Metrica: interrogazione
902 endecasillabi (recitativo) in Andromaca Venezia, Pasquali, 1744 
ne appresta il vicin bosco, ov’è nostr’uso
Così a noi si affacciasse orso o cinghiale.
lor farebbe sentir qual sia in questi anni
Altre fere, altri rischi oggi la vita
                                             Io quegli sono.
di mia casa real vuolsi la mia,
cadrò né smentirò la stirpe e il padre.
Voi qual sia il prezzo della vita e quale
non giungete a capir. A chi vi regge
lasciatene la cura; e pensier vostro
sia l’ubbidir con pace. Ad ogni sguardo
colà v’asconda il sacro orror del tempio.
Ma, signor, se Astianatte oggi è in periglio,
di’ che quegli io mi sia. Viva il fratello.
Io mille vite cederei più tosto
che non esser, qual son, d’Ettore il figlio.
Deh, togline di dubbio e di rancore.
Se non il sangue, ambo ne avete il core.
A me dato è talor dal divo Apollo
dell’avvenir; ma da sé stessa ancora
l’alma è presaga. In sul mattin dal sonno
vetta del tempio in mar guardando, al lido
vidi appressarsi, e ben le riconobbi,
Andromaca, a te corse il mio timore
e al tuo misero figlio. A te può scudo
Chi ’l sarà al tuo Astianatte? In me, comunque
vedrai, donna infelice, un fido amante,
amante sì, ma che in suo cor sospira
e non osa di più, del tuo consorte
la tua virtù tanto egli teme e onora.
Andromaca, io fuggirti? Io che vorrei...
il tedio de’ miei mali. Essi qui tosto
Tolgalo il ciel. Ma donde i rischi e l’onte?
che di Pirro l’amor m’alzi al suo trono
e lei rimandi a Sparta, or vuol mia morte.
E di Pirro l’amor non ti difende?
Gir li convenne ad acchetar sue schiere,
dopo dieci anni, del natio paese.
Ultime a che arrestarle il re d’Epiro?
Lo impetrò il mio dolor. Stavami a core
salvar dall’odio acheo l’amato figlio.
Come farlo, presenti i Greci irati?
Più di tutti a temersi, Ermione or freme.
A quest’ara fuggii, non perché morte
mi faccia orror ma perché il sacro asilo,
sparso del sangue mio, provochi alfine
sovra il capo di lei l’alte vendette.
Al re tu affretta il passo. Ei forse a tempo...
E ch’io ti lasci alla rivale in preda,
potendo al fianco tuo morir con gloria?
commesso ho il caro figlio. A sé anche ignoto,
qual Telemaco sia, quale Astianatte,
quando per lui risorger Troia e possa
un altro Ettore in lui temersi. I Greci
forse non avran sempre un altro Achille.
Ma forse ancor qui avranno il noto Ulisse.
                     E che ne sai?
                                               Più legni argivi
                                       Oh numi!
                                                            Ad Ilio
tutto è fatal ciò che da Grecia approda.
Andromaca ne tema; Ilio è distrutto.
Va’, corri, affretta Pirro; e se al ritorno
mi trovi estinta, ultimo uffizio sia
di tua pietà far che lo stesso avello
m’accolga in pace al mio consorte a canto.
Ubbidirò. (Chiude le voci il pianto). (Si parte sollecito per la via del monte)
O fortunate voi che non mai foste
con l’alta Troia rimaneste oppresse,
nuora, ad Ettore moglie, io sopra quante
donne l’Asia vantò, felice un tempo,
or senza regno e senza sposo e senza
libertà, per signore ho il mio nimico
e nel nimico ho l’odioso amante.
tormi forte saprei. Tu solo ancora,
figlio, viscere mie, non vuoi ch’io mora.
Donna, tu serva sei. Questa che vedi
cui ti diede la sorte, e la ubbidisci.
Son serva, è ver; ma solo a Pirro è dato
sopra Andromaca aver ragion d’impero;
né colei che m’additi è ancor sua sposa.
barbara per natal, schiava per legge,
il suo sposo le usurpi e lei derida.
Siamo ove Troia fu. Cader può ancora
Sparta, regno minor. Tu, se mi sdegni
misera mi rispetta; e se t’irrita
il credermi rival, sappi che Pirro
per me oggetto è d’orror; né avrà lusinghe
tutta la sua fortuna a far ch’io l’ami,
come ha tutto il suo sangue a far ch’io l’odi.
Se vero o falso sia l’odio che ostenti,
ora il vedrò. Sopra ad un pronto legno
Tebe, antica tua patria, o qual più vuoi
Mira come s’arretra e tace e stassi,
qual chi cosa offrir s’ode aspra e funesta.
Ermione, a tua virtù grazie dar posso,
non fuggir servitù con atto indegno.
                                              E il mio signore.
Nulla in Troia rimane, onde t’incresca
                   Ettor vi giace, il morto sposo.
                                            Il san gli dei.
Lo vedi al fianco mio? Povero figlio!
Tu perdi il tempo; e Andromaca non cerca
ma scegliti qual vuoi, fuga o pur morte.
Questa sì; né altro ben da Ermione attendo.
che abbraccio, mi vedrai cader tranquilla.
                                          Che il mio morire
e vendichi i miei mali Apollo irato.
d’Ermione l’ire? Io di là trarla a forza (Vedesi dal monte discendere a gran passi Eleno con parte delle guardie di Pirro)
e del nume anche a’ piè vibrarle in seno
saprò quest’asta. Alle tue offese il colpo
deggio ma più alle mie. Mirami, o donna,
All’ombra di Telemaco cadrai
vittima rea. Vi aggiungerò, lo spero,
mal celato sinora all’odio mio.
                                           E Pirro ed io.
son questi e frettoloso ei di là scende.
il sollecito passo. (Fugge con le guardie d’Ermione)
                                 Ermione ancora
non è avvezza a fuggirlo. E tu, cui torna
ostro vivace a colorir le gote,
usa tua sorte. Nell’ingiusto amante
narrando il tuo periglio e il mio furore.
Lo farei, se d’Ermione avessi il core. (Pirro cala dal monte col restante delle sue guardie)
Grazie al ciel. Salva è Andromaca. Un momento
Non tema Ermione, non Oreste o Ulisse
che, qual n’ebbi già avviso, a questa spiaggia
Tutto in suo ben fa Pirro. Ella il ricambi.
alla necessità cede anche il forte. (Si parte)
(Trame in mio danno. Almen qui fosse Oreste).
Ira sia, che ti accenda, o siasi orgoglio,
qual ragion ti concede o questo o quella,
Sparta questa non è; né al re tuo padre
toccò Andromaca in sorte. Ella è mia spoglia;
col titol nuzial, che ancor non hai,
sul mio core e sui miei, giusto anch’io trovo
sfuggir noia e servaggio. Io non vo’ moglie
che mi rechi per dote insulti e liti;
né sposo sofferente esser m’aggrada.
qui venni armata ad insultarti, o Pirro.
Sposa venni a quel nodo, a cui già furo
O nodo infausto! O mal lasciata Sparta!
Per la vedova d’Ettore si sprezza
di Menelao la figlia; e ch’io l’oltraggio
son degli Atridi; e quel poter, che valse
nella lor casa a vendicare un ratto,
punir saprebbe anche un ripudio. Ah, Pirro!
Contra la Grecia non ripigli l’armi
Andromaca è vil prezzo. Il torto e il danno
prevenir volli con esilio o morte,
Se questo sia risse portarti in dote
o levarne il pretesto, amor tel dica.
questo nome si taccia. A te dispiace
ma che Pirro ti sprezzi. Ormai parliamo
convengon le nostre alme, in non amarci.
Tu in Oreste, io in Andromaca l’oggetto
Me con questa il mio Epiro e te con quello
rivedrà la tua Sparta. Ivi fra poco
ti scorterà il tuo amante; io miglior face
arderò al mio imeneo. Soffrilo in pace.
Pace, sì, pace avrò. Non è dovere
che per alma spergiura io viva in pene.
questo cor, questa mano. Ei la rifiuta.
Sai chi l’avrà? Sarà mio Oreste e, Pirro,
chi mi vendicherà de’ tuoi spergiuri.
fa’ la tua principessa e la tua sposa.
che togli a me. Porta agli altari e a’ numi
Benché donna ed inerme, il suo furore
non si trascuri e più, se la fomenti
Oreste, amante, giovane e feroce.
Ma con lei s’armi Oreste, Ulisse e quanto
tien la Grecia, in mio danno, oggi mia sposa
vo’ che Andromaca sia. Sol mi spaventa
di virtù si sostiene odio e disprezzo.
Ma cederà. L’astringeranno alfine
l’util, la tema e la pietà del figlio.
Non senza gioia io premo, Ulisse, e spiro
ch’Ermione, l’idol mio, respira e preme.
Chi sa che, altrui rifiuto, a me non tocchi
il bel piacer di ricondurla ad Argo?
Sognan gli amanti anche vegliando. Oreste,
serbi Pirro alla vergine reale.
Dell’iliaca sua schiava ei prigioniero,
facil non è che fuor ne tragga il piede.
l’ambracio sen da mille navi anch’egli.
Ultimo a vendicar gli offesi Atridi
allor non sarà Oreste. A Pirro intanto
                                  No. La frigia donna
non dia nipoti al gran Peleo né i greci
talami disonori. I tristi giorni
tragga vedova e serva; e il suo Astianatte
oggi le sia nova cagion di pianto.
Così estinguer con lui potessi ancora
que’ pochi che fuggiro al ferro e al foco
e in estrane contrade erran dispersi.
Odio, che per oggetto ha gl’infelici,
Lo giustifica il danno. Il mio nimico
può fuggirmi in un solo. Io il cerco in tutti.
Non chieggo arcani a chi li tace; e amore
Io qui a Pirro esporrò ciò che da lui
la Grecia esige: il sangue d’Astianatte
                                     Ah, tutto Ulisse
dimandi e nulla ottenga in mio martoro.
Per la patria tu fai voti crudeli.
La patria amo, o signor; ma Ermione adoro.
Amante, cui sia tolto il caro oggetto,
ostenta un gran dolor. Ma qual d’un padre,
orbo d’unico figlio, il dolor sia,
pur ti ritrovo; pur tua destra io bacio. (Corre a baciar la mano ad Ulisse, senza lasciarsi vedere in faccia)
nome più non chiamasti il tuo buon servo. (Ulisse il guarda fisso)
Parmi... Sì, fido Eumeo... sì, che sei desso. (Va ad abbracciarlo)
Piansi tua morte e vivi; e forse il mio
Piacesse al ciel. Vana speranza!
                                                          Ah, figlio!
Qual fior cadesti sul mattin reciso.
Oh stesse Troia ancor! Poco or ne avanza,
per cui miseri siam. Sì, in lei rivolgi
l’odio e vendica i mali. Ella mi fece
col fanciullo rapir d’Itaca al lido,
volge or appunto il tredicesim’anno.
Anno in cui sciolsi a unir la Grecia in armi,
tutta dal frigio drudo offesa in Sparta.
E tratti in Ilio, ella noi visti appena:
«Vanne, uom greco» mi disse. «A me in balia
resti il destin del pargoletto. Ei figlio
è del nimico Ulisse. Or son contenta.
O non donna ma furia! E tu sì tardo
perché recarne il doloroso annunzio?
Scoglio dall’onde cinto esul mi tenne
da’ regni della vita e della morte.
E del figlio i rei casi onde sapesti?
Più volte, oh dio! da’ miei custodi...
                                                                 In tanta
che la rea donna è in vita e ch’ella è madre.
All’ombra di Telemaco poc’anzi
sotto il mio acciar quasi ella cadde estinta.
io vo’ ucciderle il suo; senta una madre
Andromaca sì occulto il tiene a tutti...
Tutti ella inganni. Io son l’accorto Ulisse.
                                        Eh ritrovarlo
saprò ancora tra l’ombre de’ sepolcri.
Lasciami. In nome della Grecia a Pirro
chiederò la mia vittima. Col manto
coprirò l’odio mio, tanto più atroce,
O Telemaco vivo o vendicato               .
chieggo al ciel, pria ch’io chiuda i giorni miei.
Questo far può il mio ingegno e quel gli dei.
incontro con piacer nel saggio Ulisse.
Non so se in me ugualmente, invitto Pirro,
accoglierai quel cui la Grecia elesse
a parlarti in suo nome e cose a esporti
                                           E se son giuste,
ardue a me non saranno. Ulisse parli.
spesso detrae bugiarda a’ grandi eroi,
di Menelao la figlia e la nipote
del possente Agamennone t’accinga
a rimandare in Sparta e del tuo Epiro
sovra il trono a innalzar l’iliaca schiava.
Vero siasi o mendace il suon che offende
la tua fede e il tuo onor, vuolsi ch’Ermione
sia, me presente, tua regina e sposa.
                 Altro a dir resta. A te, qual fosse
Ettore, non è ascoso. Ei cadde e tutto
ci volle il forte Achille e bastò appena.
Ma che? Vive Astianatte. Ai Danai un altro
Ettore in lui già cresce. Al piccol angue
l’ancor tenero capo si conquida,
a noi ne giunga e a te che il covi in seno.
Ulisse, io mi credea che omai più noto
non a soffrirle, avvezza ho l’alma. Il nodo,
a cui si vuol forzarmi, è già disciolto.
Io né qui la chiamai; né qui le diedi
mia fede. Ella n’è paga; e se pur qualche
dolor le costa Pirro, a lei già venne
                                     Dunque al tuo fianco
                                         Tra le divise
spoglie, Andromaca a Pirro, agli altri greci
ne disponga a suo grado; e su la mia
chi sa il destin? Le lagrime materne
lo fan credere estinto. A lei sen chiegga.
Ma della Grecia vincitrice è indegno
il temere un fanciullo; e s’ei vivesse,
ricusar non saprei pietà e difesa.
Ah! Ciò faria d’Epiro un’altra Troia.
Furo ingrati ad Achille e il sieno a Pirro.
Ma per prova già san quanto a temersi
Tu la loro amistà dunque ricusi?
Amici no, tiranni gli ricuso.
giovi esplorar la sorte; e tu d’Ermione
risolviti alle nozze, anzi ch’io parta.
Puoi già disporti a ricondurla a Sparta.
Ciò che in favor d’Andromaca finora
s’è fatto, Eleno, è poco.
                                           E qual d’Ermione
                                Ulisse. Ei la minaccia
                                     Il mal più grave,
che farmi egli potria, morte già fece;
e chi tutto perdé, nulla più teme.
che non festi all’amante. Ancor sei madre;
non Eleno od Apollo, amor mel disse.
Sì, Pirro il sa; ma non lo sappia Ulisse.
Quanto vede un amante! E l’ingannarlo
Se questo qualsisia volto infelice
dell’odio tuo, con vana diffidenza
offesa non avrei la tua virtude.
Pirro, il dirò. Non al nimico il figlio,
l’occultai all’amante. In lui potevi
                                                O dispietata,
che custodisci l’odio tuo, gelosa
fino a temer ch’io ne trionfi!
                                                     E ch’altro
                                       Altro gli debba
la Grecia il salverò. Gli sarò padre;
l’avvezzerò a’ trionfi, ond’egli possa
rimetter Troia e vendicarla ancora.
per lui non ti lusinga, orror ti mova
Dimmi solo ch’io speri e salvo è il figlio.
non è sì disperato amor di madre
ch’abbia a porre in obblio dover di moglie.
ho core, ho ingegno, ho via. Basta che Pirro
Ma tua virtù me ne assicura. In campo
d’inganno e frode, esca a pugnar l’uom scaltro
Ma se avverrà che tu sia vinta e penda
sovra Astianatte asta o coltello?
                                                          Oh dio!
allor non mi sarà lieve speranza.
Ah, che allor tremerà la mia costanza.
pieni del divo Apollo il petto e l’alma,
sovrastava da Ulisse al mio Astianatte.
E che a lui sol potea dal colpo estremo
                                          Oh ben temuti
in Itaca il fanciullo. Ecco vicino
il periglio e il riparo. Ulisse tremi.
Intendo. È tuo pensier che in sen del figlio,
non conosciuto, incrudelendo il padre,
diventi tua salute il suo delitto.
Guardimi il ciel. Qui non è Grecia; ed io
empia non mai. Confonderò d’Ulisse
l’odio, onde incerto tra il suo figlio e il mio,
né l’un sappia abbracciar né ferir l’altro
e tra rabbia ed amor peni e deliri.
Ingegnosa pietà! Ma pur ti giovi
celar la bella coppia e dirla estinta.
Mel crederà? Troppo è sagace. Il tempio
non è sicuro asilo e non rimane
di sì vasta città tanto che basti
                                            Intatta ancora
Ah, che un freddo sudor mi va per l’ossa.
Temo l’augurio del feral soggiorno.
L’addita. Occupi il misero i presidi.
Cedo. Entrambi raccolga il sacro avello;
e stette Troia e cadde, alle profane
mani anche l’ombra formidabil sia.
L’incarco a me. Te amor tradir potria.
ove cerchio ti fan l’altre grand’alme,
incontro mi vedrai frode e periglio,
reggi la madre e custodisci il figlio.
Oreste è in Troia. Io lo bramava allora
che lontano il credea; vicino il fuggo;
né so perché... Ma invan lo fuggo. Amore
si lusingò di non spiacerti amando,
e lontano e vicino ognor gran pena,
Tu sì mesta, perché? Quand’io sì lieto
nell’amabil tua vista e nella speme
che dall’altrui disprezzo...
                                                E disprezzata,
d’Ermione amante! Vantami, se m’ami,
Giurami stragi, incendi e quanto fece
per Elena la Grecia. Anche la figlia
                                            E la gloria
ne avrà il forte amor mio. Ma se con l’ira
va congiunta la speme, in che ti offendo
col piacer che n’ho in fronte? Ah, se mi amassi!
Se t’amo, Oreste? Io t’amo; e dirlo posso,
non moglie ancor. L’altrui perfidia assolve
Ma forza di destin vuol ch’io tutt’opri
                                     Il suo destino
non t’augurar, che t’odierei.
                                                    Ma intanto
la man per Pirro, i voti per Oreste.
seguirmi, armar la Grecia, al nostro fianco
trar la vendetta e punir Pirro.
                                                       E sposo
d’Andromaca punirlo. Oh vana, oh tarda
vendetta. Io la ricuso. Un sol momento
Già a tuo favor parla per tutti Ulisse.
                                           E se i giurati
                                           Se gli ricusa?
                                  Povero core!
Vittima tu sarai d’odio o d’amore.
Ermione parte; e sta turbato Oreste?
ciò che sanno Argo e Sparta, a te non dolga.
               Fin da’ primi anni avvinse i vostri
cori scambievol laccio. Io lo rispetto
e seguo quel destin che mi rapisce,
per lasciar più contenti i vostri affetti.
Quei d’Ermione contenti? Ella vuol Pirro.
Eh, non dar fede al suo furor. Vedresti,
sol ch’io piegassi a lusingarla, amore
disperarsi, languir, pianger, pentirsi
e in faccia a’ numi sospirar l’amante.
Tutto esser può; ma lei, più ch’altro, or punge
l’ignominia del torto. E madri e nuore
vergine in Grecia mostreranla a dito,
                                          E vi ritorni
tede per due imenei splendan felici.
grazia e poter. Sposi vi attendo al tempio.
Libero parlerò. Non se il tuo Epiro
mi faresti, o gran re, dono più grato
di quel d’Ermione. Ma, perdona, puoi
torla ad Oreste, non donarla. Resa
può dispor di sé stessa. Io l’amo e pendo
dal suo voler. S’ella consente, al tempio
serve al suo sdegno e tuo nimico io sono.
schiere destando la sdegnosa Ermione
e di ragion le serve anche beltade.
nulla oserà ch’io non lo sappia, a lei
Oh, tal difenda Andromaca il suo figlio!
                                        Prenda consiglio.
ruine uscite, accelerate il passo. (Escono Astianatte e Telemaco di sotto ad alcune ruine)
                                               Onde il periglio?
Sete ha del vostro sangue il fiero Ulisse.
artefice d’inganni e tradimenti. (Eleno tenta di alzare una pietra che chiude l’ingresso al sepolcro d’Ettore)
siami un acciaro o nella destra un dardo!
                               Questo gran sasso appena
avel del genitore, a che si turba
alle onorate ceneri il riposo?
Forse acciò le sparghiam d’edere e fiori.
                              Oimè! Che duro scampo?
Dover, prima che morti, esser sepolti.
Aspro ma solo. Dal furor nimico
chi vi difenderà meglio del padre?
Entriamci pur, che v’entrò prima Ettorre.
Se ne arridono i fati, avrem qui vita;
se ne ricusan vita, avrem sepolcro.
E tu perché t’arretri? Il luogo sdegni?
Il luogo onoro, del mio padre albergo;
ma schivo di celarmi e il tengo a vile.
                               Ah, nol farebbe il padre!
Se fuggi aver con lui comun soggiorno,
l’altro, che già ubbidì, sarà il suo figlio.
Tomba del padre mio, dunque ricevi
il tuo Astianatte. Oh scellerato Ulisse! (Entra)
Freno appena le lagrime. Già torno
a rimettere il sasso e chiudo il varco. (Rimette il sasso al luogo di prima e chiude la sepoltura)
Se non posso il mio figlio, almen ch’io vegga
                                           Ah, tu qui ancora!
Può tradirti il timor. Va’. Piangi altrove.
Chi teme da vicin suol temer meno.
A fronte avrai lo scaltro Ulisse. Eh, parti.
Lo star lungi m’uccide. A’ miei tormenti
                                 A senno tuo; ma senti.
Greci, ogni via chiudete. Ecco la fera.
(Qui Ulisse! Apriti, o terra, e l’inghiottisci).
(Le si taccia or Telemaco e s’inganni).
Donna, in Ulisse il messagger de’ Greci
ti parla. Ov’è Astianatte?
                                               A che mel chiedi?
Ragion d’impero non si rende al servo.
Sempre la madre tien ragion sul figlio.
A contender non venni. Ov’è Astianatte?
Ov’è Priamo? Ove Ettorre? Ove tanti altri
frigi? Tu d’un sol chiedi ed io di tutti.
Ti faranno parlar verghe, ugne e ruote.
Minaccia incendi e piaghe e fame e sete
e l’arti tutte del furor. Son madre.
Sciocco è tacer ciò che dirai fra poco.
Tanto preme ad Ulisse il farmi misera?
Preme alla Grecia. Non si vuole un altro
a Telemaco tuo d’Itaca il regno.
Telemaco rammenti? Oh scellerata!
Qui non Ulisse, il messagger de’ Greci
                   E mi dileggi? E tu facesti
Tu ne ignori il destino e rea mi accusi?
Spira egli aure di vita o giace estinto?
Ne’ regni della morte ei sta vivendo.
Siagli tosto compagno il tuo Astianatte.
Sei consolato. Or va’; riporta a’ Greci
sì grato annunzio. Esca il premuto duolo.
D’Ettore il figlio e mio sta già sepolto.
Falso è quel pianto. Ulisse io sono e d’altre
madri, e madri anche dee, vinte ho le frodi.
Senti. Prego il gran Giove e Pluto e Dite
e l’erinni implacabili che quanto
di mal può farmi Ulisse ora mi faccia,
lo stesso avel Telemaco e Astianatte.
(Spenta è dunque con lui la mia vendetta?
Che fo? Lo credo! E a chi lo credo? A donna
e madre? No. Qui ci vuol tutto Ulisse).
(Ristretto in sé, medita nuovi inganni).
Da’ grazie al ciel di non aver più figlio,
che s’ei vivesse, dall’iliaca torre
precipitato e lacero il vedresti.
(M’abbandona lo spirto. Oimè, che orrore!)
(Tradì il timor la madre. In questa parte
diamle altro assalto). Ite veloci; e ovunque
e per le chiome a me il traete, o servi.
Non lasciate ruina, antro o sepolcro.
Son per lungo uso al mal sì accostumata
Ma tu non lasci di guardar la tomba
vedrò s’ora tu sia madre o consorte.
Quel sepolcro abbattete e le odiose
ceneri all’aria disperdete e al suolo.
Rispettaste i sepolcri. Ah, se l’osate,
resisterò. Mi darà forze l’ira.
Lasciatela gridar. Mano alle scuri.
Oh dio! Marito e figlio io vedrò oppressi
da una stessa ruina? A te le mani
Aprimi il sen, se qui lo credi ascoso.
Eh, non si tardi più. Spezzate il sasso.
Io ti potrei punir col tuo furore;
ma da pietà mi è tolta la vendetta.
Su, fa’ aprir quella tomba; e se non basta,
due Astianatti ti addito. Uscite, o figli. (Due soldati aprono la sepoltura e n’escono Astianatte e Telemaco)
Non ti sapea due volte madre. Poca
una vittima sola era ad Ulisse.
Madre, per te siam resi a nuova vita.
E colui vi condanna a eterna notte.
Sarebbe ei forse il fraudolente Ulisse?
Leggo in quel volto inganno e crudeltade.
Pia crudeltade! Fortunato inganno!
Tanto non esultar. Ma in tua fierezza
                                            E in me lo vedi.
Fra lor lo scelga la tua rabbia.
                                                       In ambi
lo troverà la morte. A me qual danno?
Sì, se non fossi padre. Omai da’ il cenno.
Fammi teco infelice. In Astianatte
Astianatte in Telemaco. Nel morto
avrai sempre il tuo figlio, il mio nel vivo.
Se perdi entrambi, miseri egualmente
saremo ma tu solo scellerato.
L’arcano è tutto mio. Pensi atterrirmi?
Son la vedova d’Ettore e son madre.
Tu resta in tuo furor nimico e padre.
Fermati. Dove? A chi mi lasci, o madre?
Io d’Ulisse in balia? Meglio l’orrore
Nella mia tenda custodite entrambi.
Il figlio in me non ricercar. Sarebbe
amabile il mio padre; ed io ti abborro. (Si parte)
Astianatte son io. Regni e grandezze
mi tolse il fato; almen mi lasci il nome. (Si parte)
Dal non usato stordimento alfine
Tu cercavi un sol bene. Ecco ne hai due,
puoi? Si uccida Astianatte; amor ne trema.
Telemaco si abbracci; odio il ributta.
Chi scioglierà l’inestricabil nodo?
Natura? Arte l’ha vinta. Ulisse a entrambi
dar posso ad una madre? In su quel labbro
Che farò? Grecia, Pirro, odio, natura,
tutto mi nuoce. Timido, perplesso,
più non si riconosce Ulisse istesso.
A te l’infanzia confidai del figlio.
Tu gli fosti altro padre. Eumeo, mel rendi.
della crescente età le prime tracce.
Chi sa? Natura ha le sue voci? Udiamli.
Qual sia il tuo figlio? Andromaca già il disse.
Indovina, se il puoi; scegli, se l’osi.
L’un di voi morirà. Decida il caso.
Il caso potria farti un parricida.
Me scelga il tuo furor. Sono Astianatte.
Lasciami il nome mio, picciolo dono;
e sol per aver morte io tel dimando.
siamo entrambi Astianatte; e odiamo Ulisse.
qual dei due sia mia prole; e so ch’entrambi
                             Con qual arte instrutti
                                                Oh figlio! Oh figlio!
Mi ributta ciascun! Natura ingiusta,
Oh me cieco finor! Metti in riposo
l’alma agitata. Alla real tua tenda
                                    Che sarà mai? (Astianatte e Telemaco partono seguiti dalle guardie)
La superba al tuo piè cadrà fra poco;
ma pietade in tuo cor non abbia loco.
Spesso travede e facili si finge
le fortune il disio. Ma il grande arcano
meglio forse a costei trarran dal seno
                                A me che chiede Ulisse?
smania, affetto, timor qui trae la madre.
voglio pietà. Mostrami il figlio mio,
pria che altronde il conosca; e il tuo ti rendo.
Ti pentirai di non aver creduto.
E se parlo, avrò fede? Io, che cotanto
già t’ingannai, posso ingannarti ancora.
mi trarrà d’incertezza. Ambo in tal guisa
Nel men nimico il cerca o nel men forte.
Odian del pari Ulisse e minacciati
                                         Or vedi, Ulisse,
ciò ch’io feci per te. Cotesto figlio,
che conoscer non puoi, d’esserlo ha sdegno,
perché ha troppa virtù. Chi l’ha nudrito
i semi della nascita. Gli apprese
diffidente, crudel. Tutto gli fece
disimparare il padre e degno il rese
d’esser d’Ettore figlio o di parerlo.
ben mi vendicherò nel tuo Astianatte.
Riconoscilo prima e poi minaccia.
Andromaca, il tuo orgoglio. Ecco all’arcano
squarciato il velo e il mal negato figlio.
Chi ’l nega? Tu lo vedi e il vede Ulisse;
Faccianne prova omai. Piangi tua sorte.
Questi d’Ulisse sia, quegli di morte. (Preso per la sinistra Telemaco, lo presenta ad Ulisse e con la destra addita Astianatte ad Andromaca)
(Con qual arte, onde il seppe?)
                                                          (Osservo e ascolto).
Di’, ben m’apposi al ver?
                                               Viscere mie, (Ad Astianatte)
di perderti? Ah, ti perdo e nulla feci!
Vieni. (Prendendo il fazzoletto)
               In me ben sentia d’Ettore il sangue.
Prendi gli amplessi; prendi i pianti miei. (Mostra di piangere)
a te pur, figlio mio, così direi.
A pianto femminil creda chi vuole.
dell’industria materna è quel sorriso.
Credilo. Eumeo non sa ingannarti. È questi
la provvida natura impresse il segno
né te più dubitar. Toglie i sospetti
portò in nascendo il manco lato adorno.
                                   È ver, non più; la cara
men facea pompa. Oh sospirato figlio!
Padre anch’io ti dirò, se quel mi serbi,
con cui i teneri vissi anni innocenti.
Andromaca, che fai? L’accorto ingegno
dov’è? Dove il gran cor? Misera! Un breve
tempo ti resta. Il tuo Astianatte abbraccia.
Meco egli poi quelle ruine ascenda
                                          (Oimè, per lui qual morte!)
Numi avversi, vinceste. Esulta, Ulisse.
quegli è tuo figlio. Io l’educai qual madre.
Vedilo. Ei porterà sol per mia cura
sono al tuo sangue e alla tua Grecia. In lui
ho formato un eroe. Tempo è che alfine
io n’abbia il guiderdon. L’avrò. Ma quale?
Te, mio Astianatte, in quelle pietre infranto.
A pietà m’indurria l’iliaca donna;
ma, se il fiero garzon restasse in vita,
che ne dirian le argive madri? A questo
sol venni; e nulla posso. Ei morir deve.
(Segua il peggio che vuol; farò ch’ei viva). (Parte non osservato e frettoloso)
Grecia teme un garzon? Troia sì poco
farien l’alma smarrir tante ruine.
Tronca gl’indugi. Ogni momento parmi (Ad Ulisse)
dovuto al lungo duol, che per cotesto
tuo figlio ella ne fe’... Ma qui non veggo
                                   Tu resta; e ad Astianatte
e mio solo dolor, se col prostrarne
al carnefice tuo pietà sperassi,
di lungo pianto; e a te direi: «Tu germe
di tanti re, di tanti eroi, tu ancora
ciò che fortuna a’ miseri prescrive».
Ma so che van sarebbe il prego e il pianto
e in quel crudel più cresceria fierezza.
per quanto puoi... Dirti volea... Fa’ core.
Ma Andromaca non l’ha. Cedo al dolore.
Molto ho finor taciuto e lungamente
dover lasciarla aspro pareami e atroce;
ma alfin natia virtù soccorse il frale
e mi diè forza e spirto. Addio, diletta
madre. Vado a morir. Tu piangi? Oh dio!
                                                    Ahi, figlio mio!
Ti affretta; (Ad Astianatte) e tempo a lagrimar tu avrai. (Ad Andromaca)
Volgiti e mira con che franco aspetto
vile, o sempre inumano, o sempre Ulisse,
di mare in mar ramingo. Assorti i fieri
compagni tuoi, sol tu ne sii rifiuto;
e l’omicida tuo sia nel tuo sangue. (Vedesi Astianatte coi due soldati asceso su l’alto della torre)
sta già su l’alto. Io già do il segno... (Ulisse, preso in mano il suo fazzoletto in atto di volerlo alzare verso quegli che sono già su la torre, Andromaca corre a trattenerlo e poi furiosa verso la torre si spinge)
                                                                 O numi.
Pirro. Ulisse. Pietà. Sovra me cada
quel caro peso. Esso me opprima ancora.
O l’altrui viva o il figlio tuo pur mora.
                                       Ah, mio signor, soccorri
la desolata Andromaca. Qui altr’armi
non ho contra furor che inutil pianto.
Hai l’amor mio. Prendi coraggio e speme.
Oh Telemaco incauto, ove sei corso?
Per salvare il germano, in braccio a Pirro.
tutt’altro esigeria che ferri e piaghe.
Ma a te spetta esser padre; ed io, sol quanto
che avevi in cor la nimistà co’ Greci
ti fosse in grado esercitar le prime
titolo profanando, in cui sostengo
non ti concede impunità all’oltraggio.
La Grecia in Astianatte ha il suo nimico.
E l’innocente in Pirro ha il suo sostegno.
Vorrai che in civil guerra ardan tuoi regni?
Egli a Ulisse or varria quella d’un figlio?
(Tra la speme e la tema or sorgo, or manco).
Me l’onor mio, me della patria il zelo
ho dolor d’esser padre. Orsù, si salvi
ma tua sposa sia Ermione; e da te lungi
tragga la frigia schiava oscuri giorni
col figlio suo. Povero, errante e senza
finiran di temerlo. Abbia il tuo amore
di consigliarsi e di risolver tempo.
Resti ad ambo il suo ostaggio. Addio. Ma sappi
che, se in tuo cieco amor ti ostini e perdi,
nulla al reo parto dell’iniqua madre
varrà che tu sia amante o ch’io sia padre. (Fa cenno che scendano dalla torre Astianatte e i soldati)
La tua pietà fa ch’io sia madre ancora (A Telemaco)
E il mio dover fa ch’io sia ognor tuo figlio.
Egli in mia tenda al suo destin si serbi.
E quando cesserete, o fati acerbi? (Telemaco parte con le guardie di Pirro)
Quai grazie, invitto Pirro, a te dar posso?
Quelle ch’esige amor, quando n’è degno.
La tua virtù n’abbia la gloria. Amore
né inciampo sia nel più bel corso all’opra.
No, Andromaca. Sia vinto il cor da’ mali
e grato sia. Lunge i pretesti alfine
dell’odio. Ettore, Achille e Priamo e Troia
che t’ama e sua ti fa regina e sposa,
si ricompensi, si gradisca e s’ami.
Come farlo, o signor? Muore Astianatte,
se si ricusa Ermione. Ulisse il giura.
suo minacciar non ti dia noia.
                                                        L’armi
cadran di cento re sopra il tuo regno.
Deboli e stanchi non han cor né forza;
né senza Pirro avrien mai Troia oppressa.
fui sofferente. Il cor natio ripiglio;
odierò con furor. La madre ingrata
vo nel figlio a punir. Mi attende Ulisse.
                                                    Risolvi.
Oh natura! Oh dover! Lasciami un solo...
No. Alla torre o all’altar. Pirro o Astianatte.
Facciasi. Oh dei! Verrò, qual brami, al tempio.
e a Pirro giurerò perpetua fede;
ma tu da Ulisse e dalla Grecia al mio
                                Io giurerolla eterna
                                      Cara, qual vuoi;
ma volgimi più lieta i lumi tuoi.
basta un’ora e alla fuga. Io questa abborro
terra fatal. Tu mi sarai compagno.
Pirro vi assente e Pirro a me ti cede.
E questo ancora? Ei qual poter, qual dritto
Ella, sì, partirà ma vendicata.
Sento i tuoi torti. Argo, Micene, Sparta
Restar qui, vendicarci e poi partire,
ciò ne convien. Lunga ed incerta guerra
                                    Chi?
                                                Pirro; e lo svena
                                                Io svenar Pirro?
Che? L’amor tuo vacilla o il tuo coraggio?
Non coraggio od amor, virtù ne trema.
Colpa non è punir un empio.
                                                      Eh, siamo
i nimici di lui, non gli assassini.
che assai vuol meritar, meno ragiona.
Ma se ti manca ardir, dammi i tuoi fidi;
unirò i miei. Tentar può Ermione e farlo,
                                               Oreste vuole
ubbidirti o perir. Tutto gli è gloria.
campione, addio. Torna nel sangue intriso
di quel vil traditore; e son tua sposa.
                                                Egri pensieri
a disgrado del cor movono il piede.
Una rival dolente è un dolce oggetto.
Godon de’ mali altrui l’alme volgari.
Tu sei l’amor di Pirro, io il suo rifiuto.
Io non t’invidierei tanta fortuna.
Qual violenza e forza al tuo gran core!
Adattarsi al destin spesso è virtude.
Già so quanto tu sia nimica a Pirro.
Che si può far? Tra i giri delle cose
La vedova d’Ettorre un raro esempio
verso il morto suo sposo era di fede.
Aspetta d’esser madre; e allor ragione
                                      Mi attende al tempio.
esserne spettatrice Ermione possa.
Giust’è. Doveva Ermione esserne parte.
                                             Eh, poco nuoce
al giubilo dell’alma il nero ammanto.
Povera Ermione! A te gramaglia e pianto.
si giudica dal volto. Ombra del grande
Ettore mio, non ti turbar. Dell’opra
maturi il fine e sta’ nel tuo riposo.
La fortunata Andromaca non sdegni
pria ch’ella scioglia a miglior cielo e lido,
Qual linguaggio è cotesto? E quale addio?
Sinché fra le sciagure a te mia fede
esser util poté, prove ne avesti.
Grazie agli dii. Cessan tuoi mali. Un altro
padre avrà il figlio tuo. Tu un altro regno.
Sì, un altro regno e un’altra vita ancora,
qual nella lieta feci e nell’avversa
Già il funesto del volto assai mi dice.
quello sposo tradir, per cui sol vissi?
io giurerò d’esser consorte a Pirro.
Ei giurerà d’esser sostegno al figlio.
E lo sarà. Feroce ma sincero,
non mi lascia morir con un ingiusto
E pur ritorni a ragionar di morte?
Non sì tosto a lui data avrò la destra
troncherà di mia vita i brevi giorni
e forte adempierà la mia virtude
Andromaca, Astianatte, Ettore e Pirro.
Oh mal peggior del già temuto! Eh, lascia...
No. Tutto è vano. Ho stabilito; e s’ora
in te posso sperar pietà d’amico,
due prieghi a te ne porgo: il far che Pirro,
memore di sua fede, ami il mio figlio
e che il mio figlio qual suo re l’onori.
Ei non pensi a vendette, a Priamo, a Troia.
abbia egual la virtù, miglior la sorte.
Oh generosa, oh misera regina!
volea opporsi fortuna. Il fiero Oreste,
da Ermione spinto, esser dovea nel tempio
ordir non si potean trame in mio danno.
Son disposti i ripari. A lui l’ardire
verrà meno o la forza. Avrei su entrambi
rispetto, in questo il padre. Assai d’Ermione
mi vendica il suo sprezzo, assai d’Oreste
il disonor dell’assassinio enorme.
Non si funesti il dì delle mie nozze
Ah, non fur mai nozze più infauste, o sire.
Temi per Astianatte? Ulisse è padre
Andromaca m’inganna? O vuol tradirmi?
deggio, onde tua virtù le sia in soccorso;
ma la sua morte vedovo e dolente
ti lascerà all’altar. Sarà a sé stessa
vittima e sacerdote. Altro consiglio
voci per lei saranno Ettore e il figlio.
Oh fulmine che abbatte ogni mia spene!
Andromaca! E fia ver? Torle di mano
saprò quel ferro e del morir la via.
tutto impedir si può, fuor che la morte.
con che oscurar le tue, con che d’Achille
le glorie andate. È tempo, o re, d’un grande
atto che illustri tua memoria e vita.
stanno al tuo amor. Cader d’Ulisse il ferro
sopra il figlio d’Ulisse. Oreste è armato
Ermione, dopo lui, la Grecia tutta
metterà in armi. Vinto o vincitore,
il tuo Epiro arderà di civil guerra.
Tanto avverrà, s’anche il tuo amor fia lieto.
Ma Andromaca nol vuole. A me vederla
par nel suo sangue involta, in braccio a Pirro
cader. Qual per te allor pena e rimorso!
Ne taccio il più; ciò che far dei pur taccio.
Meglio il dirà la tua grand’alma; o meglio
l’udrai dal divo Apollo, onde fui spinto
a parlarti così. Vuoi? Core e hai vinto.
sciorre? Quale annodar? Lasciar colei,
mia lunga spene e mio vicino acquisto,
per poi sposar la dispettosa Ermione?
No, ripugna l’amor, gloria dissente.
abbiam fatto tremar, l’abbiam costretto.
Per Briseida così non fece Achille».
questo trionfo. Sposerò... Ma, oh nozze
Qual cor del mio fu più stracciato? In cento
pensier mi aggiro e resto e torno e parto,
veggo Andromaca esangue... Ah, questo, questo
vincerà alfine. Andiamo, o Pirro, e s’anche,
ne freme amor, rispondi: «In sì ria sorte,
se nol cede virtù, mel toglie morte».
A mia vendetta mancherebbe, Oreste,
un gran piacer. Vengo a goderne io stessa.
E da’ tuoi lumi io prenderò un ardire
che fuor dell’uso a me venia già meno.
Mi dice l’alma un non so che di lieto
                              Un non so che la mia
                        Taci. Ecco a noi Pirro e seco
Andromaca, i due figli e il greco stuolo.
Prenci, in ciascun di voi tacciano alquanto
pensier funesti e trame inique e sdegni.
sovra Pirro han poter. Di questa donna
la virtù ne ha il trionfo. E sposa e madre
ella m’insegna come amar si debba.
                                    Ah! Siam traditi! (Piano ad Oreste)
d’Ettore successor. Col tuo Astianatte
vivrai giorni beati; e non l’Epiro
ma degli Adani il picciol regno è tuo.
Troia ne sorga a ingelosir la Grecia.
Eleno verrà teco. A lei tu il figlio
                                               Ma se d’Ermione...
A lei già parlo e a Oreste. E qual indegno
pensier vi cadde in mente?... Ah, si risparmi
Ma dell’error la pena avrete; e questa
sia l’imeneo già ricusato. Ermione,
eccomi sposo tuo. Dispetto il volle
e vendetta n’è pronuba. Il tuo Oreste
tornerà solo in Argo e desolato
del tuo non meno piangerà il suo fato.
di Pirro i gran trionfi. Or n’ha un maggiore.
Oh, con qual gioia a divulgar tuoi fasti
della guerra ecco i semi. Ermione è paga;
né più nomi saran d’odio o di tema
Grecia vorrà. Mallevador n’è Ulisse.
                              Il dover. (Ad Oreste) Qui già da Sparta (Avanzandosi verso Pirro)
venni, o signor, per esser tua. Sprezzata,
n’ebbi smania e furor. L’istesse offese
ti provano il mio cor. Se men pregiato
ti avessi, reso avrei sprezzo per sprezzo.
Ma grave m’era il perderti. Or tua sono
e in tuo favor fo un nuovo sforzo... Il sai. (Guardando Oreste)
nozze a noi di dispetto e di dolore,
ne saran di concordia e poi d’amore. (Si rimette nel mezzo a fianco di Pirro)
(Va’. Confidati in donna, amante core).
Io non credea che in terra, Ettore estinto,
Ma nella tua, gran re, scorgo il mio inganno,
sopraffatta così che, se in quest’alma
non vincesti l’amor, vinto hai lo sdegno.
farò voti per te; faralli il figlio;
per le sciagure mie solo immortale.
Troia fuggiam, sempre funesta a Pirro.
Sereno è il ciel. (Chi più di me è felice?)
Han pur fine, Astianatte, i nostri affanni.
Tu solo in me serbasti anche la madre.
Quante in un dì vicende or liete or meste!
Tu in Itaca, tu in Argo e noi in Epiro.
Ma nel gaudio comun, sol io sospiro.
Nelle romulee carte e nelle argive
accrebbe al ver l’età lontana e quanto
a suo ingegno gli eroi! Non di te, Elisa,
direm così. La lode al ver non giunge
e ne dispera. La presenza e il merto
arrossir fa l’idea che in sé, per quanto
ti formi eccelsa, assai maggior ti trova.
Felice il secol nostro, in cui n’è dato
esempio di virtù goder sì raro
che farà invidia all’avvenire e scorno;
che in farti de’ lor carmi alto soggetto,
adorni il crin del più sublime alloro,
più ricevan da te che tu da loro.

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