Alle venture età sia questo giorno
memorabile e sacro, in cui l’illustre
Semiramide, onor di queste piagge,
i rapitori, entro quell’acque estinti,
del più nobil pastor, le fu soccorso.
Premio ne attenda al benefizio eguale.
correggerà le ingiurie di fortuna.
l’alto destin. Simmandio, se il ritardo,
un rimorso nol fa di tua bassezza
ma un senso di onestà, dalle cui leggi
assolver non mi può la mia grandezza.
Al gran Nino ubbidir fia legge e gloria
del padre e della figlia.
ite e voi, ninfe, incontro a lei che riede;
chi le sparga la via, chi ’l crin le infiori.
Qual rimorso, o signor, frammette indugi
deggio un nodo giurato. Amore e fede
a Mennone la unisce; e di sue nozze
se l’invitto guerrier, cui tanta parte
deggio dell’Asia soggiogata e vinta,
non tenesser fra l’armi i Battri infidi.
ama il suo re, più che Semira. Al solo
saperti suo rivale, o col rispetto
spaventerà le brame o col consiglio
dell’util suo consolerà l’amore.
Mal conosci, o Belesa, il cor feroce.
Un valor che mi serve, allorch’io l’amo,
divenir può furor, quand’io l’irriti.
Eh, nel vasto mio impero io non ho un bene
fasto può più che amor. Cambiar d’oggetto
Sol desio di grandezze in lui più crebbe
a misura che ottenne; e fuor di Nino,
mai non seppe soffrir maggior né uguale.
qual non l’ha nel mio cor. Convien ch’io peni,
per non far ch’ei sospiri.
a costo il renderai del tuo riposo?
Oh dio! Non so. Crudel germana, in questo
pelago tu m’hai spinto. O non dovevi
farmi veder Semira o non celarmi
M’era facile allora alle nascenti
fiamme oppor resistenza. Or son sì fiacco
che, ingiusto o sfortunato, io perder deggio
o Mennone o Semira o ancor me stesso.
Chi misero esser vuol, di sé si dolga.
Consiglio è di virtù la mia sciagura.
Si assolva il re da una virtù servile.
che, protetta dall’uso, util si appella.
Non dispero ch’ei ceda. Ove una volta
alza il vessillo amore, a poco a poco
ei ne caccia ragion, virtù, amistade;
e vuol solo regnar. Mennone infido,
t’ho suscitato un tal rival che tutto
vuoi ch’io creda al tuo amor? Vuoi meritarmi?
e Mennone sleal ne sia l’oggetto.
Cosa agevol mi chiedi. Un grave eccesso
della grazia real già il rende indegno.
Non sì tosto egli udì che un pien trionfo
Semiramide avea sul cor di Nino,
ch’ebbro di gelosia, nulla curando
gloria, impegno, dover, partì notturno
dal campo, ove mi è ignoto ed a qual fine.
Semira è colpa sua!) Certo è l’avviso?
Giunto qui or or dal campo, ove le veci
di Mennone sostiene il re mio padre.
Strane cose recasti. A noi conviene
farne buon uso. Al re tu vanne. Aggrava
Ma, se chiederlo lice, onde tant’ire?
da me quelle esigea prime ripulse.
Un soverchio rigor stanca gli affetti.
Oh, mal per noi, se l’arte ne mancasse
Non tutti han per soffrire il cor di Arbace.
Preda, già mia, non vo’ che fugga impune.
Mennone il proverà. Già d’un re amico
gli ho fatto un fier rival. Sposa di Nino
vincer si deve. Il più fec’io. Del duce
tu esagera la colpa; e alcun non resti
luogo a favor di lui nel regio core.
Ah, principessa, io servirò al tuo sdegno;
Intendo il tuo timor. Nell’incostante
Or pentito a’ tuoi piedi il vuol tua gloria.
Ma per punirlo sol, non per amarlo.
Punisci con l’obblio l’alma infedele.
L’indifferenza in me saria viltade.
Spesso di affetto anche lo sdegno è prova.
che men ragioni, esigo. In altri io posso
trovarlo; a te lo chieggo e la mia scelta
non ti è picciol favor. Vanne; opra; e spera.
Sia di Nino Semira; a me pentito
torni il perfido amante; e la vendetta
allor vedrai d’una beltà negletta.
veggo ancora il suo amor. Non fa tal senso
la perdita d’un ben che non si curi.
Cor mio, che si può far? Ti vuole il fato
amante di beltà superba e fiera.
Soffri, io ti dico. Ella ti disse spera.
già care a gli occhi miei, voi piagge apriche,
Ma da insidia e furor messa in periglio
Signore, io non sarei fra le tue braccia
lo il tuo esempio seguii. Di quegli audaci,
chi al tuo dardo fuggì nel mio cadette;
e son anche opra tua le mie vittorie.
Deh, qual darò mercede al tuo valore!
Quella, o Simmandio, che tu puoi, non curo;
e quella, che vorrei, tu non potresti.
d’aver posta per te, bella Semira,
che da’ primi anni suoi ti offerse in voto;
e se un giorno dirai che de’ tuoi primi
pudichi affetti egli non era indegno,
tutto il premio otterrà dal tuo bel core
tolse a sé la speranza e non l’amore.
obblio non coprirà le chiare fiamme
si oppose. Ov’ei ne trae, seguirlo è forza.
Ei sol far non potrà che alla tua fede,
potendolo, io non dia lode e mercede.
Figlia, lasciai sinor gli affetti tuoi
in piena libertà. Leggi a te stessa
dava l’indole eccelsa e generosa.
De’ tuoi saggi consigli il frutto e l’opra.
Mal sicura è beltà fra molti amanti.
Eccone in prova il corso rischio. È tempo
che tu risolva. L’util tuo dipende
dalla tua scelta. Il tuo gran cor richiami
sé stesso, si consigli, elegga ed ami.
Padre, che nata io sia, che pur nol credo,
tra boschi e in umil cuna, è caso; e mio
rossor non è ciò che non è mia colpa.
non presero mai norma i miei pensieri.
Cosa non fu giammai così sublime
che spaventasse i miei desiri. Amai
a misura del merto; e se un affetto
diede luogo al secondo e questo ad altri,
non fu difetto di volubil genio
ma impulso e forza di più degno oggetto.
Festi ciò che nocchier, cui gire è forza
fuor del preso cammin, dove lo spinge
più impetuoso or questo vento, or quello.
né il più nobil pastor né il più gentile.
Venne Mennone, il duce, e la sua gloria
sorprese i voti miei. Vidi poi Nino;
e il sospirar d’un re fece al mio udito
più soave armonia. Se dopo Nino
scendesse in terra a idolatrarmi un nume,
il nume piaceria più del regnante.
Dunque ora Nino è il più gradito amante.
Mennone ha la mia fede, a lui giurata
con l’assenso paterno. Ecco la gemma,
L’amor d’un re scioglie ogni patto e legge.
Legge d’onore è indissolubil nodo.
L’abbandono del campo è suo delitto.
Il vassallo peccò ma non l’amante.
Forse osò il suo furor ciò che soffristi.
Dono a timor geloso il suo trascorso.
Seco, o figlia, trarrai miseri giorni.
Mi saria più miseria onta e rimorso.
Fiero, geloso, indomito, crudele...
saggia moglie sopporta e li corregge.
Dunque dell’Asia tu rinunzi al trono?
Ei piaceria; ma quando debba a prezzo
di mia fede salirvi, il trono io sprezzo.
che distruggi virtù. Ti lodo, o figlia,
ma ti compiango ancor. Da’ tuoi natali
destinata a regnar, perdi il diadema.
a riparar fortuna; e tu nol vuoi.
Che fosse quell’insulto un tuo comando,
Ah, tutto in me congiura e cielo e caso.
Aliso ti è fedel. Se queste io reggo
natie campagne, è sol tuo dono.
gratitudine e fede è per me spenta.
Non contar fra gl’ingrati un cor sincero.
Mi tradì Nino; e può tradirmi ogni altro.
Regna amor sopra i re; né da beltade
spergiura anche la figlia. Io qui da loro
saprò fin dove mia sventura arrivi.
un’estrema miseria alcun consiglio.
Contender col più forte è vana impresa.
All’util di Semira, in tuo favore,
anch’io svenai le dolci mie speranze.
Mennone nol farà, se il fece Aliso.
Cedendo lei, puoi meritar Belesa.
questa mano è un rifiuto; e pur fu questa
al suo ingiusto fratel fermò sul crine.
Ma s’ella fosse il prezzo di Semira?
mi freme amor. Tacciavi orgoglio. È vano
mal vicino addolcir con ben lontano.
Tu venirti ad espor di re oltraggiato
all’ire, ancor nel primo impeto ardenti?
e con novi trionfi apriti ancora
la via, che ti chiudesti, al regio affetto.
nel passato favor. Meriti antichi
fresca offesa cancella; e re sdegnato
cerca ragion per non parere ingrato.
non è, qual io credea, la mia sciagura.
Trovo in Simmandio il primo amico; e tolta
non m’ha iniquo destin la tua pietade.
Seguirò tuoi consigli e sovra i Battri
giustificare io possa i miei trasporti.
Solo amor fa i miei rischi; e tutto è vinto,
In lei, già tua rapina, il premio or cerchi?
Non reca offesa altrui chi il suo si toglie.
Fan sempre ingiusto il fine i mezzi iniqui.
Tu più ingiusto saresti, ritrattando
Mennone al suo signor caro e fedele.
Va’. Vinci i Battri; e fra le tue vittorie
conta il regio favor, placane l’ira;
sii ’l Mennone primiero; e tua è Semira.
O sciagurato Mennone! Al re in odio,
da tutti, e che farai? Funesto amore,
figlio più di dispetto e di vendetta
che di ragion, dove m’hai tratto? Ovunque
mi volga, abissi incontro; e tu gli hai fatti.
onor, grado, fortuna; o dammi almeno
di Simmandio, di Nino e di Belesa.
Oimè! Sperar poss’io che piaccia a lei,
potendo anzi dell’Asia esser regina,
seguir d’un miserabile la sorte?
Nol credo. Ove trovar donna sì forte?
Vengo a Mennone sposa; e quella fede...
Foss’ella anche maggior, sarei la stessa.
Simmandio ingiusto, ogni favor ti manchi.
Un reo, qual io, si fugge.
Con tutti reo, non con Semira ancora.
Oh fosse ver! Ma mi lusinghi. Il tuo
instabile, superbo e menzognero.
Questo è il sol ben de’ mali miei. Dispero.
Vuoi tu perir? Perisci. Qual insania?
Qual furor ti possiede? In te ben vidi
spirto feroce, indomito, inquieto;
ma tale nol credea. Duce, cotesta
torbida gelosia da te una volta
lasciandoti d’un re giovane e amante?
Sì. A chi ha valor, terra non manca.
non darò mai questo trionfo. Io voglio
cagion di tue sventure, essere ancora
Partirò? Resterò? Che far degg’io?
quel riposo sarà che mi prometti.
Lunge i tristi presagi. Io qui da Nino
e perdono e favore e i primi onori
che fa grazie a beltà, n’esige affetti.
Lascia guidarti. Nino è generoso;
Preghi userà? O minacce? Opporrò anch’io
a rispetto rispetto e forza a forza.
Cedo; ma tutto temo e nulla spero.
Quetati. Io tutto spero e nulla temo.
Sia per te intanto un sacro asilo il tempio
Parto. Recami morte o torna mia.
Che invincibile mostro è gelosia!
Di un tal marito al fianco, oh quai mi accingo
a trar giorni dolenti! Or che mi giova
tarda a me balenasti. Era già data
mia fede; è mio tiranno il dover mio.
Pace per me, per me grandezza, addio.
Il re sta irato. (Piano a Belesa)
Or tu sostien quell’ira. (Piano ad Arbace)
Semiramide sola? (Avanzandosi alquanto verso Semiramide)
Il reo la faccia (Stando in lontano)
Quanto è bello in quel volto anche il dolore! (Piano ad Arbace)
Beltà, che vuol pregar, già quasi è vinta; (Piano a Nino)
ma, se vincerla vuoi, mostra rigore.
Gran re, cui fanno grande impero e fama (Si accosta a Nino)
e maggior fan virtù, quella clemenza,
ch’è la gemma miglior di tua corona,
Parla e otterrai. Ma sia la tua richiesta
degna di te, degna di Nino. Chiedi
chiedi d’Asia l’impero e Nino è lieto.
Mennone è troppo reo. (Che forza, Arbace, (Piano ad Arbace)
Resisti e vinci. (Piano a Nino)
non vo’ innocente né scusar suo fallo,
perché fallo d’amor. Ma quanto ei fece,
lo fece per salvar da un atto ingiusto
commetterlo io potessi e tu soffrirlo.
Se con ragion star gelosia potesse,
non sarebbe furor. Ma, sire, io venni
non a scolpar ma a chieder grazia. In lui
pronta è la fede, a cimentar fra l’armi
il sangue che gli resta. Al campo ei rieda
chiesto a un re generoso, è un voler troppo?
Sì, che fallo impunito è altrui di esempio.
Favello a Nino; e Arbace mi risponde?
Sta sempre intorno al re consiglio e fede.
E vi sta anche interesse e zel si crede.
Or risponda anche il re. Col mio perdono
Del suo signor pria l’assicuri un guardo.
E un tuo pietoso amplesso.
chi puote a una beltà che prega e piace).
Già cedé Nino. (Piano a Belesa)
E mal servimmi Arbace. (Piano ad Arbace)
tanto non val quanto la man che il porge;
ma sono astretta a rifiutarlo.
Mano di re tutto discioglie e vince.
Vorresti del tuo re fare un tiranno?
stima, riconoscenza, ossequio avrai.
O nelle colpe o negli affetti o sempre
Mover pria spererò le rupi alpestri
le vie son chiuse. Altra si dee tentarne
Maturarne il consiglio a me conviene
Attenderò, l’alma pascendo intanto
di soavi speranze ingannatrici,
con cui mi è forza cimentarti amante,
ti parrà tirannia. Ma tutto infine
Belesa è un ben che non ha prezzo.
basta un poco di fede; e s’ella ancora
ben impieghi la pena e ben la fede,
dimmi ch’io lo consigli e avrò più core.
O lascia di più amarmi o mi ubbidisci.
le chiedesse? O altro amante? Allor tradito,
allora, sì, dir si poteva Arbace.
Ma dal consiglio tuo qual ben ne speri?
Di Mennone facciamo un incostante;
Soffre molto e assai parla un duol che tace. (Si parte)
Fuggir dal fosco volto al lieto avviso
Più torbidi quegli occhi, anzi gli vidi
empiersi tutti d’un dolor funesto.
non ho che la ricrei ciò che ti affligge.
Quella tranquillità, ch’ebbi in amarti,
da me fuggì. Meglio era amarti sempre.
Un tempo anch’io credei ch’esser la nostra
felicità dovesse il sempre amarci,
lietamente cantando i dolci affetti.
Oh Mennone crudel che un sì giocondo
stato a turbar venisti! Almen contenta
una sorte miglior con Nino amante?
del maggior duce e del più caro a Nino,
in Semira adorar la mia regina?
Soffriamo, Aliso, ciò che il ciel destina.
Che mai dal troppo favorevol Nino
La mia miseria, o Mennone; e l’ho cara
Di chi mi nocque e mi deluse tanto,
non credo più né alla pietà né al pianto.
debole, abbietta, ambiziosa e peggio;
e dal tuo cor giudica il mio. Non basta
a rendermi ragion né quel che ottengo
né quello che rifiuto. Anima ingiusta,
ad un padre io resisto, a un re mi oppongo;
io il suo perdono, io il suo favor ti reco;
sull’ire e sugli affetti; e ne riporto
le tue ingiurie in mercede e i miei rimorsi...
grandezza iniqua e slealtà spergiura...
Non disperar la mia virtù. Stancarmi
può un furor che mi oltraggia. Io da te esigo
più stima o meno amor. Se ingiuriarmi
dee la tua gelosia, lascia d’amarmi.
una rabbia d’amor che anch’io condanno.
ripulse ei n’ebbe. Va’. Segui il mio esempio.
la gloria, ei tremerà solo a tentarmi.
Eh, vi saran per te lusinghe ancora.
Tutto per te sprezzerò ancor.
son anche di Semira e l’Asia e Nino.
Non temer. Tornerò lieto e fedele.
vivrò tua, sarai mio. Ma, duce, avverti;
forza a scuoter furor, sciorria perfidia.
Che? Gelosia già in te comincia?
divario è da cautela a gelosia;
quella i rischi prevede e li ripara;
questa i mali si finge e gli alimenta.
Va’. Tornerò fedel. Sarai contenta.
parmi di respirar. Sarà mio acquisto
Nino ancor può voler... Belesa ancora
riparar può l’ingiuria... Olà. Tacete
che alla fida Semira ingiuste siete.
Del tuo amico signor vieni agli amplessi,
fisa lo sguardo e delle cose andate
non t’ingombri timor, che obblio le chiude.
Mennone con l’amor regni su Nino;
e se cosa v’è ancor nel regno mio
che a te piaccia, ella è tua. Non sarai tanto
(Povero Arbace! Il tuo destin già sento).
Magnanima bontade, in cui ravviso
non dispose i miei voti. Anche non chiesto
ti fea grazia il mio core.
perdonami, il dirò, venne a ferirmi.
rimprovero ne feci. Io più vo’ dirti.
Quando presi ad amar la tua Semira,
m’era ascoso il tuo foco; e quando il seppi,
ne arrossii, n’ebbi affanno; e sa quest’alma
v’era lo stral. Svellerlo volli; e il ferro
più vi si ascose. Amar mi è forza, o duce,
e mi è forza morir. Sia tua Semira;
Tolgalo il ciel. Viva al suo impero e viva
un re sì generoso alla sua gloria.
Sia tua sposa Belesa, a me germana.
Cedimi sol Semira; e se ancor poco
Ah, che mi chiedi, o sire?
col viver mio la sua grandezza.
qual chi cedendo vuol parer costretto).
Cotesta tua grandezza è un suo rifiuto.
Si ostinò in suo dover; ma ne avea pena.
Che non dirà, s’io l’abbandono e cedo?
Preservando il tuo re, lodi ne avrai.
Ma sai tu che Belesa il nodo approvi?
Certo ne sii. Meglio tel dica Arbace.
E lo approva Belesa e lo desia.
Già intendo. Il re è presente;
trovo sensi più giusti, ambo avrem pace.
(E segneranne i patti il cor di Arbace).
Siam soli. Or dimmi, Arbace. Al disonore
non vuol Mennone esporsi.
Tu sai con qual rigor trattò Belesa
il decoro del grado e quel del sesso.
Vuol beltà esser pregata e vuol far prova
Ma si dolse ella poi del mio abbandono?
che una preda già sua di man le fugga.
Né Mennone era tal che in altro amante
avesse a risarcir ciò che perdea.
(Oh risponder potessi!) A lei più increbbe
veder che le togliea spoglia sì illustre
Arte fu di vendetta il novo amore.
qualche arcano del cor vo’ che si serbi.
Ma qual pegno mi dai ch’ella pentita
Per suo comando io le proposi a Nino,
tanto la prese la pietà di lui.
E forse amor v’ebbe gran parte, Arbace.
(Questo è il grave pensier che più mi rode).
Andiamo a trionfar di quell’altera
e là risolverò. Già del mio petto
sortì doglia, timor, rabbia e dispetto.
Di due creduli amanti un fia schernito;
Se dopo un sì crudele esperimento
dirò che mai beltà non fu più iniqua
e che amor non fu mai peggio tradito.
un sì picciolo ben l’Assiria e Nino
Ma la sposa di Mennone il dovea.
Costanza è una virtù d’alme private.
fuor che la mia virtude, altra grandezza.
Omai più eccelse idee prendansi, o figlia,
da l’esser tuo. Figlia di re nascesti.
In Simmandio amo il padre e il re non scorgo.
rustiche lane egli a cangiar fu astretto
E dove è il patrio regno? Ove i vassalli
Avrem Mennone ed io forza ond’ei tremi
Chi vaglia a dar riparo a’ nostri danni,
No, figlia, ei far nol può, se non tuo sposo.
Né questo il può Semira. Io son già avvezza
Malgrado anche di lui, così vuol sorte.
Ma ancor mi asconderai de’ miei natali
Ad infermo ostinato invan si porge
Stiasi con me l’antico arcano.
in Mennone difendo anche un tuo dono.
Altri tempi, altre idee. Segui e te stessa
Ma cangiò il padre e può cangiar la figlia.
mette ogni industria, onde mi tremi in petto
la sostiene fortezza. In quel del duce
tradito amor la rinascente fiamma.
Suo primo e solo amor non fu Semira?
Ne avrai, se qui ti aggrada, il disinganno.
Cieli! Se questo è ver, vedrò alla fonte
Di lui, ninfa, di lui, cui l’incostanza
non costò mai gran pena o gran rossore.
ben si serve così. Ma senza il pieno
testimon della vista e dell’udito,
non crederò giammai Mennone infido.
Vogliam che qui tu il vegga e qui l’ascolti.
Colà ti ascondi e inosservata...
Comincio a vacillar... No... Ciò ch’ei fece
non mi lascia timor della sua fede
e l’accorta Semira a voi non crede.
Son già presso alla meta i tuoi desiri.
dal reale favor, con tutto il fasto
a oprar più resta alla crudel mia fede.
far della morte mia fabbro me stesso!
E qui il frutto godrai di tua bell’opra.
Deh, per pietade, o mi risparmia un tanto
Ch’altro poss’io? Soffri, ti dissi, e spera.
e sperando e soffrendo alfin si mora.
Qui il duce. (Piano ad Arbace)
che tu il grado avvilisca.
Fasto il fa audace. (Piano a Belesa)
Ciel, che viltà! (Vedendo che Belesa si avanza)
Mal mi consigli, Arbace. (Piano ad Arbace)
Mennone, io ben credea che infedeltade
fosse in alma spergiura un fier rimorso
ma non sì nella tua ch’usa a maggiori
trofei, beltà temesse, un tempo amata,
e ne fuggisse il già sì caro aspetto.
tutti in mio danno armò gli sprezzi e l’ire.
Quando s’ama da ver, si può soffrire.
Ma spesso al disleal basta un pretesto.
che sa di meritar, fan troppo senso.
(Che orgoglio!) Ingiusto, il so, fu il mio rigore;
volea; ma il tuo abbandono altri mi diede
pensieri ed altri affanni. Ah, frettoloso
troppo fosti e crudele in vendicarti.
(Dolce accusa d’amor, quanto mi piaci!)
Così favelli? E tu non l’ami? (Piano a Belesa)
Eh! Taci. (Piano ad Arbace)
mi parlasse il tuo core...
Mennone in altri affetti essermi oggetto
digli tu le mie smanie, i pianti, i lai.
Purtroppo è ver. (A Mennone) Quanto penar mi fai! (Piano a Belesa)
Disingannati omai; già torna a’ primi
Amor già non fu, fu sol dispetto
quel che mi trasse a vagheggiar Semira.
cimentasti, quant’eri, e gloria e vita?
le ragioni sostenni. Io de’ tuoi sprezzi
volea punirti; e a me ne parve il mezzo
tanto miglior, quanto più indegno e vile.
da un troppo sollevati ardente raggio,
tornano in nebbia a dissiparsi o in pioggia.
Del vile affetto arrossirà ben tosto
l’alma reale. In noi sarà, sì, in noi
stabil l’amor, difeso in te dal merto
del sangue, in me da quel della mia gloria.
al re sopra colei le mie ragioni.
l’atto pria ne gradisca e mia si giuri.
All’assenso di Nino il tuo si aggiunga.
Pronta; ed Arbace in testimon ne accetta.
Non posso più. (Piano a Belesa)
Sei pur da poco! Aspetta. (Piano ad Arbace)
Mel comanda il germano, il cor mel chiede.
trovar alma più grande! Il sirio regno
(Oh miseri scherniti affetti miei!)
Vieni. Il mio re, l’idolo mio tu sei. (Improvvisamente si volge e prende la destra di Arbace né più riguarda Mennone che rimane come immobile)
Mennone, ch’è di te? Sei tu percosso
Semira... Eccola. O dio! Già mi confondo.
Se mi udì, che far posso? Ove mi ascondo?
Sì attonito m’incontra il valoroso
Mennone dalla pugna? Egli pur vinte
lusinghe? Ei scettri offerti, ei regie spose
accolte avrà con quel disprezzo istesso,
vapor basso e vil ninfa, e l’Asia e Nino.
(Tutto ella intese. Oh barbaro destino!)
Oh di tutti i viventi uomo il più ingrato!
Mennone si è svelato. Eran dispetto,
le gelosie, le smanie, i rei furori
Mi volevi fedel, perché ministra
fossi de’ tuoi pravi disegni. Ah, questo
meritava io da te? Teco fui sola
nell’estrema fortuna. Io nel mio core
sopra il maggior de’ re. Quando anche a tutti
Ma grazie al ciel, tua iniquità mi assolve
già la miseria mia ne’ tuoi spergiuri.
Che? Già pensi a corone? E la giurata
cura ti preme? Sopra lei qual credi
diritto aver? Tu me l’hai resa. Io posso
disporne a mio talento; e farne omaggio
posso a virtù, poiché di man la strappo
a perfidia e a furor. Prenditi il solo (Trattosi di dito l’anello di Mennone, glielo gitta a’ piedi)
pegno che a me ne resta; e me non segua
per te che eterno obblio. Già al tuo rimorso
se pur tanto non è dal reo costume
quell’empio core sopraffatto e vinto
che ogni senso di colpa abbia già estinto.
Sposo il re di Semira? Ella di lui?
Un novello furor m’occupa e vie
Dite, vedrem, soldati, a noi dar leggi
femmina sì plebea? Vedremo il sangue
de’ nostri re, progenie alta di Giove,
Si pensa d’innalzar Semira al soglio,
per ignominia dell’assirio nome.
Anziché tanto scorno ne ricopra,
sforzo. Tu a’ miei guerrieri i tuoi congiungi
andiamo a spaventar l’amor di Nino
Signor, quella Semira era pur degna
degli affetti di Mennone poc’anzi.
si spande. Aliso, su, risolvi. Io tanto
dal mio giusto furor sento infiammarmi
far resistenza, immergerei nel petto
volgo a raccor le amiche genti; e tosto
Sì. Tu m’assisti; e nostra è la vittoria.
Un tuo nuovo favor è per Aliso
che tu il degni compagno alla tua gloria.
quanto or la sua perfidia. A questa io debbo
Ma tu sospiri? Oh dio! Sarebbe ancora
più felice in quel cor Mennone infido
la tua austera virtù trova in mia pena?
corre incerto rumor che alzar tu voglia
ecco minacce ed armi. Assirio fasto
sdegna per sua regina una che nata
osan giudici farsi? Il sai tu, Arbace?
se la loro sconfitta opra non era
de’ prodi ascaloniti e più di Aliso,
già di tua libertade ed ora invitto (Verso Semiramide)
Nascon anche fra’ boschi anime grandi.
Ma chi diè sprone all’ire e moto all’armi?
con la morte di lui mi assolva almeno
dalla necessità che ho di punirlo.
sire, il suo delirar. Fremente il vidi
uscir dalla tenzone e d’uno in altro
ora immobile starsi, or furibondo
correr qua e là né saper dove. Il nudo
acciar, che in mano ancor tenea, d’un colpo
spezzò ad un sasso; lacerossi il manto;
quindi a seguirlo, ove per campi e balze
il suo pazzo furor ratto il trasporta.
se più non torna al senso de’ suoi mali!
Or che dirai, Semira? Ecco i pretesti
No. Ciò ch’oggi si osò, mi lascia in tema
non v’è mai negl’imperi. E ch’io al tuo letto
rechi in dote discordie, onte e perigli?
ma più la gloria sua, più il suo riposo.
E deve anche il tuo amor farmi infelice?
Forse tale io non son qual altri or crede.
Forse al suo re nol tacerà. Tu vinci
sue renitenze. Il mio destino intendi;
e quando io nobil sangue ed avi illustri
sarà mio impegno anche portarvi un core
che sull’orme del tuo giunga all’estremo
confin della grandezza e dell’onore.
Andiamo, Arbace. Un’anima sì eccelsa
non nascon che dall’aquile reali.
tuo servo ognor; dir più non oso amante.
travagliose vicende, instabil sorte,
non so se amica o ria, m’alza ad impero.
Il perderti così mi racconsola.
E pure, il crederesti? io non vi ascendo
e incerta qual sia il bene, a cui m’invio,
conosco quel che perdo e ne sospiro.
In quel sospir, parte, oh, n’avessi anch’io!
son l’implacabil giudice. Su, prendi. (Le dà il suo elmo)
Presto o da questo acciar cadrai svenata.
Trafissi il cor di Nino e vel lasciai.
Presto, diss’io. Stige mi attende e voglio
trarvi con te Nino, Belesa, Aliso,
Fuggiam, fuggiam dal pazzo.
di lui tanta pietà, se fosse in senno. (Si parte con Aliso)
e solo io fui che le mancai di fé.
No no, fuggi da me, vattene, sgombra. (Levandosi furioso)
Su, cangiateli, o furie, in nenie e pianti.
Non più. Vado. Mi ascondo. Chi mi vuole?
Terra? Mar? Cielo? Abisso? Oh, se potessi!
mai mai non si offerisse agli occhi miei.
In traccia di Semira ite, o custodi.
Giorno non chiuse mai più strani eventi
Ma in dì sereno ancor fremono i nembi.
Donde in sì piena calma aver puoi tema?
conoscerà, per cui finor raminga
Oh funesti trofei! L’Asia non vale
con tal mercede i guai già corsi e i pianti.
(Di timore in timor passan gli amanti).
Non so se nel momento in cui ti onoro,
più in me nasca di gioia o più di affanno.
Non è fregio di merto il nascer grande
ma pure è fregio; e che anche questo a tante
glorie sol tue si aggiunga, è mio contento.
sono tutti opra mia, ne ho pena ed onta;
non avessi l’onor di porti a’ piedi
con l’Assiria e con l’Asia anche me stesso.
Ecco. Sta in tuo poter darmi le leggi
di gastigo o di pace. Il re punisci;
né portar l’ira tua sovra il mio core,
d’altra colpa non reo, se non d’amore.
Signor, risponderò; ma pria dal padre
al mio destin tutto si squarci il velo.
retaggio avito, ebbe comando e scettro.
Come! Non fu l’Egitto, ove le prime
No. Là ti trassi ancor bambina, allora
della tua sorte consultai, m’impose
qui ricondurti e qui soffrir disagi,
per lunghe vie si maturasse il fato.
starti un decennio ignoto?
popolo e corte, il lungo esilio, i vili
tutto giovommi, e più gli dei propizi.
A che sempre tacermi un tanto arcano?
Temei che nel tuo cor fiamme svegliasse
il dolor de’ tuoi mali. A vendicarli
tempo attendea; non mentirò; credei
guerrier dell’Asia, in divenir tuo sposo,
alla nostra vendetta offrisse un braccio,
per cui Nino tremar dovea sul trono.
Ma non sì tosto balenò a’ miei lumi
quel regio amor, che ne fa lieti, io vidi
più sicuro al tuo fato aprirsi il calle;
Già disse il padre; ed ora
a te, signor, risponderà la figlia.
Amor, reggi quell’alma e la consiglia.
che al mio regno, al mio sangue, a me facesti,
fosse cresciuto in me con gli anni il senso,
non basterebbe a svellermi dal core
con cui ragion si scuote e prende l’armi.
in te a veder non il crudel nimico
ma il benefico amante; e quando solo
l’offensor si conosce, ira è impotente.
e gradendo il tuo amor consolo il mio.
Soavi accenti, onde ritorno a vita!
Han pur fine le angosce e mia pur sei.
E più godon ne’ tuoi gli affetti miei.
Siane anche Arbace. In lui,
tu del mio amor ricevi e del tuo ancora.
Né di Aliso s’obblii l’opra ed il merto.
No, mio re. Fasto e grandezza
non occupa i miei voti. Allorch’è buona,
l’opra è premio dell’opra. Io qui contento
rimango e di Semira in questi mirti
di soavi memorie andrò pascendo.
Mi sarà caro Aliso in ogni sorte.
di sì bel giorno eterna la memoria,
così fausto al mio amore e alla tua gloria.
nata in sì fausto giorno a far felice
la grandezza, che t’orna, e il secol nostro.
Che se non è fortezza, allor che affligge
volto e core mostrar lieto e tranquillo,
se fortezza non è sul più gran trono
regnar, più che in altrui, sovra sé stessa,
o benefica o giusta e, assai potendo,
aver dolor di non poter più ancora,
se tanto e quel di più, che in te si apprezza,
se fortezza non è, quale è fortezza?