Metrica: interrogazione
936 endecasillabi (recitativo) in I due dittatori Venezia, Pasquali, 1744 
prestò medica destra util soccorso,
trarrai libero il piè. Qui starti occulto
per te fora periglio e per me colpa.
Tratta con tal virtù Fabio i nimici?
Nulla posso temer tuo prigioniero.
Non, se qui fosse il dittator mio padre,
che le veci or ne tien, tutto si tema.
                 Che ti trattien? Che ti addolora?
Lasciar Velia tra voi, che in dolce nodo
Si consoli il tuo amor. Preda sì illustre
Ah, che il bel sen trafitto avrà nel cieco
furor della vittoria il vostro Marte.
del fier conflitto, ella da’ lidi insubri,
ove il suo genitor tien sede e regno,
giunse al vallo africano. Io n’ebbi il messo;
e amor spingeami a lei, non mai veduta;
ma nel fervor dell’anche incerta pugna,
onor mi astrinse a non lasciar vilmente
la mischia e i miei. Fo il mio dover. La sorte
Fuggono i Peni. Io con più piaghe in seno
                                  E di salvarti allora,
non di vincerti, Erminio, ebbi la gloria.
Cedo al destin. Mi rendo a Fabio. Intanto
nelle tende numide. Or di’ se a torto
piango il mio bene o prigioniero o morto.
A me lascia il pensier di trarne il vero.
Pietoso amico, in te riposo e spero.
Poco rimane al sacrifizio; e prima
che Minuzio e i tribuni escan del tempio,
tengan te l’ombre e le mie tende ascoso.
                                                     E tanto
per non vista beltà si affligge il core?
Da stima e da dover nasce anche amore.
Che si salvi il guerrier ligure prence,
gloria è di Fabio, util di Roma. In esso
toglier posso a Cartago un gran sostegno.
non sanno essere ingrate. Ersilia ancora
ma da amor la conquista io ne vorrei.
Un valor fortunato, un pronto ardire,
romani, ha vendicato il danno e l’onta
o dell’altrui lentezze. Il sì feroce
Annibale per noi non è più invitto.
(Di qual poca vittoria ei va superbo!)
Grazie agli dii, lode all’olimpio Giove
fur le vittime al cielo; e ne diè segno
nelle viscere monde e nella fiamma
D’altro e maggior trofeo lieti presagi.
del sangue ostil, quello ne bean che scorre
de’ prigioni nimici entro le vene.
il vincitore incrudelir non usa.
Di Annibale lo fa l’odio feroce
Altre leggi ha Cartago, altre ne ha Roma.
E Minuzio ha le sue. Reo fia di morte
chi deluda l’editto. Ite, o ministri. (Partono alquanti de’ romani soldati)
(Buon per Erminio mio, che il tenni ascoso).
della tua crudeltà. Son figlie e spose,
o s’altro vuoi, de’ miseri numidi,
queste che al piè ti scorgi, o fier romano.
Pari col sangue esse han la colpa e pari
Né me esenti al furor della tua legge
l’esser d’itala stirpe. Ho i ceppi stessi;
ho il lor sesso; ho il lor odio; e se più chiedi,
una giusta pietà per gl’infelici.
                                          Che core invitto!
favellarti sì ardita e generosa,
mossa è da sua virtù. Né di Cartago
né di Roma il destin l’ange o la preme.
Ma se conoscer vuoi dove tu possa
infierir con ragion, conosci Arisbe.
(Nota purtroppo è a questo cor).
                                                            Mi è patria
Cartago; il grande Asdrubale mi è padre;
e benché l’esser donna a me non lasci
trattar ferro letal, posso lusinghe,
sguardi, vezzi e cent’arti usar d’amore,
entrino gelosie, discordie e risse;
e lo farò; me ne lusingo. Il male
previeni. Il genio appaga; un cenno adempi
che noi ponga tra i forti e te fra gli empi.
che si stendano in voi, belle nimiche.
Osidio, è vaga Arisbe; occhio ha vivace. (Ad Osidio in disparte)
                                 Ma un certo esce dall’altra (Piano ad Osidio)
                          Che già t’incende e sface. (Piano a Minuzio)
Cupido ei fissa in te lo sguardo. Ersilia, (Piano a Velia)
temo di tua beltà l’usate prove.
Il tuo acquisto difendi e non soffrire (Piano a Quinto Fabio)
ch’io di peggior catena abbia a dolermi.
Sarà un tanto amator gloria di lei;
                                           Comun l’ha teco
Valerio ancor. Torni da Roma anch’egli;
e in faccia a lui del tuo trofeo sostieni
Né creder già che in sua difesa io parli
spinta da facil genio. Odio egualmente
e Valerio ed Osidio e quanto è Roma.
Ma pur deggio esser giusta; e tu, Minuzio,
giudica senza affetto e fuor d’inganno.
Ma in qualunque tu scelga, avrò un nimico;
e in qualunque mi ottenga, avrò un tiranno.
Dunque eterne in quel cor l’ire saranno?
Va’. Previeni il rival. Ma dura impresa (Ad Osidio)
hai tolto a superar. L’Africa tutta
Mia la fer l’armi e mia faralla amore.
                    Il so, di gloria e generoso. (Piano a Quinto Fabio)
Nato appena, il mio amor freme geloso.
Fabio non è sì mal gradito agli occhi,
quale il misero Osidio a quei di Arisbe.
Taci. Per te risponderò. (Piano a Quinto Fabio) Non entra
sconoscenza, o Minuzio, in cor gentile.
Ei nel punico vallo a me fu scudo
da insulti ed ire; e tal mi rese onore
che il vincitor non riconobbi e appena
Da un caro vincitor tutto si soffre.
Nobil cor non costrigne a sofferenze.
Ha le sue violenze anche il rispetto.
Sembra fosco ogni lume ad occhio infermo.
Il troppo confidar tragge a periglio.
Qual periglio t’infingi in chi ha virtude?
Vi son cimenti, ove virtù si obblia.
Un più lungo tacer viltà saria. (A Velia)
                               Ersilia, i tuoi begli occhi
già del tuo vincitor t’han vendicata.
Sei l’interprete tu del cor di Fabio?
                                               Ceppi sì illustri
e forse invidia a chi gl’insulta.
                                                        E in Roma
che n’è l’alta speranza? Amante il figlio
d’un dittator che nel pensier rivolge
le non anche tentate eccelse imprese?
Che direbbe il gran padre in rivederti
vanamente avvilito? Ah, si risparmi
alla canizie sua tanto cordoglio
ed alla gloria tua tanto rossore.
In cor romano è debolezza amore.
Ogni altro che Minuzio esser l’austero
censor dovria de’ giovanili affetti.
Saprei soffrirli in altro tempo. Or tutti
                                           Ov’uopo il chiese,
le mancò mai di Fabio il zelo e l’opra?
Nobil destrier, pria di toccar la meta,
non divertisce il corso. Ersilia è tua.
Giusta mercé che si riserba al prode,
non gli si toglie. Io ne sarò il custode.
Tu suo custode? E qual ragion?...
                                                             Tribuno,
non trasportarti oltre il dover. Né verga
manca qui né littor. Vanne e ubbidisci.
che in deposito tieni ancor per poco.
Verrà il tuo punitore e ti faranno
colpevoli trofei. Ti lascio, Ersilia;
All’altrui tirannia questo almen deggio
ha parlato il mio amor. Forse più audace
                        Ma non più fortunato.
Minuzio intenda e Fabio è vendicato.
Il duol, che ti si sparge, Ersilia, in fronte,
Serva al primo signor, sapea qual fosse
Men gentil mi paventi o meno amante?
Gentilezza sperar da chi usa forza?
Mi valsi del poter, da te costretto.
In tua discolpa, e che fec’io?
                                                     Piacermi.
D’innocente cagion malvagio effetto.
E rendermi geloso, allor che amante.
A bugiardo timor rimedio iniquo.
Puoi tu negar che in Fabio ancor non arda?
Dir puoi tu che in Ersilia arda egual foco?
Nel suo partir mel disse il tuo dolore.
Prova fu d’amicizia e parve amore.
È disposta l’amante in cor di amica.
Minuzio, esci d’error. Posso per Fabio
ma un più forte dover mi vieta amarlo.
Mi consoli ad un punto e mi tormenti.
Temerò, cercherò dunque il rivale
vantar ponno trofei sul cor d’Ersilia.
E se libero l’hai, sta in tuo potere
Rendimi a Fabio. Ottieni la mia stima;
e l’onesta mercé poi spera e chiedi.
                                             Tu non mi credi.
la più difficil prova. Al tuo ritorna...
(quanto il farla, ahi, mi costa!) afflitto amante.
                                        Alma ben nata
a un amor, che ben serve, è sempre grata.
Nel giro d’un sol giorno esser mai ponno
giunsi a quel vallo, u’ sposa pria che amante,
invece d’imeneo fra rose e canti,
mi si affacciano orrori e stragi e ceppi!
Senza nulla saper d’Erminio mio,
se pur mio posso dir chi ancor non vidi,
a mentir l’esser mio. Ma schiava e sola
qual difesa qui avrò da insidia e forza?
Quale? Il mio onor, la mia fortezza. Erminio,
nome, quantunque ignoto, a me pur caro,
né altra forza farà ch’io tua non sia.
Quel fosco ciglio, quel tacer pensoso
Al nostro dittator s’alzi, o soldati,
il militar suggesto e gli si appresti
la curul sella. Il vidi, Fabio. (I soldati romani apparecchiano il tribunale, ove dovrà ascendere e sedere il dittatore)
                                                    Appena
mi volse un guardo, mi degnò di brevi
parole. In lui non riconobbi il padre.
E n’hai ragion. Chiamar codardo e vile
il cauto dittator, fra le coorti
È soggetto chi impera alle loquaci
dicerie di chi serve. Ognun si crede
di aver più senno; e non riflette quanto
sia periglioso il provocar chi ha in mano
Né questo forse è il suo più grave eccesso.
Pugnò in onta al comando; e la negletta
disciplina tu sai se importi a Roma
rinnovarsi vedrem que’ scempi atroci
della feroce austerità primiera?
Roma in oggi è più umana; e i Giuni, i Manli
Non han luogo in mio cor volgari affetti.
Mi offese, è ver; pur sua salvezza io bramo;
e in suo scampo mi udrai far voti al padre.
In Minuzio, anche reo, perder un tanto
guerrier parrebbe invidia; e chi del fiero
Annibale l’audacia in parte ha doma,
ha l’amor dell’esercito e di Roma. (Osidio entra nel padiglione del dittatore)
Romani, il dittator. (Suonano timpani e trombe e i soldati si pongono in ordinanza)
                                      Duci, soldati,
                                             Contra il divieto?
Fu colpevol l’ardir ma fortunato.
giacciono, quai nel campo e quai nel vallo.
E con lor quattromila anche de’ nostri.
Se così vince Roma, ella è perduta.
In me avanza il timor. Tu resta, o Fabio,
e cerca di placare il padre irato. (Si parte)
Se di ciò, che ti offende, a parte io sia,
creder lo puoi, non men signor che padre.
Lo vuol sangue e ragion. Son figlio e servo.
Ma di servo e di figlio al zelo ancora
                                    E che puoi dirmi?
pensi il reo vincitor, l’odio avrai tutto
                      E a nol punir, ne avrò il disprezzo.
Che puoi tentar, se de’ soldati all’uopo
                                           E se il rispetto,
                              Ripiglieranno i Peni
L’ozio nostro finor fu de’ trionfi
Lo stanchiam col fuggirlo. Ei nulla cerca,
                     Pervertì l’util consiglio;
me in dispregio porria, Roma in periglio.
Piega il feroce cor. (In lontano a Minuzio)
                                    Ch’io scenda a’ prieghi? (In lontano ad Osidio)
sia in faccia al dittator Minuzio invitto. (Si avanza)
(Crescerà per audacia il suo delitto).
Massimo, dittator, che là t’assidi
a giudicarmi e a condannarmi, ho vinto.
Vanto il mio error; non lo discolpo. Verghe
vengano e scuri; eccoti dorso e capo.
Nella tua dittatura acciar romano
da quel d’un cittadino; e Roma intenda
che né tu vincer vuoi né che altri vinca.
Chiuditi pur nel vallo; occupa pure
l’erto de’ monti. Se sconfitto il Peno
non fia dagli ozi tuoi, s’arso e distrutto
grida invano alzerà l’ausonio suolo,
basterà a’ fasti tuoi Minuzio solo.
Chi già del dittator sprezzò la legge,
strano non è ch’ora n’insulti il grado.
s’apre facile il varco a cor superbo.
Tu vanti i tuoi trofei ma rei d’impero
Pena al tuo error si deve; e tal l’avrai
che farà sbigottir la tua alterezza.
All’ossequio in mancar fosti spergiuro
né, sapendo ubbidir, demeritasti
Scingiti e sago e brando e l’armi e tutti
della milizia gli ornamenti. Il nome
tuo si cancelli. Esci del campo. A Roma
le tue vittorie, i miei riposi infama;
delle ignominie mie l’alta tua fama.
Pallido, sbigottito e fiso a terra
da sé poc’anzi minaccioso, invitto.
Facciasi; e il banditor legga l’editto. (Sale il banditore su la tribuna e riceve dalle mani del dittatore l’editto; ma nell’atto del leggerlo, sopravviene Valerio, seguito da ventiquattro littori, e tiene in mano altro decreto del popolo romano)
del popolo roman qui non ha luogo.
Che fia? Valerio, altri littori al campo? (Levandosi)
Altro impero che il mio? Non è più Fabio
                            Il dittator tu sei.
Ma leggi. (Dà il plebiscito a Fabio Massimo)
                    (Ah, duran anco i rischi miei).
«I tribuni del popolo romano. (Legge in piedi)
Tra Massimo sia pari e tra Minuzio
grado, titolo, impero. Ambo la guerra
Abbia i fasci ciascuno, abbia i littori».
Dei! La patria vuol perdersi. (Siede pensoso)
                                                      La patria
riconosce il valor. Fabio era ingiusto.
                            Al genitor tal onta?
(Massimo, è tempo d’usar senno ed arte.
                                          Olà, un curule
                                    Vieni, o Minuzio, e prendi
gli auspizi del comando, ove l’altrui
aspro, ma retto, a giudicarti ascese. (Vien portata per Minuzio altra sedia curule ed egli vi si asside a canto di Fabio Massimo)
Varian così d’umana sorte i giri.
Il passato si obblii. Quello, che a fronte
non che un lungo consiglio, un ozio breve.
A tuo piacer. La via proponi e il modo.
Uno o più giorni alternamente in Fabio
sia il sovrano comando; e per eguale
servirò alle tue leggi. A me diviso
legioni. Partiscansi egualmente.
Due tu ne reggi, io due. Ne’ tuoi consigli
né di onor né di biasmo aver vo’ parte.
Piacemi; e il nome lor, chiuso nell’urna,
commesso è il tribunato, ah, si assicuri
L’approveran gli dii, se giusto è il voto. (Vien recata l’urna, ove si pongono i nomi delle quattro legioni, due de’ quali n’estrae Fabio Massimo e due Minuzio. Intanto Quinto Fabio dice tra sé)
In me, Osidio, in me, Fabio, il duce avrete.
                         È indifferente, o figlio, (Levandosi e fa Minuzio lo stesso)
a chi ben sa ubbidir, l’un duce o l’altro.
E so a valor dar ricompensa anch’io.
(Da un tal rival, che sperar puoi, cor mio?) (Si parte; e i due dittatori scendono dal suggesto)
Un buon imperator guidar si lascia
da mente e da ragion, non da fortuna.
Lodo cautela anch’io, non timidezza.
                                         E Roma e il campo
                                           Ingiuria al saggio
non fan garrule voci; e l’alte imprese
guasta temerità, matura il tempo.
Ma che dirai, quand’io di nuovi allori
Spesso, a chi assai presume, onta succede.
Osidio, a che sì ratto a me t’involi?
Del dittator segue il tribuno i passi.
O più tosto ad Arisbe amor ti chiama.
Arisbe è una crudel. Guai per chi l’ama.
Un lontano rival ti fu opportuno.
Basta ad esserle in odio esser romano.
                                         E fui mal visto.
                                            Ne avrai ripulse.
La più schifa beltà fa degli amanti
lascia quel, sprezza questo, un poi ne sceglie.
Tu non conosci ancor l’alma africana.
Ti preme spaventar gli affetti miei.
Vedi. Ella è Arisbe; e tu roman pur sei.
sa da Osidio e dagli altri. A te si volle (A Valerio)
Tu non eri nel campo. Io la difesi.
                        Nol so negar; né il festi
ma per sparger tra noi discordie e risse;
e, Minuzio presente, Arisbe il disse. (A Valerio)
Mi fu giusta però, se non amante. (Ad Osidio)
In faccia al campo io non dovea tal dirmi. (A Valerio)
                                            Ami il rivale?
Per qual merto maggior? Volevi affetto?
Ossequio? Fedeltà? Da me l’avesti.
È ver; ma agli occhi miei tu non piacesti.
                                                 Ingiusta sei.
è tenuta ad amar ciascun che l’ami?
Perché più degno sei? Se tal ti credi
mal giudichi di te, peggio degli altri.
Ma sia anche ver; nel tribunal d’amore
ma il cor. Chi piace più sempre è il migliore.
non tanto insuperbir. Di me sprezzato,
tu più misero sei, perché ingannato.
S’ei rival non mi fosse, andrian già sparsi
                                           Vorresti
ch’io credessi al rival, più che ad Arisbe?
Ma la punica fede è ognor sospetta.
In anima gentil non entra inganno.
D’Asdrubale son figlia e in odio ho Roma.
O diverso dal cor parlò il tuo labbro
o nell’odio comun me non confondi.
Forse torna in mio pro ch’io ti lusinghi.
Durerà con l’inganno il mio piacere;
e godrò poi del tuo col disinganno.
Non ti credea sì generoso; e sento
che si avanzano in me que’ primi impulsi
si fida in me, più non saprei tradire.
Mi sarai caro; e per amarti appieno
di vincer studierò le ripugnanze
col desio facilmente s’accompagna.
                                           E qual?
                                                            Vedermi
Nell’amistà del dittator confido;
                                     Se il dittatore
t’è ingiusto, hai spada al fianco e ardir nel core.
quasi potria... Che dir vorresti, Arisbe?
Se Valerio è romano, abbia egli ancora
con tutto l’odio mio tutto il mio scherno.
anche la sua virtù. Nel roman campo
faccia i mali che può la scaltra Arisbe.
difendermi saprò da quel rimorso
Un deluso nimico è sempre lode.
(Arder più chiari rai non vidi ancora).
(Leggiadria e nobiltà spiran que’ lumi).
(Ma la mia Velia, oh dio! sorte mi ha tolta).
(Ma il mio Erminio è lontano e non m’ascolta).
All’impulso del cor, bella, perdona.
Di saper l’esser tuo sento vaghezza.
Egual brama al tuo aspetto in me si accese.
Nera pietra segnò tutti i miei giorni.
Sempre anch’io fui bersaglio a ria fortuna.
Sinor pari è il destin. Tua patria è Roma?
Se romano tu sei, taccio e sospiro.
Prigionier son di Fabio in questo campo.
Son di Fabio il tribuno anch’io conquista.
D’Ersilia al nome sospirar l’intesi.
                                                       Io quella.
E nol potendo amar, per lui ne ho pena.
                                          Tanta ti prendi
cura di lui che prigioniero e in rischio
                          Già, sua mercé, nel campo
numidico sarei; ma sì non m’ange
quanto il saper se qui cattiva o estinta
(Torna il palpito al cor). Deh, fa’ ch’io sappia
                                       Fasce reali
                                 Tu Erminio?.. Oh dio!
                                     Appunto. E donde
a te di mie fortune è giunto il grido?
                                           Toglimi, ah, tosto
dal maggior mal. Viv’ella? Ha teco anch’ella
(Quanto bello e fedel trovo il mio sposo!
Ma scopriremci? Or non è tempo. Ad ambo
Tu non rispondi; e il tuo tacer crudele
forse mi dice più che non vorresti.
Datti pace. Ella vive; e l’incertezza
della tua sorte è il suo più grave affanno.
Dal generoso Fabio accetta il dono
della tua libertà. Guai se ti trova
del fier Minuzio, or dittator, l’editto.
Riedi al punico vallo. Ivi il tuo amore
e certo sii che quando Velia il primo
guardo a te volgerà, tutta amorosa,
eccoti la tua amante e la tua sposa».
E da me esempio di pietade apprendi.
Erminio, a’ tuoi ritorna e alla tua Velia
che nel punico vallo è forse in pena
                                   Ersilia?
                                                    E più sicuro
attender nol potea che dal mio labbro.
Or t’affretta a partir, che sempre innanti
mi sta il fiero littor. Questi due fidi
soldati miei ti scorteranno al campo.
Ricordati di me. Siati anche cara
Roma per me. Dammi un amplesso e il prendi.
e per questo, che cingo, acciar, né quella
né mai questo alzerò contro di Roma;
serberò tua memoria, infinché duri
questa, ch’è dono tuo, vita; e se mai
potrò usarne in tuo pro, l’avrò più cara.
Coppia sì rara unqua non vide il sole.
può d’Erminio aver loco appo il tuo core,
sii più giusta al mio Fabio. Ama il suo amore.
non mi è dato dispor. Velia ne ha il pieno
                  E se d’amarlo ella t’impone?
                     Fabio, al tuo cor da’ pace.
Lusingarmi non so d’un tanto bene.
T’assicuri mia fede. Ersilia avrai.
Tu prometti al suo amor quel che non sai.
Ben collocato è il benefizio, o Fabio,
che per alma crudel langue e sospira.
Così vuol la mia sorte e ne ho tormento
                                           E pur, se Velia...
Un giorno intenderai del vano impegno
Non so perder ancor tutta la speme
che tu giusta mi sia; né per ripulse
dal fier Minuzio. Egli verrà col fasto
della sua dittatura a nuovi oltraggi.
Altra difesa da un tiranno amante
nel campo avrai del dittator mio padre.
di tua virtù. Rendimi a’ miei.
                                                       Crudele!
Anche fuggirmi? Anche il piacer ch’io perda
Per lontananza salderà tua piaga.
Lascia ch’io più disperi o più m’avvezzi
a sì crudo per me rimedio estremo.
                                      Fabio è ancor teco.
                                                                          Io temo.
Non vi turbi il mio aspetto. Io qui non vengo
tratto da quell’ardor, di cui mi resta
La dittatura, a cui m’alzaro i voti
m’inspirano altri affetti, altri pensieri
che sien degni di me, di lei, di tutti.
vittoria ottieni assai maggior d’ogni altra.
                                                 A te, ornamento
della patrizia gioventù, crescente
speranza e lume del latino impero.
desti d’alto valor, fan che al tuo braccio
utile affidi e necessaria impresa.
né incontro temo né fatica fuggo.
                             Del vicin colle il giogo
spedito ad occupar, pria che il Numida
sopra vi spieghi i barbari vessilli.
Ei già l’armi vi spinge. Il prevenirlo
ne assicura da assalti e da sorprese
e a lui chiude i soccorsi e vieta i paschi.
M’è gloria il cenno e tronco i vani indugi.
Sì indiscreto non son che ti divieti
prender dalla tua Ersilia un breve addio.
Già il cor lo prese. Or servo al dover mio.
Senza torne un addio? Fabio non t’ama.
Dover d’amor da quel di gloria è vinto.
la maggior gloria sua l’amor d’Ersilia.
di sublimi trofei splenda il mio nome,
non perché a me dia vanto e da me il prenda
l’eccelso onor, di cui mi adorna il Tebro,
a te parla il mio cor ma perché t’ama.
Come? Da quell’ardor, di cui ti resta
sì ti lasci abbagliar? Ciò non attende
la dittatura, a cui t’alzaro i voti
perché abbia ad illustrar le tue conquiste
una misera schiava. Ah, dittatore,
quegli affetti ripiglia e quei pensieri
che sien degni di te, di lei, di tutti.
Sii men saggia e più grata. A te non venni
ma prezzo di favor, cambio d’affetto.
Qual lo promisi, io tel concedo, onesto.
                                       A un amator non basta.
                                            Può, purché voglia.
Non ripugna al dover legge d’amore.
Roman, tu non conosci a cui favelli.
A un’ingrata, lo so; ma tu obbliasti
di atterrirmi col suon. Più lieve impresa
a te Annibale fia che il cor d’Ersilia.
Risparmiami d’usar forza e potere.
Son ritornati oggi i Tarquini a Roma?
Che chieggo alfin? Poco ti costa un guardo,
Chi vuol tutto negar nulla conceda.
                                  Più senno, o duce.
                               In me ragion non hai.
                          In tal miseria io non gli esigo.
Mira al tuo piede... (Nell’atto di piegare un ginocchio, si ferma alla voce di Quinto Fabio che sopravviene)
                                      Ah, dittator! Che fai?
D’una schiava beltà s’abbassa al piede
il dittator di Roma? Usa più tosto
nel supremo poter, di cui t’abusi,
crudel, non vil, talché non passi in altri
l’obbrobrio, onde la spargi, e in te finisca.
serviro anche gl’indugi alla tua gloria.
Or se onesto ti sembra, allor che a rischi
per te m’espongo e per te colgo allori,
toglimi Ersilia, insidiami una giusta
in cor romano è debolezza amore. (Si parte)
Scuotiti dal letargo, in cui t’han posta
e svegliati a vendetta, alma feroce.
di Minuzio le leggi! Oh, se a Cartago
militar disciplina illustri esempi!
Non cadder tutti, e ben ne godo, all’ara
della tua crudeltà quegl’infelici
i cui ceppi bagnai d’inutil pianto.
della Liguria il forte prence, Erminio.
Erminio, dopo Annibale, il più fero
                                                       Oh cieli!
                                     Un generoso
cor più del tuo, Fabio il tribuno.
                                                           Arisbe
giurò sparger tra noi discordie e risse.
Ma l’odio mio non ha bugie sul labbro.
Fabio, omai trema. Col poter già s’arma
Alla vendetta mia darò i pretesti
Cadrà un rivale e piangerà un’ingrata.
Colpì al segno lo stral. Gittati ho i semi
del civil odio. Vedrò in breve armarsi
forse Annibale ancor tanto non fece.
Se sollecito meno o se men forte
era Fabio il tribun, dall’erto colle
già ne sovrasteria l’oste nimica.
Ma qual ei ne riporta aspra mercede!
                                        Il dittator Minuzio
lo condanna a morir sotto i littori.
                                                         Occulto
il prigionier ligure Erminio ei tenne
e gli diè scampo e trasgredì l’editto.
Onde ne giunse al dittator l’avviso?
Da chi meno il vorresti o meno il pensi,
                     Oh per noi tutti infausta spoglia!
con cui sta cor sì fiero, ho già risolto.
Sciorrò anch’io col tuo esempio il ferreo laccio.
                                   Minuzio ha imposto
che, s’ei voglia a lui dar l’ultimo amplesso,
né littor né soldato, o sia per tema
ch’egli possa usar forza o sia che all’uno
Non so veder riparo all’infelice,
se un’amica pietà non gli è in soccorso.
Perché rival, più condannato è Fabio
che perché reo. Dare il poter supremo
a gioventude, che in balia si lascia
di sregolati affetti, è un por la spada
in mano ad uom, cui furor pazzo invada.
Vado, Osidio, a morir. Né il Fabio nome
né la canizie e dignità del padre
né i merti miei, nel giudice feroce
                                        Sperar mi giova
che te il pubblico lutto e te del padre
                                             Eh, troppo importa
                                       Mira. Qui ’l tragge
la tua sciagura. Io vo a Minuzio. (Si parte)
                                                            Ah, temo
più l’ire sue che tutti i mali miei.
In figura di reo Fabio? Poc’anzi
Padre e signor, tanto non è mia colpa,
quanto ingiustizia altrui la mia sventura.
Uso è de’ rei dire i giudizi iniqui
Dimmi; nostro nimico e prigioniero
                                    No; ma Minuzio...
e tu, in onta di lui, salvasti Erminio.
lasciar sotto il littor capo sì illustre.
E vi sottentra il tuo. La pena è giusta.
Feci, in Erminio salvo, amici a Roma
Crescano a lei nimici; e duri intatto
Te dittator, mai non si vide al cenno
tuo la vittoria incrudelir ne’ vinti.
ma l’ossequio è servil. S’io data avessi
fosse questa da te, l’esser mio figlio
                                Poiché sì giusta
cedo, o gran padre, e mi condanno io stesso.
parlò a te il dittator, parli ora il padre.
Figlio, non venni ad aggravar tua sorte
morivi e da romano. Oh, fossi prima
sotto barbaro acciar morto pugnando!
andasse in schiera anche il tuo nome. Il primo
il cui sangue berran verghe e mannaie.
col magnanimo cor, con cui vivesti,
te seguirà la pubblica pietade,
                              La tua mi basta, o padre.
e se a questo tuo dono altro ne aggiungi...
                                             Al tuo piede
cada ella stessa, o dittator. Dall’onte
di un ingiusto poter tu la proteggi.
Agli occhi di Minuzio io bella parvi
e facile conquista. A me fu scudo
mia virtude e il tuo figlio. Ecco il suo fallo.
Ecco la sua condanna. Or perdo in esso
quanto avea. Senza lui nulla a me resta
                                       Già intesi, Ersilia, (Sollevandola)
che de’ tuoi rischi a me ben giunse il grido.
Nulla temer. Nelle mie tende asilo
sicuro avrai. Custodirò in te un pegno
degli affetti di Fabio, a me fidati.
Padre, or moro tranquillo e assolvo i fati.
di sì vil morte. Dittator, del nostro
tanta togliendo dal patrizio sangue
vergogna e pena. Accoglieranlo amiche
le tue coorti; e là, se tanto ardisce,
                                                     Romani,
che a tal prezzo egli viva? Aquile opporsi
per lui vedremo ad aquile? Aste ad aste?
E farem sì che de’ nostri odi armato
degli avi vostri l’onorato esempio
che alla patria donar sé stessi e i figli.
Di funesta virtù fieri consigli!
preghi non troveran del dittatore
pietà non sia tradito il grado eccelso.
Non soffrirlo, o signor. La dittatura,
vide Roma al suo piede e n’ebbe gloria,
non si prostri ella stessa e n’abbia scorno.
Lasciami al mio destin; ma resti illesa
tua dignità. Tanto non val mia vita.
degno più del mio amor, quando ti perdo!
e tua virtude al mio dover non pensi.
mi restan poche; altre alla patria ed altre
ne debbo al padre; e tu non poca parte
e l’estrema ne avrai. Se d’una sola
lagrima tu mi onori, assai già ottenni.
Serba ad altro più degno e più felice
i tuoi teneri affetti. Al caro Erminio
con la sua Velia gli anni. Anzi ch’io parta,
                               Così i miei mali
addio. Ricorda al padre Ersilia mia;
le sia in custodia e libertà le renda.
Ho stretto il core da pietà e da doglia. (Si parte)
Nulla per te fec’io, tu per me tanto.
Core, alma, vita, escimi tutta in pianto.
Se un’alma per amar due cori avesse,
uno a te ne darei, fedele amante.
Ma il sol, ch’io chiudo in petto, è del mio sposo.
Tu mia pietà, tu mia memoria avrai;
e avrò forse anche duol, ch’io non t’amai.
I suoi preghi ei mi porga; o il figlio mora.
D’un padre dittator l’aspetto solo
non è prego per te che già ti vinca?
Chi vuol grazie impetrar si umili e chiegga.
Al suo grado sconviene un vil ricorso.
E al mio un facil perdon. Vanne e l’incontra. (Osidio si parte)
Al Senato si scriva. È buon consiglio (S’accolta al tavolino)
gli animi prevenir. Ne’ gravi casi
sono in noi quai nel cielo i primi raggi
che dileguano l’ombre, aprendo il giorno. (Scrive ma stando in piedi)
foglio suo non è quello, ove de’ Fabi
egli laceri il nome e l’opre accusi.
Vedi, o signor... (Avanzando verso Minuzio)
                                Qui a me il gran Fabio? (Lascia di scrivere e gli va incontro)
                                                                             Il padre
viene, o Minuzio, al giudice del figlio. (Osidio si ritira in disparte)
Duolmene la cagion, duolmi il reo caso;
mi sia tolto il poter dall’altrui colpa.
Colpa da un dittator già condannata
non dà luogo a perdono. Io qui non venni
tratto da vana speme a pro d’un figlio.
che a me ubbidivi e dittator non eri,
e legge tal che fa più ingiuria a Roma
                                                    Amor di padre
ti acceca sì che non conosci il peso
del grave error. Disubbidire al duce,
più dì nel roman campo un fier nimico
                           Fabio, che il commise, (Minuzio scrive)
reo più che i Giuni e più che i Manli...
                                                                      In Manlio (Rivolgendosi con un poco d’impeto)
protetto era il trascorso, al par del mio,
da un valor fortunato; e pur non valse.
Dall’esempio di voi trarsi a ruina (Minuzio torna a scrivere)
potea la disciplina; ma da un atto
A gran ragion, tra l’arse case e ville, (Rivolgendosi più adagio)
quelle de’ Fabi Annibale rispetta.
                                              Io già al Senato,
e tuo giudice e mio, scrissi in quel foglio
la legge offesa, il salvo Erminio e quanto
sia di ragion che il trasgressor ne mora.
E dopo tutto, ponvi Ersilia ancora;
lei sì che, più di Erminio e dell’editto,
fa di Fabio la pena e fa il delitto.
né Minuzio l’obblii. Tu questo forse
lusingandoti d’altro in tua fortuna.
anche per me avvilisca? Eh, ch’oggi assai
d’onta ella n’ebbe; e dittator, tu il sai.
Signor, ne avrai, se insisti, e biasmo e danno.
                                  Uom d’alto affar dal campo
ostil te chiede; e par che cose arrechi
                                       (Spesso contrasta
forza a ragion per sostener decoro).
Eccelso dittator, non ha ristretti
virtù in petto romano i suoi confini.
Vi son anime ancor ch’oltre alle vostre
pregiansi d’esser forti e generose.
Fabio, dal suo gran cor mosso, ad Erminio
diè vita e libertade. Atto sì illustre
lo condanna a morir. Se lo soffrisse,
e sconoscente e vil. Tu a un tratto assolvi
l’un dal supplizio e l’altro dall’infamia.
Erminio per l’altrui t’offre il suo capo.
Questo si accetterà. Ma Erminio è lunge;
e la legge oggi il reo chiede alla pena.
Qui con falsa virtù non si ricerca
Erminio a te si affretta; e quegli io sono.
Serba a noi Fabio e un cittadino a Roma.
di magnanimo cor venisti, o Erminio.
L’atto ti onora e te ne applaudo. Usarti
non posso altra pietà che quella stessa
che tu mi chiedi. Vivrà Fabio. Il prezzo
                      Fabio a me venga.
                                                         Il lieto
annunzio di sua vita ei da me intenda. (Si parte)
E il supplizio non suo qui a me si renda.
Soldati, altrove al cenno il custodite.
                                                     Il preservarlo
Seco mi lascia; e ad osservar dal colle
va’ se Annibale ardisca altro cimento.
Il valor di Minuzio è suo spavento. (Si parte)
vostra Ersilia esser può...) Fabio, sa il cielo
se mi dolea che dal dover costretto
fossi all’aspro comando, ond’era tolto
tal figlio a’ Fabi e tal guerriero a Roma.
Grazie agli dii, che a’ pubblici, a’ miei voti
render ti posso alfine. Onta e rimorso
han tratto Erminio alla sua pena; e l’abbia.
mi avrò sempre a doler delle tue leggi,
s’anche i favori tuoi mi son funesti?
Donarmi vita e tormi Erminio? Oh quanto
meno spietate eran per me le scuri!
Degno che tu il compianga è il fido amico.
Compiangerlo che val? Lascia ch’io il salvi.
                                Col capo mio? Son pronto.
Men crudel sacrifizio a te si chiede.
                 Ersilia tua cedi al mio amore. (Entra Velia)
non mi resta ragion in lei che chiedi.
Io giva a morte e libertà le diedi.
Ersilia è in suo poter. Può di sé stessa
dispor. Si assolva Erminio; e, Fabio, il soffri,
Ersilia sia del dittator conquista.
                                       Che ascolto! Ersilia,
per me sì poco? E per Erminio tanto?
Per me sol brevi lagrime? E per lui
Ma no, dove trascorro? Avrò dolore
La tua bella pietà già mi soccorre,
quando ancor mi tradisce. Anch’io vi assento
e dell’ingiusto mio dolor mi pento.
                                  Omai si disinganni
in te la speme, (A Minuzio) in te la tema. (A Quinto Fabio) Allora
ch’Ersilia si promette al dittatore,
Velia son io, sposa d’Erminio e figlia
di chi impera agl’Insubri. Eranvi noti
or ne intendete anche gli affetti e i voti.
Tu, Fabio, or veder puoi da qual dovere
ti era tolto un amor, di cui per altro
saresti degno; e tu, Minuzio, or vedi
s’io né men lusingar possa il tuo affetto.
abbiti ancor la mia. Se ti par giusto,
incrudelisci a tuo piacer. Puoi farlo.
Or che libera io son, mercé di questo
guerriero amante eroe, temer non posso
che voglian le tue leggi esser crudeli
a due non ree, non vili alme fedeli.
Qual mi si sveglia in sen fiero contrasto!
Son sì sorpreso da stupor che appena...
dell’esercito ostil spingonsi al colle
armate ad occuparlo; e se più tardi...
Tosto all’armi. Raccolgansi all’insegne
Risolverò dopo il trionfo, o Velia,
e d’Erminio e di te. Lauri del Tebro,
ceder, me duce, oggi Cartago a Roma.
Quanti mali da Arisbe! E ch’io più l’ami?
beltà, fa’ quanto puoi dentro il mio core;
già spaventato n’è fuggito amore.
Tosto a me le coorti, a me i tribuni
dal vallo. (Partono due soldati, entrando nel vallo) Oh mal già preveduto! E come
vittoria, egli lasciò l’erto del colle
ed avanzò troppo animoso addosso
a quei che ne scendean dispersi e vinti,
dalle cave del sasso, ove nascosti
escono gli Africani e d’ogni lato
ne chiudono le vie, talché né core
Sciagura irreparabile a noi tutti!
che piagato di stral mi vide il braccio
ed inetto alla pugna, a te son corso... (Cominciano a uscir dal vallo le legioni di Fabio Massimo)
rimanti alla custodia. Andiam, romani.
Minuzio e che per Roma ha tanto zelo,
Per troppo esporsi defraudò fortuna
le vaste idee de’ suoi consigli. È tempo
strappiamo la vittoria; e trarrem poi
a Minuzio il rossor de’ falli suoi. (Suonano le trombe e vanno pian piano e con ordinanza incamminandosi a piè del colle le truppe, divise in due ale)
Ben di virtù romana ha pieno il petto.
Il suo temporeggiar ripara i danni
E viltà si credea la sua lentezza.
Tregua a sue lodi. Ecco la nostra Arisbe.
La nostra? Eh, dilla tua; sciolti ne ho i lacci.
Io rallentati i miei, se non infranti.
Quei son d’Arisbe i due rivali amanti. (A Velia in disparte)
Deh m’impetra da lor ch’io vegga Erminio. (Avanzandosi)
                                                 E a quel di Velia...
                            E ottenerlo. (Dà ordine ad un soldato)
                                                    E a quel d’Arisbe?
Più difficili prove ella ne esiga.
alziam braccio rubello, anche pretenda.
                                    Oh, lo potessi!
                                            Di me non curi;
dispetto mi sanò dopo i suoi sprezzi.
nell’incostanza tua. Trovo in Valerio...
Cara a Valerio esser non può la fiera
Se non mente il lor dir, nuove conquiste
cerchisi, o bella Arisbe, il tuo sembiante.
A giovane beltà non manca amante.
Velia, se alcun dolor turba mia pace,
l’ho dal veder per mia cagion te mesta
Chi creduto l’avria? Ch’ei fuor de’ ceppi
ad esporsi venisse a certa morte.
Sua virtù così volle o pur mia sorte.
Ma per obblique vie, spesso a noi giunge
quel bene ancor che ne parea più lunge.
Si, la tua Velia, o prence, ecco in Ersilia.
E in Velia la tua serva e la tua sposa.
Oh dei! Ben disse al core il primo sguardo
di Velia un non so che; né il cor l’intese.
Sapealo il mio; ma si fe’ forza e tacque.
                                         Dirti qual fossi
né per te né per Fabio util consiglio.
quel fier periglio, oimè! ch’or ti sovrasta,
                                          E in un da amore.
Sì, amor mi richiamò nel roman campo,
dacché intesi nel mio le tue catene.
e udendo allor del fido amico il rischio,
e salvar lui, che per me sol moria,
mio dover fosse insieme e gloria mia.
Di tanti mali ne arrossisca Arisbe.
Innocente è il voler, se reo l’effetto.
Così piacque agli dii, per far d’Erminio
nell’atto illustre il nobil cor palese.
Ma quegli stessi dii ne serberanno
ch’or ne danno il piacer, finor vietato,
di dirne io ciò che volli e non osai.
Ed io ciò che bramai ma non potei.
Idolo, speme, amor de’ voti miei. (Rientrano tutti nel vallo)
da scambievole amor congiunti sposi,
Velia sono ed Erminio. A che non corri
nel giubilo maggior della vittoria?
Che ti arresta? Il tuo amor? Vile che sei;
il tuo è invidia, è furor, non è più amore.
Ostinarsi in amar ciò che non lice
è un voler esser perfido o infelice.
doversi i primi onori al buon consiglio
ma nessuno a colui che né ben sappia
consigliar né ubbidir. Noi, cui del primo
pregio è tolta la sorte, almen dell’altra
proccuriamci la gloria; e mentre l’arte
obbedendo a chi sa, facciamci saggi.
con quei di Fabio. In avvenir ne regga
un solo dittator. L’ultimo impero,
che mi riserbo in voi, sia ch’ei ne trovi
grati e migliori; ed io il primier tra voi
sarò nel soggettarmi a’ cenni suoi. (I soldati di Minuzio battono le aste e le spade sopra i loro scudi, in segno d’applauso e di assenso; e dipoi Minuzio si ritira in disparte, mettendosi alla loro testa. In questo dall’alto del colle cominciano a scendere al suono di timpani, tamburi e trombe i romani vittoriosi, avendo tolto in mezzo il dittator Fabio sopra un carro trionfale, formato e ornato tumultuariamente di spoglie nimiche, sostenendolo eglino stessi alle parti e facendolo tirare da schiavi cartaginesi. Escono nello stesso tempo dal vallo ed altronde Quinto Fabio, Velia, eccetera)
Son del giubilo vostro impeto e sfogo
cotesti applausi. E che fec’io, soldati,
ch’ogni buon cittadin fatto, e più ancora,
non avesse per Roma? A lei serbate
ed a’ propizi dii lodi sì grate. (Scende dal carro)
Che modestia in eroe dopo il trionfo!
Padre. Questo convien nome al tuo grado
e più al tuo benefizio. Oggi vincesti
e me con la bontà. Tu più che padre
a te la mia salute e quella insieme
valorosi romani. Ecco ch’io primo,
che d’onor, plebiscito annullo e cedo.
i littori, le insegne e le coorti.
Piacciati a me usar grazia, usarla a loro;
e quai prima eravam, duci o soldati,
danne ancor militar sotto i felici
Minuzio, il non errar nell’ardue imprese
sovrasta all’esser d’uom. Trarre il profitto
sempre è in poter di chi ha fortezza e senno.
Tu già saggio il conosci e, se a valore
cittadino alla patria util sarai. (Lo abbraccia)
Uom chi vide giammai sì generoso?
Nomi saran minori i prischi eroi.
Bella coppia di fede, i vostri mali
finiti son. Sta in vostro grado l’uso
di quella libertà che vi si rende.
Ovunque andrem, verrà con noi la grata
Roma in prezzo ne avrà ferma amistade.
Amici per virtù sono i migliori.
Godano fortunati i vostri amori.
Tutto a Fabio dobbiamo il nostro bene.
E Minuzio in orror forse vi fia.
Colpe, che fece amor, virtù ha corrette.
E mal passato in gran piacer si obblia.
(Ma forza è che sospiri, anima mia).
Troppo rischio è fra noi beltà sì fiera.
Tu pur libera torna a’ tuoi numidi.
E tra loro, anche in onta all’odio mio,
porterò del tuo nome i chiari vanti,
lasciando qui due sconsolati amanti.
Se l’opre eccelse de’ passati eroi
ond’è che del lor grido assai men grandi,
te presente, o signor, l’idea le trovi?
Colpa questa esser può di debil penna
che, per quanto si sforzi, al ver non giunga;
ma forza è più del paragon che, come
fa vicino al minore il maggior lume,
Quai riposi più fausti? E quai più saggi?
né provochi né temi; e come è vanto
così di tua fortezza è pregio illustre
ch’altri non osi. E si vuol poi che a vista
che tolgon quasi la credenza al vero,
delle antiche stupir possa il pensiero?

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