Odoardo, Venezia, Albrizzi, 1698

 SCENA XVII
 
 GISMONDA e METILDE
 
 METILDE
 Non v’è cuore, o Gismonda,
 che brami più del mio
 la vita di Odoardo.
 GISMONDA
                                     Ai giusti voti
375puoi compiacer.
 METILDE
                                 Tutto a’ miei cenni omai
 qui ubbidisce e s’inchina. Io sol gli posso
 render la libertà, la vita, il soglio.
 Quand’ei di sodisfarmi
 non ricusi, o Gismonda,
380tutto otterrà.
 GISMONDA
                           Che far mai deve?
 METILDE
                                                               Amarmi.
 GISMONDA
 Amarti?
 METILDE
                   Sì.
 GISMONDA
                           Misera me!
 METILDE
                                                   Già sciolta
 dal nodo marital, posso a quel fuoco,
 che sì lunga stagion tacito m’arse,
 conceder sfogo e procurar ristoro.
 GISMONDA
385Tanto ascolto e non moro?
 METILDE
 Tu nel carcer fatale andrai del mio
 immutabil voler nuncia al mio bene.
 GISMONDA
 Io stessa? (O dio!)
 METILDE
                                     Digli che questi è ’l giorno
 per lui di morte o pur di vita. Un solo
390suo rifiuto lo perde.
 M’ami e i ceppi son franti e suo ritorna,
 ad onta del tiranno, il patrio regno.
 Vanne; così, Gismonda,
 compiacendo a l’amor, servo a lo sdegno.
 
395   Corri, va’, di’ al mio diletto
 ch’io lo salvo e ch’io l’adoro.
 
    Digli poi che, nel suo affetto,
 chiedo anch’io
 cara pace al mio martoro.