della nostra pugna al patto adempia.
Se la donzella non dissente, io pronto
fuor d’ogni scherzo le darò la fede
e colla fede il cor. Tu che rispondi?
dal falso il ver. Don Alvaro, che fai?
ciò che poc’anzi mi dicesti. (A Doralba)
questo nuovo viluppo non l’intendo).
I dieci cavalieri quanto stanno?
Taci e tue forze aduna; or or verranno.
Così venir potesse il mio somaro.
ch’a Doralba gentil porga la mano?
siete del vostro amore, amor vi stringa.
Sto in dubbio ancor se dica il vero o finga.
Togliti il velo dalla faccia bella,
che mia sposa or tu sei. Laurindo, adesso
ti trovi in libertà. Non venni a caso
armato in campo; il trasportato ardire
scusa, signore; (Al duca) o tu sposar dovrai
o alcun di noi qui lascerà la vita.
(Oh dio, che deggio far?)
e puoi pensar se questo cor, trafitto
nelle perdite sue trovi la pace.
Così bella virtù quanto mi piace.
che cosa sia dell’amistà la legge
e la bella onestà ciascuno impare.
Ed ecco del tormento la mercede.
E questa turba errante non si vede.
E questa turba errante non si vede.
Son giunti dieci cavalier terribili,
che le tralascio perché, a dirla schietta,
i cavalieri aspettano ed han fretta.
Vengano pur, che proveran se il braccio
d’un così grand’eroe sa ben punire;
e noi dall’alto gli vedrem perire.
Signor, si raccomandi a Dulcinea,
s’ella ne vuol uscire a salvamento,
Sarian poche per me, se fosser cento.
Comanda ch’io lo faccia, anderò sopra?
è figlia della vecchia e per incanto
ha la sembianza della mia signora.
E l’altro, che don Alvaro ti sembra,
Questi maghi son pur la gran canaglia. (Vengono i cavalieri condotti da Grullo)
E viva il fior de’ cavalieri erranti.
Ma che vedo! De’ secoli già scorsi
questi sono i guerrieri più famosi.
Orlando il primo viene ad assaltarmi.
Meno ciarle, signore, all’armi, all’armi.
Vuol dispiacere al conte Candalino.
Quest’altro è il forte Palmerin d’Uliva.
ed il celebratissimo Tancredi.
Sarian pochi per lei, se fosser cento.
che va unito al signor di Montalbano.
E viva il fior de’ cavalieri erranti.