L’ire ammorzi al dio guerriero
un sincero e forte obblio,
come anch’io con salda fronte
di quel fonte nel profondo
questa ascondo accesa face;
qui ti giuro e qui prometto. (La getta nel fonte)
Sì, volate e non tornate,
un de’ suoi non viene almen.
Del tuo labbro ov’è la fede?
Dov’è il tenero tuo amore?
che portaste ambi al mio piede?
Eh quest’alma non vi crede.
Fu sinora il suo bel nome
dolce oggetto del mio affetto
fu sinora; or non so come
con memoria troppo amara.
i suoi mirti amore innesti;
ed il ciel più lume appresti
all’ardor della sua face.
i suoi mirti amore innesti;
ed il ciel più lume appresti
all’ardor della sua face. (Segue il ballo. Scendono tutti dalla macchina)
Odio il foco e tutta avampo.
Sdegno il laccio e poi v’inciampo.
non si deve e non si può.
d’odio armate e di furor,
stelle rigide e spietate.
Ho due figli e non son padre.
Se ne assolvo un con l’amor,
quegli forse è il traditor.
Se poi giusto un ne condanno,
Quanto mai v’assomigliate
tutti a me, vezzosi fiori.
Con gli ardori il sol v’offende,
pur del sole i rai bramate.
Me di sdegni un padre accende,
m’empie un figlio il sen d’amori.
Se la speme è fatta indegna,
alma mia, più non si speri.
Se una colpa amor v’insegna,
più non si ami, o miei pensieri.
vaghi rai, già tanto amati,
qui mi scordo il vostro amor.
Ma se miei più non sarete,
voi, bei rai, la colpa avrete,
io la pena ed io il dolor.
Ah, per chi volete piangere,
occhi miei, se non piangete
nel periglio del mio ben?
Questo è il tempo omai di frangere
quel rigor che racchiudete
voi ne’ guardi ed io nel sen.
Per goder un ben sì caro,
più legger mi par l’error.
Sdegni miei, che far si può?
quel crudel che m’ingannò.
in quel sen che mi scacciò.
Da voi parto e vi consegno
all’orror del vostro fallo.
A chi lascia d’esser figlio,
nel suo duol e nel mio sdegno
sovverrà d’esser vassallo.
su quest’alma, irato ciel.
Mi condanni il padre a torto,
il fratel mi voglia morto,
il mio ben mi sia crudel.
Volgi ’l guardo ad altro amante.
tu sarai ma non già sola.
Anche l’ape, se in un fiore
mancar vede il dolce umore,
ad un altro allor sen vola.
Quando perde la speranza,
lice allor che pianga amor.
il dover d’un gran dolor.
Pace implora al duol quest’alma
ed amor risponde: «Pace».
Così allor che pena e teme,
con la speme e con la calma
il mio duol sospira e tace.
Va pensando un gran pensiero
la costanza del mio onor.
Va volando alla sua sfera
la speranza del mio amor.
Più che sorge, allor più spera;
più che spera, ha più vigor.
Io vi lascio, o luci belle;
ma de’ rai, che in voi adoro,
tutto avrò nel sen l’ardor.
Son lontane ancor le stelle;
pur quaggiù de’ lampi loro
giunger sa la forza ancor. (Si parte)
Sì, l’adoro; e credi a me
Questo è quel che dir ti so.
Se nel sen degl’incostanti
resta almen qualche favilla,
Perché allor de’ sciolti pianti
a svegliar l’antico ardor.
Mora, sì, ma sol chi errò;
e se il cerchi, io quello sono.
Io sol reo per troppo amore,
più non merto, o genitore,
né ti chiedo il mio perdono.
Man di padre e man di re,
per giustizia o per viltà?
Quell’orror, che nacque in te,
Ombre liete, aurette placide,
lusingate il mio martoro.
Lusingate... Ah, no, nol fate,
che un delirio è del tormento
l’affidare all’ombra, al vento
Del destin fra le procelle
nella pace ha il porto amor.
E all’ardor di liete stelle
fortunata prova ogni alma
dolce calma al suo dolor.