Griselda, Venezia, Pasquali, 1744

 A CHI LEGGE
 
    Non molto diversamente dal mio racconto, narrano i fatti di Griselda primieramente il Boccaccio, nell’ultima novella del suo Decamerone, il Petrarca, ne’ suoi opuscoli latini, e Jacopo Filippo Foresti da Bergomo nel suo Supplimento alle cronache. Paolo Mazzi ed Ascanio Massimo ne formarono con tal nome due tragicommedie, la prima stampata in Finale nel 1620 e l’altra in Bologna nel 1630, siccome Lione Allacci nella sua Drammaturgia riferisce. Questo stesso soggetto fu trattato ancora felicemente dal signor Carlo Maria Maggi, dopo la di cui morte la pubblicò nell’anno 1700, con l’altre sue opere in cinque tomi raccolte, il mio eruditissimo signor Lodovico Antonio Muratori, dignissimo bibliotecario di sua altezza serenissima di Modena e per tutti i riguardi da me sempre riverito e stimato.
    Per altra strada assai diversa da questi, io mi son portato allo sviluppo della mia favola, da me tessuta per mio solo diporto, non perché lode ne attenda o per gareggiare con chi che sia nella maggioranza del merito. In essa ho proccurato di conformare all’argomento lo stile, maneggiando passioni tenere e serbando ne’ miei attori caratteri di mezzana virtù, senza frammischiarvi alcuno di quegli avvenimenti strepitosi ed eroici che si ricercano nelle storie più illustri e ne’ più grandi teatri.
    Molte cose per entro vi troverete che non sono mia invenzione ma della storia. È storia quell’andar di Costanza nella capanna di Griselda, a bella posta condottavi, sotto pretesto di caccia, dal re. È storia quel movimento del sangue e quel dibattimento di cuore che provarono la madre e la figlia, nel vedersi la prima volta senza conoscersi. È storia la preghiera fatta da Costanza a Gualtiero, per ottenerne Griselda in sua serva. È storia finalmente la gran fermezza da questa dimostrata al marito ne’ molti dispregi ch’egli le usò, sino a che, intenerito dalle affettuose espressioni che fece del proprio amore, l’abbracciò lagrimando e le palesò qual fosse Costanza e l’oggetto della sua finta fierezza. Egli è insomma così copioso l’argomento, che dalla storia mi viene somministrato, che posso dire non aver io in alcun de’ miei drammi posto meno di mia invenzione, cosicché ne meriti appena per questa favola il titolo di poeta, se pur è vero che tale sia egli costituito dall’invenzione più che dal verso.