Faramondo, Venezia, Nicolini, 1699

 Serenissima altezza,
    que’ rari avvenimenti, che formano la più bella parte alle storie, somministrano ancora gli eroi più illustri a’ teatri e ce li fanno goder presenti, benché il corso di molti secoli abbia procurato di tenerli lontani dalla nostra memoria. Ovunque eglino si lascin vedere in pubblico, quando ancora fossero inutili al rimanente degli uomini, son meritevoli dell’accoglienza de’ principi che dalle azioni passate prendono il disegno dell’avvenire e sulla cognizione dell’altrui merito stabiliscono la sicurezza del loro. Io pertanto, serenissima altezza, ho scielto nel mio drama uno de’ più celebri principi dell’antica età e, qualunque possa riuscirne l’idea che ne ho fatta, ho voluto dedicarlo a voi, come ad uno de’ più ragguardevoli della nostra. Né punto nuovo alla vostra gran mente, che abbraccia tutti i giri de’ secoli e tutte le vicende de’ regni, giugnerà il nome di chi gettò i fondamenti e diede le leggi ad una monarchia sì possente; ed avrei molto di che pregiarmi, serenissima altezza, se in leggendolo ne’ miei versi tale il ritroverete quale ve lo rappresentano e la fama che se n’è sparsa e la stima che voi ne fate. Comeché possa scemargli molto di merito la mia debolezza, mi è parso nondimeno degno di voi l’argomento, non essendo poco che abbia potuto immaginarmi qualche cosa che fosse convenevole in parte alla vostra grandezza e che potesse pretender con minor colpa l’onore del vostro compatimento. Questi è ’l solo oggetto che mi ha fatto risolvere ad una così ardita elezione, senza pensare che possa esservi profittevole la virtù del mio eroe. Ed infatti, serenissima altezza, non avete alcuna necessità di andar vagando per le storie e di prendere altronde gli esempli, quando e così frequenti e così illustri gli avete nella vostra famiglia. Vi bastano le paterne e le dimestiche glorie e voi riconoscete troppi vantaggi dalla vostra nascita e troppi dalla vostra inclinazione, perché non abbiate a ricercarne di maggiori ne’ tempi rimoti e nelle nazioni straniere. Questa è una verità così chiara che non mi lascia alcun dubbio di parervi indiscreto nel dirvela, mentre gli applausi de’ sudditi e le penne degli scrittori v’hanno avvezzato a soffrirla, qualunque sforzo in contrario ne abbia fatto la vostra modestia. Ella è che, nel desiderio che tengo di dire quanto penso di voi, mi rimprovera di averne detto anche troppo e quasi fa temere alla mia divozione di aver perduto il merito dell’offerirsi. Ma finalmente questo è ’l solo mancamento ch’io posso commettere in ciò che riguarda alla vostra persona e può sperarne il perdono, perché è comune a quanti hanno l’alta fortuna di conoscervi o di presenza o di fama. Peraltro ardisco di credere che voi abbiate tutta la sicurezza che questo mio fallo sia figlio di quel rispetto con cui mi professo di esser in ogni tempo di vostra altezza serenissima umilissimo, divotissimo e osequiosissimo servitore.
 
    Apostolo Zeno