Metrica: interrogazione
122 ottonari in Gianguir Vienna, van Ghelen, 1724 
   Con più gioia e con più gloria
e l’amante e ’l vincitor.
   E più bello il rivedrò
de l’illustre sua vittoria
ne l’amabile splendor. (Entra nel palanchino e condottavi da’ suoi schiavi parte, tolta in mezzo dalle sue guardie, due delle quali la copriranno dal sole con due ombrelle d’oro che sosterranno ai due lati del palanchino)
   Corre a perdersi chi prende
per sua guida un cieco sdegno,
qual chi lascia il fral suo legno
in balia di vento e d’onda.
   Cieco egli erra e a perder terra
il suo stesso impeto il mena;
e alfin trova infausta arena,
   Non sarei nemico al padre,
   Mia ragione è ’l tuo furore;
mi discolpa il tuo sembiante.
   Ma il poter di tua bellezza
   Viva il fulmine di guerra,
   Ne’ suoi cardini sotterra
sotto il piè trionfator. (Giunta la macchina verso la metà de l’anfiteatro, si ferma e Gianguir parla dall’alto)
   Viva il fulmine di guerra,
de la Persia il domator. (Gianguir e Zama cominciano a scendere dal loro seggio, il che pur fan gli altri che stanno sopra la macchina)
   Dal suo cocchio a voi discende
l’indo sol di luce adorno.
   Ma in quegli occhi a me risplende,
vaga sposa, un più bel giorno.
   Viva il fulmine di guerra,
   Vanne... Sì... Di’ al mio diletto...
che il suo rischio... che il mio affetto...
che di me... che di sé stesso...
   Non lusinghi. Non irriti.
Non trascuri il suo periglio.
   E di amico e di vassallo
su l’altar de l’amistà.
   Ma lasciar che a regio erede
prema il collo orgoglio e sdegno,
né ’l sostien giusta pietà.
   No. Sleal, più non ti ascolto;
mi tradisti; e già negletta,
   Sì, gli avrà. Ti turbi in volto? (A Cosrovio)
Oh! In tua pena, in mia vendetta,
   Nel mio cor stanno a consiglio
sdegno e amor, natura e regno.
Qual vuol pena al figlio indegno;
   Me tien dubbio il grande impegno;
e scorgendo il reo nel figlio,
   Gioia e pace avrei da morte,
se a tuo scampo avessi in sorte
   Non mi duol de’ torti miei
   Duolmi sol lasciarti a canto
chi sol vanta audacia e orgoglio,
   Regia man, che dona un regno,
non ritorna, a chi la stende,
col rossor d’esser negletta.
   La beltà, che pria ne ha sdegno,
pensa alquanto e si difende;
ma poi cede e ’l dono accetta.
   Date, o trombe, il suon guerriero,
   Sguardo egli è tutto amoroso;
ma più lieto anche il vorrei.
e d’amor ritornerò. (S’incammina verso il colle, seguito dai suoi)
   Stando a canto a l’idol mio,
deh! pugnar potessi anch’io,
   Ma i suoi rischi accrescerei
ch’ei vorria far del suo petto
scudo al mio, dove è ’l suo cor. (Si ritira nelle tende vicine. Siegue campal fatto d’armi, con la sortita di Mahobet dalla città, per cui Cosrovio, di vincitor che era prima, riman prigioniero e sconfitto)
   Vile a me? Ma non offende
qual sia ’l merto del valor.
   Che se osasse un reo coraggio
l’insolenza de l’oltraggio
ma un dì lagrime dal ciglio
   Tardo inutil pentimento!
   Sì, ad amarti, ad onorarti
sforzi l’alme, o gran regnante,
quel più dolce e quel più caro

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