Metrica: interrogazione
971 endecasillabi (recitativo) in Gianguir Venezia, Pasquali, 1744 
Al mio sposo e signor, che a noi sen riede,
più che d’ostri, di lauri adorno il crine,
mi affretta il suo comando e l’amor mio.
palanchin mi s’appresti; e tu che a parte (Si partono otto schiavi indiani)
sei di sue glorie, o Mahobet invitto,
a me qui espon suoi chiari gesti.
                                                            Io pure
del felice sultan ne’ grandi acquisti
onorerò la tua virtute, o duce.
di Kandahar le trionfali insegne
alzò il possente regnator de’ Persi,
scese nell’Indostan, qual rovinoso
ne arrestò, ne rispinse. Al primo giogo
Kandahar ricaduta e sotto il nostro
il nimico terren d’ossa e di stragi;
            Chi tarpò della vittoria i vanni?
E chi repente il mio Gianguir mi rese?
risse tra’ suoi più cari. A lui fu d’uopo
trascurare il trionfo e quasi a forza,
al nimico anche vinto offrir la pace.
o in dover riporrà le torbid’alme
o farà sbigottir le più ostinate. (Vengono gli otto schiavi, portando sopra le spalle il real palanchino, e poi lo depongono alquanto addietro, fermandovisi d’intorno in atto di aspettare la regina)
In me dal suo ritorno altro non sorge
senso che di piacer. Già a lui mi chiama
il dover, che l’onora, e il cor che l’ama.
Lieto or t’abbraccio, amico.
                                                   Amico e servo,
purché tu sia al mio re suddito e figlio.
L’impostura al suo cor s’apre in mio danno
Fosse così. Ma a che lasciar repente
E qui trar numerose aste e bandiere?
A che? Attender dovea che dalle insidie
di Asaf e Zama a me di man divelto
scettro fosse ch’è mio?
                                           Tuo, vivo il padre?
è la mia sofferenza. Il re son io.
re più grande e miglior l’India non ebbe,
Gianguir, figlio rubel, pugnò e fu vinto.
Perdon ne ottenne ed emendò il suo fallo.
No. Akebar pria dal core e poi, morendo,
dall’impero lo escluse e le ragioni
in me ne trasferì. Mio è questo soglio;
e Gianguir, che mi è padre, è un mio vassallo.
                                       Già del mio dono
si abusa e me qual schiavo insulta e preme.
Odo i lamenti e non ancor le accuse.
Sai che in comun sciagura egli di Zama
si accese, in Persia nata e di vil sangue.
Ma degna per virtù del reggio letto.
stender le sue conquiste. Ella instigata
o me sposo a Miraca, ignobil germe
de’ suoi primi sponsali, o la corona,
la corona ch’è mia, con la sua mano
minaccia in dote al mio minor germano.
                              Alle abborrite nozze
vuoi ch’io stenda la destra? O che infingardo
mi lasci?... Ah, non fia ver. Sosterrò forte
l’onor del sangue e la ragion del trono,
che d’Akebar il successore io sono.
quanto i prenci sarien, se udisser sempre
il vero o meno lor piacesse il falso!
è la figlia di Zama. In ciò mia fede
l’onte non sosterrà del regio erede.
Ma di certe lusinghe al dolce incanto
Gianguir è il tuo, non men signor, che padre.
Akebar rispettò. L’orror del fallo
miglior li rese il figlio; e in lui, morendo,
lasciò al Mogol con pace un degno erede.
Chi diverso ti parla è iniquo e mente
in tuo danno o in suo pro. Fuggi la falsa
turba, peste de’ regni e de’ regnanti.
Ascolta il tuo dover. Per te rubello
l’ire infauste sarien, l’armi infelici;
ed il primo io sarei de’ tuoi nimici.
                                                 Alinda, Alinda!
Deh, perché sei così nimica al padre?
Chiedimi ancor, perché ami tanto il figlio?
Con l’amor tuo mi fai felice, è vero;
ma poi con l’odio tuo vuoi farmi iniquo.
Sei tu Cosrovio? No. Più non conosco
veggo lo schiavo di Gianguir. Che dissi?
Veggo quello di Zama e vedrò in breve
Misera! A chi fidai le mie speranze?
Bando a sì rie querele. Io mille vite
lascerei pria che Alinda. Ma con l’armi
vittoriose a noi Gianguir ritorna.
Ecco a’ nostri disegni un duro inciampo.
Ecco alla tua perfidia un vil pretesto.
le tue men numerose? O meno forti?
Il suo stesso ritorno affretta e compie
vano era e nullo ogni trionfo. In lui
Questo nome di figlio or nel tuo core
tiene più di poter che quel di amante.
Tal non era poc’anzi. Io più non parlo.
La tua nascita obblia. Sprezza il mio acquisto.
Far saprò senza te quella vendetta
non sarò così abbietta. Asaf istesso
avrà forse più ardir per meritarmi,
come ha quello d’amarmi. Egli in sua sposa...
ultimi avanzi di pietà infelice.
sia il mio destin, l’amante in me vedrai
e me perfido e vil più non dirai.
Per cenno del sultan, prence, a te vengo.
Che tu in finta tenzon renda più illustre
col fior de’ tuoi più fidi il suo trionfo.
                                            Basta che giunga
un suo voler, perché sia nuova offesa.
Ma che dirai nel rimirarti a fronte
Punirò pria l’indegno; e sotto gli occhi...
cauto, più che feroce. A te coi torti
lascia crescer ragion. Simula e soffri.
Simular e soffrir non è da forte.
E da forte e da saggio. All’uopo intanto
pronte sien le tue schiere.
                                                 E quelle in breve
di Cambaia e Sorate a te verranno,
                               Ed opportuno. Alinda,
de’ tuoi natali e de’ tuoi casi a parte.
Tu vuoi farne un mistero alla mia fede.
Ed un merito ancor; ma quando in guerra
saprai mio regio sangue e mia giust’ira.
che, senza l’amor tuo, braccio rubello,
né per vendetta degli oltraggi miei,
contra un padre ed un re, non alzerei.
Quanto è credulo un cor, quando ben ama!
Che? Tradirlo potresti e non amarlo?
Semira amarlo? Amar, Jasingo, in lui
                                        Ei non ha colpa
                           Padre, fratelli e regno
mi è nimico il lor sangue; e in mia vendetta
l’armi del sesso adopro, arti e lusinghe.
più che civile. Ad occhio asciutto e fermo
vedrò stragi e ruine; e se fra queste
vorran ch’io resti oppressa astri infelici,
mi fia dolce il perir co’ miei nimici.
ti vedessi spirar Cosrovio al piede?
tal si crede nimico e pena amante.
Che posso dir, Jasingo? E qual celarmi
posso a te, da’ primi anni e mio custode
e mia guida? Amo il prence; e quando penso
i rischi, a cui l’espongo, odio il mio sdegno.
ceda. Vinca il dover. Voglio esser prezzo
d’una giusta vendetta. Il forte amante
o mi meriti o cada; e poi, quand’altro...
                               L’altero. Ei si lusinghi.
Alinda, è questo il campo, ove in cimento
due rivali vedrai. Per qual di loro
                                             Il più gran bene,
che mi lasciaro iniqui fati avversi,
egli è un libero cor. Cauta il difendo
Oh fosse ver! L’indifferenza stessa
per me un bene saria. Ma orecchio, avvezzo
i sospiri ad udir di regio amante,
mal si piega a soffrir quei d’un vassallo.
chi regna sul suo re titol più illustre.
(Come il lusinga ove più fasto il punge!)
Dal sovrano favor gloria a me viene.
Usa di tua fortuna; e ne avrai gioia.
Beltà, che s’ami, esser dovria conquista
Non sempre il più guardingo è il più felice.
Da un sultano rival tu vuoi che scudo
autorità ne sia di regio ammanto.
pronube faci e talami reali;
né più Asaf in amore avrà rivali.
Tu di Miraca o d’altra sposa in seno
                                              Esca il comando
sdegni più ardenti a provocar nel figlio.
E se atterrito o sopraffatto ei cede?
Conosco il mio poter. So la sua fede.
                                             Taci. Non sai...
Rivolge in suo furor la mia regina
feroci alte vendette. Oh, piaccia al cielo
che a Cosrovio ed a lei non sien ruina. (Preceduta dal suono di vari barbari strumenti, si avanza dal fondo della scena verso l’anfiteatro magnifica trionfal macchina, sostenuta da un elefante, tutto guernito di ricchi arnesi e cimieri e guidato da un indiano che sopra vi siede. Nell’alto della macchina siedono Gianguir e Zama con più rajas o sia re lor vassalli. Precedono e seguono il carro le soldatesche del Mogol con le loro armi e bandiere, avendo alla testa Mahobet, lor generale, e non molto lontano Cosrovio e Asaf. Nel mezzo alle soldatesche e dinanzi alla macchina stanno molti schiavi persiani con catene d’oro al collo ed a’ piedi)
popolo mio fedel. La Persia al piede
mi gittò le sue palme e pose l’armi.
Non abbiam più nimici o gli abbiam solo,
deh sia vano il romor, ne’ miei più cari.
godasi nel trionfo e nel piacere
della vittoria e della pace il frutto.
Mio re, quegl’infelici un dì sì lieto
non funestino più co’ lor sospiri.
Rendi lor libertà, due volte vinti,
già dal tuo ferro ed or dal tuo perdono.
Grazia chiedi in mia gloria. A te gli dono. (Gli schiavi si levano e vengono lor levate le catene)
Cosrovio, Asaf, omai s’adempia il cenno.
Rompo gl’indugi; e al grande onor m’affretto. (Si parte)
(Arder d’ira mi sento e di dispetto). (Si parte. Gianguir e Zama vanno a sedere sul trono. Fanno lo stesso tutti gli altri, occupando all’intorno dall’alto al basso l’anfiteatro, lasciandone libero il campo. La macchina tirata all’indietro si ferma su l’entrata d’esso, servendone come di ornamento. Mahobet e Jasingo siedono a’ piè del trono)
Parte Cosrovio minaccioso e torvo. (A Mahobet)
Temo, Jasingo, anch’io l’alma feroce.
Miglior qual dopo l’ombre e le procelle
così ad orrida guerra altra a’ vostri occhi
ne succeda gioconda; e dalla mente
l’idee cancelli del timor passato
Facciasi omai. Date, oricalchi, il segno. (Suonano gl’instrumenti militari. In questo si aprono le due porte laterali dell’anfiteatro, dalle quali escono Cosrovio ed Asaf, seguiti dalla squadriglia; e tutti con vaga ordinanza s’avanzano verso il trono e, piegate in atto di riverenza le loro armi ed insegne, vanno a prendere il loro posto. Ma i due capi si fermeranno a ricever dal sultano gli ordini del combattimento)
emuli vi cimenti e non nimici.
la trasgredita legge. Armi innocenti
sia di fregio la spada e non d’offesa. (Cosrovio ed Asaf, fatta anch’essi la dovuta riverenza a Gianguir, piegando le loro armi, vanno a fermarsi l’uno a fronte dell’altro nel mezzo del campo)
Asaf, a ragion vai lieto e superbo
ove fin del trionfo avrò rossore. (Segue l’abbattimento, primieramente con mazza e scudo, senza che alcuna parte prevalga, quindi il secondo con arme corte che ciascuno teneva ascose dietro lo scudo, ove dopo qualche resistenza vedesi avere il vantaggio la squadriglia di Asaf. Per ultimo quei di Cosrovio, con l’esempio del loro capo, dan di mano alla sciabla e incalzano gli avversari, i quali, retrocedendo e impugnando anch’essi la loro, pian piano si ritirano fuori dell’anfiteatro per l’una e l’altra delle due porte, incalzati e inseguiti dagli altri)
Soldati, olà. Sì temerario un figlio? (Levandosi e scendendo dal trono. Lo stesso fanno tutti gli altri, calando abbasso dall’anfiteatro. Mahobet, per impedire un maggior disordine, va frettoloso per dove uscir vide Cosrovio)
Fino sugli occhi miei? Quest’atto è prova
de’ miei sospetti e de’ suoi rei disegni.
(Ben lo prevvidi. Or che dirà Semira?) (Si parte)
Asaf... Oh dio! (Mahobet ritorna)
                             Lunge il timor. Sì tosto
che del campo sortì, riposte ha l’armi
                                          E il re oltraggiato;
ma non son re, se resto invendicato.
Nostro è il trionfo. Il novo eccesso or tutte
arma nel padre le vendette e l’ire.
Io più ne temo. Intorno ad Agra immense
schiere stan per Cosrovio. Ah, s’ei le move!
Trar dalla reggia il passo a lui si vieta.
Ben tosto ire di padre amor disarma.
E gelosie di re ragion sostiene.
D’ogni evento sinistro in noi cadrebbe
il pubblico livor, scoglio ove suole
romper grandezza e naufragar fortuna.
Sdegna tanti riguardi una gran sorte.
Vuoi ch’io consigli un parricidio? Il grado
virtù mi diede. Ella mel serbi ancora.
Si dee pronto riparo a male estremo.
                                      Usa il più mite.
Sei madre a degna figlia. Ella si unisca
                              Il regio assenso hai certo.
Ma Cosrovio opporrà sprezzi e ripulse.
Non oserà, ch’or suo periglio ei scorge.
Altro de’ regi figli a lei sia sposo.
vivrebbe ognor vassalla e sempre in lutto.
I fratelli d’un re son qui le prime
Materno amor, qual già mi balzi in petto!
Tentar che nuoce? E non tentar che giova?
Hai vinto, Asaf, hai vinto. Un van timore
non contenda alla figlia il grado eccelso,
cui la chiama il suo fato... E s’ei persiste?
Ostinato si perde e senza nostra
colpa si perde. Al re non mancan figli
né a Miraca consorti. Ardisci e spera.
del par ne giova. Avrà tua figlia il soglio.
(Cieco furor! Principe incauto!)
                                                           Taci; (Piano a Semira)
e te pur non tradisca un dolor cieco.
quand’io sì lieto a lei! Di’, che ti turba?
Del passato conflitto ancor mi preme
                                     Per me temesti?
Cari perigli miei con tal mercede!
(Sorte, che si desia, facil si crede).
Di quell’ire mal nate al primo lampo
e ogni colpo scendea sovra il mio core.
(Sdegno in lei parla; ed ei sel finge amore).
Pende sul capo all’offensor nimico
la vendetta real. Le vie son chiuse
tutte al suo scampo; e chi fuggir nol puote
                                            E contra un figlio
                                              Sì, s’ei la destra
ricuserà di mia nipote al nodo.
                           Qual nuovo duol ti opprime?
D’incerto ben poco si appaga un’alma.
Dubbio del re, dubbio del prence è il voto.
Quello otterran della regina i preghi;
questo del padre espugneran le leggi.
Tutto esser può; ma all’imeneo ben chiare
(Per quest’alma saran tede lugubri).
Labbro vezzoso, allor che mi dirai?
a finir le vendette e le speranze.
Prima del tempo oltre il dover ti affligi.
Oimè! Ceda o resista, io l’ho perduto.
Già intrepido il vantasti; ed or ne temi.
Meno forte il vorrei, che resistenza
potria costargli e libertade e peggio.
Pieghisi dunque al rio destin che il preme.
No no, fingesse ancor; per un momento
né men lo vo’ spergiuro. Entro il mio seno
senza che gelosia v’entri a stracciarlo.
Pria ceppi e morte... Ah, dove son? Che parlo?
Gitti il tempo in querele e il rischio è presso.
corri su l’orme. Lo ritrova. Digli...
In vari affetti a te contraria, or questo
volendo, or quel, nulla risolvi.
                                                       Oh dio!
Risolver? Che? Se non lo so pur io.
Fan cento affetti di quel cor governo...
non visto osserverò. Da re turbato
l’alme discordi, a me qual scorno o danno?
L’un nel rifiuto e l’altro nel contrasto.
Segua che vuol; di mia parola attende
D’altro tuo figlio l’imeneo potrebbe...
in un genero un re. Con altre nozze,
a nuove gelosie via si aprirebbe.
Queste promisi e queste adempieransi.
Sperar nol so. L’alma real, che sente
d’esser nata a regnar, da sé rigetta
ciò che giogo le sembra. Usando forza,
                               Eh, sbigottiscon questi
fervidi geni a fronte del gastigo.
Qui Cosrovio verrà. Cauto nel rischio,
per fuggir pena accetterà la legge.
Se la rifiuta, e ferrei ceppi e scuro
carcere incontrerà. Da questa soglia
passar non può che alla prigione o all’ara.
Il varco occupan l’armi e dato è il cenno.
Signor, de’ mali, ove te stesso e il regno
sei vicino a gittar, potresti tardo
sentirne il pentimento. Aman Cosrovio
il popolo e i soldati. Io stesso...
                                                        Intendo.
giunge a scuoter il giogo e a prender l’armi,
te può contar fra’ suoi nimici il padre.
Della mia fede egli è sì chiaro il lume
ch’ombra nol può coprir. So quanto esige
dover, quanto amicizia; e questo ferro
combatte fellonia, non la protegge.
Nel figlio il reo non sosterrò; ma oppresso,
contro ogni forza e col mio sangue istesso.
(Venga Cosrovio. Affetti, a qual di voi
(Chiudansi l’ire in petto. Assai già nocque
un soverchio furor. Cedasi al tempo).
(La grand’arte del regno è il saper fingere).
Più che al tuo re, vieni al tuo padre, o figlio.
Se il saper d’esser reo ti dà spavento,
col pensar d’esser figlio a te fa’ core.
la mia bontà. Scordo le offese; e taccio
il governo lasciato e l’armi mosse
e gli odi audaci e i violati imperi.
Copra le andate cose eterno obblio;
ed in bilancia di sincero affetto,
sol l’avvenir pesi il tuo core e il mio.
non mai splende seren di vera pace.
Tu reo me credi, io te ingannato. In tanta
diffidenza l’un l’altro, e come amarci?
O lasciami il timor del tuo disdegno
o credimi, qual son, figlio innocente.
che in sembianza di colpe a’ piè del trono
Le contamina spesso invidia o fama.
Se il governo lasciai, se numerose
schiere raccolsi e qui le trassi amiche,
zelo mi spinse in tuo rinforzo. Io l’armi
temea de’ Persi e la mutabil guerra.
Qual altro è il mio delitto? Ira e trasporto?
Impeto fu di generoso ardore.
Un Asaf avversario a me fea torto;
non mi soffersi sopraffatto e vinto.
E perché non sia rotto un sì bel nodo
da privato rancor, ne sia la figlia
di Zama arra sicura e stabil pegno.
                Nel suo imeneo gli odi abbian fine.
E de’ Mogoli e di Timur al sangue
darà gli eredi ella, d’uom vil germoglio?
È di colei che di Gianguir è sposa.
            Resister è van. Comando e voglio.
(Al generoso il simular che pena!)
Ove un padre, ove un re comanda e vuole,
non altro che ubbidir resta ad un figlio.
Di lodevole ossequio util consiglio.
Vieni, Asaf. In Cosrovio eccoti il degno
onor grazie qui rendi. Io vo a recarne
alla madre sultana il lieto avviso.
Siam soli, Asaf. Or senti. Al regio impero
mi fu d’uopo ubbidir. Sforzai me stesso;
e feci il mio dover. Segui il mio esempio.
So qual l’obbligo sia della mia fede.
Poiché lo sai, riedi al sultano; e il nodo,
                               Io?
                                        Sì. Scioglier tu il dei,
che a tuo vantaggio il seduttor ne sei.
Il voler di Gianguir legge è a sé stesso.
E quello di Cosrovio a te sia legge.
                                            In te col fasto
temerario è l’amor. Tu mio rivale...
Basta. L’error correggi; e il re mi lasci
in piena libertà sovra il mio core.
In tuo arbitrio poc’anzi era il rifiuto.
dovea la libertà. Ma più che al danno,
volli sottrarmi all’onta dell’insulto.
                  Già dissi; e se sforzarmi ancora
s’insista a un imeneo, ch’odio e detesto,
mi pagherai con la tua vita il fio;
né il re ti salverà dal braccio mio.
Ubbidirò. (Ma dell’oltraggio atroce
vendicar mi saprà silenzio e voce).
sollecita partenza; e con Alinda
l’amor mi segua e la vittoria al campo.
Mi tradisce Cosrovio? E mi pospone
alla figlia di Zama? Oh dei!
                                                   Semira...
Chi creduto l’avria? Tante promesse?
E tanti affetti? E tanti giuramenti?
                                          Che puoi tu dirmi
                                             Egli, vista
nel comando la forza e nel rifiuto
che far potea? Finger ossequio al padre...
                                       Ancor nol fece.
Ma lo farà. Forse a quest’ora al fianco
della rival, de’ torti miei si ride.
                                              In campo
farlo era giusto e non in faccia al vile
                                              Già son tradita.
Vo’ restar tutta in preda all’ira mia.
Mal si accorda ragion con gelosia.
(Or con voi ragionar, traditi affetti,
piacemi... Ah, qui l’infido. Ira in me cresce).
Sciolto da’ miei nimici e fuor dell’aspra
necessità di lunga sofferenza,
Alinda un tanto onor non attendea
                                      Omai ti è noto
Delusi ho i miei nimici. La funesta
(Audacia vedi!) Io fuggir teco? Quella
che qui lasci è Miraca; e Alinda io sono.
Quai rimproveri ingiusti? Io mai non feci
in pro dell’amor tuo sforzo più grande. (Veggonsi comparire in lontano le guardie reali, occupando all’intorno ogni uscita)
L’amor mio ti assolvea da sì gran pena
e alla costanza tua tanto non chiesi.
Ah, se mi credi reo, troppo mi offendi,
e se innocente, oh dio! troppo mi affligi.
Ritroverai nella gentil tua sposa
di che racconsolarti. Addio per sempre.
Errai? Qui mi punisci. Ogni altra pena
voglio da te che un sì crudele addio.
Desti a Gianguir la fede; e me la ostenti?
Resistendo a Gianguir, con libertade
m’era tolto il poter di vendicarti.
Sapea l’insidie e d’ubbidir m’infinsi.
Chi ben sa amar mai di tradir non finge;
e chi finger lo può può ancor tradire.
                                                 E dall’inganno
qual ben? Son or rimossi i tuoi custodi?
Uscir d’Agra, ire al campo or ti è concesso?
Eh, va’. Lo vuol Gianguir. Sposa Miraca.
al talamo gli amplessi; e poi ten vieni
a vantarmi in discolpa ed anche in merto
il finto ossequio e le temute pene.
in te dura il timor de’ tuoi perigli,
in lor vive il pretesto a’ tuoi spergiuri.
Asaf a te qui esponga... (Asaf vedesi venire di lontano)
                                             Ove il tuo labbro
parla contro il tuo cor, l’altrui si taccia.
Chi fugge udir ragione ama il suo torto.
Da’ vecchi inganni a più esser cauta imparo.
Nell’ingiusta ira tua veggo il tuo core.
Sì, morì in te la fede, in me l’amore.
Di quegli affetti, Asaf, e di que’ sdegni
il superbo amor tuo non si lusinghi.
Se sia breve e bugiardo il ben presente,
non me lo invidi il tuo felice amore.
Ma il tempo scoprirà chi più s’inganni.
Questo de’ mali miei saria l’estremo.
che crudeltà parrebbe un disinganno.
                               Dal tuo signore e mio.
Del tuo ossequio saranno opra malvagia.
Anzi giusta mercede a tua perfidia.
all’ara nuzial, dove ti attende
o va’ co’ miei custodi, ove ti prema
di mia bontà, per esser figlio. Il primo
affetto di chi regna è il suo decoro;
e offesa maestà non ha compenso
che nel gastigo o almen nel pentimento
dell’offensor. L’uno ti eleggi o l’altro.
già temo il nuovo inganno e scorgo il primo.
al tuo piede impetrar, quella, per cui
supplichevol mi udisti, ancor ti chieggo.
Dalla sua fede il principe si assolva.
Son io che al troppo disugual legame
cerco inciampi e ripugno. Egli è innocente.
Del giurato imeneo pago è il suo core.
Miraca è il suo gran bene...
                                                   Oh mentitore!
Che? Me presente anche la man sul ferro?
Mille carceri prima e mille morti
che l’obbrobrio soffrir di sì villana,
non ho che oggetti di abbominio e d’ira.
se già sforzai me stesso. Anche l’inganno
fu rispetto di figlio; e se imputarmi
vuoi l’onesto rifiuto, onde all’augusto
nostro sangue real risparmio l’onta
di meschiarsi al più vile della terra,
Ma forse, all’ingiustizia della pena,
succederà il timor della vendetta.
Cosrovio o nome vano od ombra abbietta
non sarà nel tuo regno. Andiam, soldati.
Seguitelo; e sepolto in cieca torre...
Signor, tutto il mio sangue è scarso prezzo
per sì grand’ira. Il principe è tuo figlio.
                                         Un adeguato
                            E un re deluso?
                                                           Oh, d’altro
                                           Di che?
                                                            Non dirlo
vorrei... Ma... sire, aggiungi: e un re tradito.
A lui spetta regnar. Ma già lo sdegna
da natura che indugia. Il vuol da colpa.
E popoli e soldati ha sotto l’armi.
Mahobet il fomenta; e s’ei può d’Agra
uscir, di cento a porsi e cento schiere
andrà alla testa e a minacciarti il trono.
Lo so; e sue sorti in mio poter già sono.
Tal più lo temo. Le minacce udisti;
Taci. Tu parli al re. Né pensi al padre.
Non mai con più dolor venni al tuo aspetto.
                             Sottratto a’ suoi custodi
                                  No, che alla fuga
gli costrinse dell’armi il primo duce.
                     Fido al prence.
                                                  E a te fellone.
Cosrovio appena in libertà si vide,
che alla porta maggior d’Agra si spinse
e ne uscì, non trovando resistenza,
e con «viva» l’accolse il vicin campo.
                                    Ei nella reggia
come se autor sia di lodevol opra.
che il capo di colui qui a me si rechi.
Celere ossequio al grande onor risponda. (Si parte Asaf con altre guardie, poche restandone con Gianguir)
l’alma me ne rimorde... io vi ti spinsi.
così tenera madre, or non saresti
Giusto in te fu il desio. Cosa volesti
ch’era in mio pro. Malvagitade altrui
Ma non temer. Pena sovrasta a’ rei.
Arridano alla spene i giusti dei.
Le vie chiudete ad ogni passo, o fidi.
                  Qual nuovo ardir? Tu qui col ferro?
Esser tuo non può il cenno. I miei nimici
sprona furore e del real tuo nome
Vieni tu in mia difesa e gli confondi.
                        Esser non puote. Altra tu devi
                   Oimè! Cresce il tumulto e l’armi
non ardisca avanzarsi; o al primo passo,
questo nel regio petto acciar vedrete
e poi vedrai se traditore io sia. (Gianguir vien condotto via da Mahobet, sempre nella positura di prima, accompagnato dinnanzi e di dietro dalle guardie di esso Mahobet e restando immobili a’ lati quelle del sultano)
ti è l’altrui fede; e vano è il pianto mio.
volgi altrove quel ferro; e se non hai
delle tue furie, in questo sen l’avrai.
saran le fide schiere innanzi il giorno
                                          Ira e dolore
                                                 Ed incostante.
La gelosia prova è di core amante.
Tu qui resta ad espor del prence i voti.
Prosperi fien, finché saranno ignoti.
di’, re qui sono? O prigionier?
                                                         Quel sacro
                L’hai profanato. Io non tel chieggo.
Chieggo la sorte mia. Son tuoi soldati
Per me, per loro ogni tuo cenno è legge.
A me qui Asaf e la sultana. Or parla. (Due guardie, fatto profondo inchino a Gianguir, se ne vanno; ed egli si mette a sedere)
Quante volte in tua gloria e in tua difesa
sparso abbia il sangue e quante guerre estinte,
tu il sai; lo sa il Mogol, l’Asia, la terra;
né più il tempo ha ragion sui miei trionfi.
Ma la perfidia tua d’onta or li copre.
d’aspra necessità? Non in tua offesa
strinsi l’acciar. Non di tua reggia il sacro
asilo violai, per darti in mano
                                     Ah, questo figlio
tremeria ne’ miei ceppi. Egli or m’insulta.
Nol condanniam, pria di saperne i sensi.
Si vuol guerra, Jasingo? O si vuol pace?
A grado del sultan. Ma son di questa
tornino al natio cielo Asaf e Zama;
e sul trono, ch’è suo, ti soffre a parte.
Giurinsi i patti; e deporrà...
                                                    Altre leggi (Verso Mahobet)
darmi potria, se inerme fossi o vinto?
Nulla, o re, ti sgomenti. Io fido e forte...
                                        Teco io respiro.
Ma non è questo il tuo real soggiorno.
custodirlo saprei, più che non fece
Cieca discordia non accresca i mali.
E mio ne fia il riparo. Amai nel prence
un tuo suddito e figlio. In lui rubello,
odio un nimico. A’ danni suoi quel braccio
armerò che il sostenne; e andrò tuo duce...
Lo scettro a me del militar comando. (Mahobet inchinandosi parte, seguito da’ due soldati. Gianguir ritorna a sedere)
A quella man, che in te rivolse il ferro,
sciolto il reo figlio, il fideresti ancora?
Altra più valorosa ove trovarne?
Valor che giova, ove perfidia il regge?
Può nuova fede esser felice emenda.
E nuova colpa irreparabil danno. (Torna Mahobet, seguito da’ due soldati, l’uno de’ quali tiene in un bacin d’oro il baston militare e l’altro lo stendardo generalizio)
Di cento e cento lauri adorne e chiare,
ecco, o signore, le onorate insegne.
primo duce ti elessi, assai tu oprasti;
e mia beneficenza assai ti rese.
più che suddito al padre, amico al figlio,
vanne, perfido, a lui. Saprà non lenta
trovarti al fianco suo la mia giust’ira.
Va’. Un nimico di più non mi spaventa.
Dar leggi è tuo, mio l’ubbidir. Mi è lieve
perder grado e favor senza mia colpa.
Bastami la mia gloria. Ira né torto
non m’indurrà vilmente ad opra indegna;
e serberommi nell’avversa sorte,
qual già fui nell’amica, eccelso e forte.
Piaccia agli dii che tu non abbia ancora
                                       Che? Ad un sol braccio
sta obbligata fortuna? O a me per tante
prove e al Mogol già illustre, Asaf invitto,
prendi. Tuo sia dell’armi il primo impero. (Porge il bastone ad Asaf che ginocchione il riceve)
Plauda il campo alla scelta. Io sarò teco.
Gli auspizi accetto ed a’ tuoi piedi avvinto
                                (Or sì, Cosrovio, hai vinto).
Incerti sempre son dell’armi i casi.
Tentisi tutto, anzi che il ferro.
                                                       Oh sempre
saggia moglie e fedel! Jasingo al figlio
ritorni e mi preceda. Io mi lusingo
                                          Ei guerre e stragi
volge in sua mente. Disarmar quell’ire
mal senza me potresti. Alinda il puote;
e se il zel non ne sdegni, Alinda il vuole.
                            Che mai far pensa?
                                                                  (Ignoto
m’è il nome e il volto). Assai prometti, o donna.
E più farò, che se non fuggi udirmi,
Le squadre di due regni in breve andranno
                                       (Ah, siam traditi!)
Cieli! E a te chi affidò trame sì inique?
Tuo figlio, in vano amor folle e perduto.
                                             E del rifiuto
di tua figlia real son io, sultana,
                                    L’ami tu ancora?
Io! Lo sa Asaf e il dica. Ho troppa gloria
                                           (Quanto è fedele!)
Gran cose in pochi accenti e più ne attendo.
Sì, del prence le trame, i mezzi, i fini.
Va’ a confonderlo poi. Ma s’ei persiste,
vedrai l’armi cader di mano al figlio. (Gianguir e Semira entrano nel gabinetto)
(Chi mai creduto avria quel cor sì infido!) (Si parte)
Mal le altrui mi tacesti e le tue fiamme
con la straniera Alinda e mal ti festi
                                    Presi ad amarla,
non per genio da pria, che in me ne fosse,
                                       Arte infelice
con l’offese obbligar! Ma tu, che or forse
godi in tuo cor d’esser felice amante,
te ne avvedrai. Femmina è rara in terra,
che potendo occupar grandezza e soglio,
porga orecchio ad amor, più che ad orgoglio.
non direbbe così. Fasto, odio, amore,
tutto è felice in me. Giubila, o core.
Pena il mio amor. Più non tacermi Alinda.
Alinda sta in poter de’ tuoi nimici;
e se tardi, avrà in loro i suoi tiranni.
esser lei la cagion del tuo rifiuto.
Gode Asaf, assai spera e tutto ardisce.
chi sostiene il mio amor contro il suo sdegno?
Mal la scusi. A che il nutre? Ella sa pure
le ripulse; e sa i rischi; e sa la fuga.
A lei servon quest’armi, a lei quest’ire.
fossi a me del suo affetto. Un foglio, un cenno
né convincer tu sai le mie querele.
(Di dirgli non ho cor ch’ella è infedele).
d’Agra si schiude. Il re verrà; e rapirti
il trionfo ora tuo. Gli aiuti attesi
son giunti. Ivi è terror, rabbia, tumulto.
le schiere. Altre sul colle, altre nel piano
ed io vostro sarò compagno e duce.
Venga egli pur. Comincerò il mio regno.
da fellonia. Lubriche altezze ascendi,
Di te ho pietade e di cotesti ancora
che tu spingi a morir. Te alfin rimorda
sol per la lor perfidia, il tuo si conti.
Altri figli ha Gianguir. In altri imperi
nel Mogol gli fa il re. Miraca e regno
non fien disgiunti. Ambi tuoi sieno od ambo
avrà per pena tua figlio più degno.
Non vedendo al tuo fianco i miei nimici,
che a segnar qui venissi i giusti patti
Ma superbia ti accieca; e a torto accusi
che stringo in sostener trono ch’è mio.
fu mio dono. Akebar lasciò, morendo,
in Cosrovio un erede. È ver, son figlio;
ma il tuo esempio mi assolve; e tu dovevi,
padre miglior, non arrogarti altero
fin sugli affetti miei forza ed impero.
Misero! Tu trasogni. Tu deliri.
Son tuo padre e tuo re. Più ch’ira e fasto,
so che un mal nato amor fa le tue colpe;
e farà i mali tuoi. Sappilo. Alinda
arde per altri; e tu già oggetto a lei
(Numi, Alinda è spergiura! E m’odia? E il credo?
E lo credo a Gianguir?) No. Sempre tempo
                                     E s’altri affetti
ti giuri Alinda e il tuo dover t’imponga?
Sdegnerò regno e vita e porrò l’armi.
Ma a te, sultan, nol crederò giammai.
A te stesso ben tosto il crederai. (Gianguir va egli stesso ove i soldati han posto a terra il palanchino chiuso e fa uscirne Semira, con la quale parla in lontano)
                                    (Quanto il compiango!)
Jasingo... Ah, tu il sapevi. Io me ne avvidi.
Che dir posso, o signor? Virtù soccorra...
(Donna sleal! Finger con reo consiglio
il padre odiar, per più tradire il figlio!)
Cosrovio, eccoti Alinda. A lei nel volto
leggi il suo cor. Se non ti basta il guardo,
ti confonda l’udito. Odi qual parli.
giunga tua sconoscenza, ingrata donna!
giunga tua cecità, credulo amante!
Sì mal conosci Alinda? Ella detesta
esser di fellonia sprone e mercede.
Asaf abbia sua stima, abbia sua fede.
mio cor tradito, onta, dispetto ed ira.
Che vuoi di più? Così ti parla Alinda.
Parla Alinda così ma non Semira.
riconosci, o Gianguir, la triste erede
del già ucciso Badur. Badur, che stese
in Cambaia e Sorate, a me fu padre.
Oh non mai sazia avidità di regno!
Gli fe’ guerra Akebar. Tu lo irritasti,
non con altra ragion che di rapina.
Lui privaste di vita e tre con esso
innocenti suoi figli. Egual destino
piaciuto al cielo, in quell’età che ignora
Ma pietà fosse o provvidenza, io vissi
serbata dagli dii. Tremane. Il braccio
ecco che sosterrà la mia vendetta.
D’Agra uscir non potea. Giovommi inganno.
Son col mio re, son col mio sposo alfine;
lieto imeneo ma su le tue ruine.
Tu m’hai deluso, è vero. Il frutto io colsi
di chi a femmina crede. Or dopo il padre,
il figlio ancora e qual non sei ti fingi.
Cosrovio. L’infedel temi in Alinda,
Qui più vano è il garrir. Campion già sono
dell’odio di Semira e del mio trono.
Perfidi! Addio, pria che vi salga in mente
ciò che avrò da valore. Io guerra voglio.
E in tua pena l’accetto. Andiam, Jasingo,
fra tanti che ho d’intorno, o a me sol fido.
De’ tuoi nimici anzi il più fier. Fu gloria
del mio zelo e dover salvar Semira
dalla tua rabbia. Ho in lei la mia regina;
né conosco in Gianguir che il mio tiranno.
Crescete pur, crescete, empi, in mio danno.
                                           Quanto ti offesi!
Deh, l’ingiurie d’Alinda obblii Semira.
Semira emenderà d’Alinda i falli.
Ed io vendicherò d’entrambe i torti.
di ragionar contente. Omai sue insegne
move Gianguir. Io da quel colle il vidi.
Se non fosse il piacer della vittoria
che a sé mi chiama, io non saprei lasciarti
senza un fiero dolor. Soffriam l’amara
necessità... Qual nubilo repente!...
Ah, tu corri tra l’armi e tra i perigli,
E dal tuo amore e dal mio sdegno.
                                                               Oh dio!
già mio voto, or mio affanno, io vi detesto.
Val ciò ch’espongo più di ciò che spero.
Oh, fossi a tempo! Ma destin lo vieta.
Si dee pugnar. Quando una volta il ferro
s’impugnò contra un re, non si deponga
che con la vita o col trionfo. Vanne,
mio ben, mio amor, mio difensor. Combatti.
Vinci a te. Vinci a me. Vinci al comune
sovvengati ch’io t’amo; e nella tua
la mia vita difendi; e certo credi
che tra palme o tra piaghe o tra ritorte
il tuo solo destin sarà mia sorte.
Lunge i tristi presagi, anima mia.
Seco resta, o Jasingo, e dall’armata
licenza, ove uopo fia, la custodisci.
                        Regina...
                                           In fra i perigli
utile la tua fé. Pugna al suo fianco.
ricevi ogni sua piaga e a me lo serba.
M’era pena quest’ozio. In quelle amiche
tende per noi fa’ voti. Io lieto corro
Le smanie accheta. A te ricondurrollo
estreme prove di virtù e di fede. (Si parte verso la collina)
Tutti voi pur gite alla pugna. Io sola (Fanno le guardie lo stesso)
nol faccio! Oh destra inetta! Oh debil sesso!
Vinto han gli avversi dii. Sconfitto è il campo.
                                      Ah, tu dovevi
l’opra dal fin. Grado, favor, grandezza,
Alinda, onor, tutto in Gianguir perdesti.
Che fai di quell’acciar che in man sì terso
Volgilo in te. Fa’ un degno colpo alfine;
                                      Torsi di vita
è furore o viltà. Vivendo, posso
Agra difenderò; né i mali miei
                                              Va’. Un vil tu sei.
In ceppi è il mio signor, forse anch’estinto.
Oh rei destini! Oh neghittosi dei
che tanta iniquità!... Ma il duol delira.
Zama non si conosce e vuol vostr’ira.
Vincitor io ritorno e tu sì mesta?
O dio!... Sposo... Gianguir... Quasi la gioia
S’io tardava, il facea. Su. Cor ripiglia.
Ma come! Io ti piangea. Tu in libertade!
Tu vincitor! Qual dio? Qual braccio il fece?
Quello onde men l’attesi. Il generoso
avessi i tuoi consigli! Erano in fuga
mie schiere, io tra catene. Ecco il gran duce
d’Agra sortir. Stuol forte il segue; e tosto
cangia faccia il conflitto; è il fier Cosrovio
vinto e prigione, io sciolto e trionfante.
pagar già col lor capo il fio di tanta
malvagità. Chi gli ha sedotti attenda
destino egual. Re non mi volle e padre.
                                  Se negli alti arcani
di tua mente sovrana aver può parte
zelo di fida moglie, ella si ascolti.
So il tuo senno e il tuo amor. Ma un vil perdono
                           Quel perfido n’è indegno.
Offeso più, tanto più sii pietoso.
Necessaria è sua morte al mio riposo.
Cosrovio è alfin tuo figlio.
                                                E d’ubbidirmi
maggior debito avea, perché mio figlio.
Se fra i delitti suoi conti Miraca...
Miraca, Asaf, il padre, il re e cent’altre
sue colpe e l’armi e il sangue e le ritorte.
Mi sprezzò. Mi fu iniquo; e avrà la morte.
La donna per instinto ama i soavi
                                          Là vi arrestate (Alle guardie in lontano)
col prigionier; né sia chi avanzi il passo
i torti e i benefici, io n’ho rossore).
Se colui che poc’anzi discacciasti,
qual traditor, dal tuo reale aspetto...
tua virtù il suo trionfo; e del passato
non mi far sovvenir che in quella parte,
                                    Io quello feci
ch’era al mio re dovuto e all’onor mio.
Ciò ch’io pur debbo adempierò. Ripiglia
                                             Concedi ancora
ch’io ripigli in favor d’un infelice
                                Che? Tu in difesa
di quel ribelle parleresti ancora?
In esempio al Mogol, giust’è ch’ei mora.
Esempio nel tuo regno e nel tuo sangue
è la virtù de’ re, che su la preda
infieriscon le tigri e al generoso
tu rifletta, o sultan. Tu fosti, e forse
con pretesto minor, figlio ribello.
Cosrovio t’imitò. Tu imita il padre.
L’ebbi ma ravveduto, umil, prostrato.
Non così l’empio. In rabbia ed in orgoglio
vinto imperversa; e la sua morte io voglio.
d’altre stragi feconda. Io te l’annunzio,
non ch’io pensi d’alzar di nuovo il braccio
sento fischiare in alto orribil suono
intorno al tronco busto e al regio trono.
S’ei non cade al mio piè, re più non sono.
e al troppo reo Cosrovio omai preceda
Tua dignità sostieni, o re oltraggiato. (Siede. Dopo breve lugubre sinfonia, precedono a Cosrovio le guardie, su la cima delle cui aste stan fitte le teste de’ decapitati ribelli. Per mezzo queste, divise in due file, Cosrovio a lento passo si avanza, riguardandone or l’una, or l’altra e tacendo per qualche spazio di tempo)
periste, o fidi!... E tu, Jasingo, ancora!
Misero! Io ti serbava altra mercede.
(Cominci a sbigottir l’alma orgogliosa). (Cosrovio, veduto il padre, si avanza con impeto verso lui)
del Mogol tu sei re? Tu l’inumano
Tanto non v’infierir Persi né Sciti,
qual tu che di cotanti e de’ più prodi
suoi guerrier lo spogliasti.
                                                 Io? No. Costoro
erano a me i più fidi, a me i più cari;
né stanco era il mio amor. Tu gli hai perduti.
La tua malvagità fe’ la lor colpa
                                  E i loro mali
vendica in me. Da’ il colmo a tua fierezza.
                                Intendo. La mia testa.
Tua perfidia e alterezza abbian quel fine
che macchinasti. Olà. Soldati. (Le guardie si accostano)
                                                        E sei
tu il figlio d’Akebar? N’hai la corona
ma non il cor. Di fellonia tu fosti
nel sangue di Timur il primo esempio;
e primo anche il sarai di crudeltade.
colpo non sia che spettatore il sole,
se pure anch’egli per orror nol fugga. (Si leva e snuda la sciabla)
Oh fera! Oh mostro! Oh non mai padre! Il mio
non v’era. La trovasti. Oh me reo sempre,
e nascendo tua prole e che, morendo,
non purgai prima di tal furia il mondo.
V’è tempo ancor. Prendi, empio figlio; e sazia (Gittandola a’ piè di Cosrovio)
sul cadavere mio. Troncane il capo.
stillante ancora, a te ne cingi il crine.
                                               Che fai? Che tardi?
Tu calpesti le leggi e la natura.
Soli qui siam. Sicuro è il tuo delitto.
Chi ti ritien? Ferisci. Io son tuo padre.
il troppo altero, il troppo reo Cosrovio.
Ei non cerca pietà. Vuol pena e morte
che lo tolga al suo orror. Ripiglia, o sire, (Raccoglie di terra la sciabla e la porge a Gianguir)
ch’esser deve opra tua. D’essermi padre
scordati alfine. Io non son più tuo figlio.
(Le tue lagrime ascondi, o debil ciglio). (Volgesi all’altra parte, non vedendo Semira che sopravviene)
(Che veggo? Il figlio a’ piè del padre? E in mano
indur ti lasci da un timor di morte?
Supplice reo fa gloria ad un tiranno,
con fortezza il destin. Son teco anch’io.
Sì. Qui vengo, o sultan, non per salvarlo,
me di tutti aggravando i falli sui
che miei pur son, ma per morir con lui.
Che festi, oh dio, Semira? Ed in qual punto
giugnesti? Io chiedea morte; e di riposo
Era egli giusto? A chi ben ama, i mali
Gianguir, l’alma di lui con l’alma mia
Non le divida il tuo furor. D’un figlio
ti farò altri nimici. Io ne ho il potere.
Guai per te, se mi lasci un breve instante,
oltre del padre, a vendicar l’amante.
                              Troppo anche udii. Contenti
saran, perfida coppia, i vostri voti.
Nella reggia maggior tratti all’aspetto
d’altro giudice sien. Comune intanto
e rimorso vi lascio e tema e pianto.
Semira, anima mia, son questi i nostri
trofei? Queste le nozze? È questo il regno?
Il destin non ne volle appien felici.
disgiungerne il crudel. Questa era morte.
La morte non avria con che atterrirmi,
te salva, o del mio cor parte migliore.
Lungi da te un desio che mi vorrebbe
più infelice o men forte o meno amante.
Deh, chi avrà mai sì di macigno il petto,
cui non prenda pietà di sì bell’alma?
Al giudice che avrem, farà più senso
versar sangue real. Chi sa? Vi è ancora
scampo per te. V’è un imeneo. Vi è Zama.
Verrà tutta a sfogarsi in me la pena.
No. Mille morti pria. Son di Semira.
viver o morir teco, idolo mio.
più che l’alma beltà, rese a me cara,
lascio il poter sovra il destin de’ rei.
Padre e re, tal son io che in me parrebbe
nel lor fato il perdono o la condanna.
Signor, nel gran giudizio, a cui mi eleggi,
avrò a cor la tua pace e la mia gloria. (Gianguir sale sopra il trono, servito da Mahobet)
Per Semira, o germana, umil ti prego.
Ella è amabile oggetto a’ miei pensieri.
Giusta esser deggio e l’amor tuo disperi.
O del Mogol eccelsa regnatrice,
serba al trono l’erede, al padre il figlio.
Già presi da equità norma e consiglio. (Ascende anch’essa sul trono, servita da Asaf)
(Implacabile è sdegno in donna offesa).
(Semira è infida e pur ne piango il fato).
Poco a soffrir ne resta. Estremo male
Vincer non puossi, tollerar si deve. (Si avanzano verso il trono. Qui comincia a calar dall’alto e a dilatarsi all’intorno una densa oscura nuvola che, in gran globo aggirandosi, venga ad ingombrare tutto il prospetto della scena. A poco a poco dipoi essa dileguandosi, darà luogo alla veduta di luminosa macchina che scende pure dall’alto, rappresentante la reggia del Sole, deità adorata dagl’Indiani, col gran circolo del zodiaco all’intorno ed altri simboli di essa deità)
Alza gli occhi, o rea coppia, e meco in trono
vedi il giudice tuo. Spoglio me stesso
del mio poter. Tutto il depongo in lei,
per cui cotanto avesti odio e disprezzo.
Ella vendicherà figlia e fratello
e marito e sé stessa; e se mai pena
trovar saprà che i vostri falli adegui,
fin la più atroce sembrerà pietosa.
Qualunque sia, già siam disposti. Morte
quel genio fortunato, onde hai l’impero
sul maggior de’ monarchi. Ecco in tua mano
la sorte di due vite, a dar le leggi
nate, non a soffrirle. Or puoi col manto
ricoprir di giustizia ira e vendetta.
degli uomini appellarmi e degli dei.
sola di me regina. Io soffro e taccio.
Se dal vostro e mio re portata al trono,
a regnar in me stessa, invan per gli ostri
dal più ignobile volgo andrei distinta.
che dispregio e livor. Rispetto e stima
me l’acquisti virtù. Scordo le offese;
tu del tuo re, tu del tuo padre in onta,
vuol quel gran cor ch’io vi rimetta e doni,
vide a’ suoi piedi, e a te, che spinta all’ire
fosti dal duol de’ già sofferti danni.
E accioché al vostro amor nulla più turbi
l’un dell’altra godete, amanti e sposi. (Scendono i due sultani dal trono)
Da sì eccelsa bontà sorpresi e vinti,
che giusti ne parean. Non l’avria fatto
O magnanima donna, o nata al trono.
Io che dirò, gran padre? Io che, regina?
Grazia trovar dove attendea gastigo!
me più di orror, voi più di gloria!
                                                              Figlio,
Doma fasto, ira vinci; e ben ti guarda
da ricader per colpa in novi mali.
che le antiche memorie; e in voi, miei fidi,
cessi ogni affanno; e qual lassù scorgeste
succeder poi, di miglior luce adorno,
dell’India il maggior nume, autor del giorno,
or godete in mirar che, spenta alfine
riede a noi lieto amore e stabil pace.
Per quai vicende a tanto ben siam giunti!
Piacque agli dii nostra costanza e fede.
Quanto di vostra sorte esulto anch’io!
(Datti omai pace. Altro non puoi, cor mio).
un così fausto giorno, in cui di tanti
Più bel giorno al Mogol non sorse mai.
mi dà il soccorso, onde dall’Indo all’Istro
prenda volo sublime e là col canto
onori un più bel giorno, in cui di Carlo
Gli ho da gloria e da fama. Eccomi a vista
del maggior de’ monarchi. Il miro e quanto
con l’alta maestà l’alme atterrisce,
con l’amabil bontà tanto le affida.
e la guerra spaventi, onde anche i tuoi
Ma dove m’alzo? Ove mi spingo? Assai
dissi in voler. Meno è quant’oso; e come
scorge ch’è l’ocean quell’occhio stesso
che non sa quanto ei sia, così la mente,
che a quanto è il tuo gran cor giunger non puote,
oggetto dell’ossequio e dell’amore.

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