Veggo. Il so. Ma non ascolto
Vo’ che l’opra a me lo scopra
han da’ ceppi il cor disciolto;
e dal danno del suo inganno
quando rea si vuol la fede.
Se amor brama esser felice,
serva ognor con cieca fede.
Ben sovente ella si pente;
ed allor del cieco amante
odio e sprezzo è la mercede.
Reo sia il cenno o sia innocente,
e amor sempre è sua mercede. (Partono Eurialo e Cleone per varie parti e in questo apresi la porta della casa di Enone, la quale n’esce colle sue ninfe)
Ho pietà che non ti giova;
all’abisso, in cui cadesti.
Quando, o Paride, in un core
da ragion si scosta amore,
appetito a mali il tragge
Spargerà sospiri e lagrime
il bel labbro, il gentil viso;
terge il sol da fresca rosa
che parea poc’anzi ascosa,
di onor priva e di beltà.
Oh! Se fosse a chi ben serve
d’esser dono, e non mercé,
di un fatale e cieco error.
Più soavi e più gioconde,
festeggiate il nostro re.
Re più grande, re più giusto,
quel gran ben che il mondo crede,
se possanza a trar d’affanno
mai non hanno un cor di re!
Quante volte anzi è costretto
dal dover di sua grandezza
a svenar ogni altro affetto
di pietà, di amor, di fé!
Vado, o sposa. Un guardo irato
dammi ancora e vado a morte.
Oh! Foss’egli sì spietato
che bastasse a tormi vita,
per tua gloria e per mia sorte.
Padre sono; e son regnante;
e condanno il figlio a morte.
Lo compiango e vo’ ch’ei pera.
Sii, natura, in me più fiera,
o, virtude, in me più forte.
Chi non crede insieme accolto
alto senno e gentil volto,
core invitto e dolce impero,
Al suo pregio, al suo valore,
merto egual, non che maggiore,
non ammira il secol nostro