Metrica: interrogazione
684 endecasillabi (recitativo) in Lucio Papirio dittatore Venezia, Pasquali, 1744 
e con gli dii placati io colà porto
Per sì grand’opra, dittatore eccelso,
e pietade e valor. De’ sacri auguri
Prive del maggior duce armate schiere,
o non han freno o non han core; e puote
nascer da indugio irreparabil danno.
In sue trincee ben chiuso il nostro campo
non teme impeti ostili; e provocargli
                        Manca ardir forse al figlio?
No, ma troppo ei rispetta un mio comando
che a lui vieta pugnar finch’io ritorni.
che in ozio il tiene neghittoso e lento,
sarà intanto sua legge e suo tormento.
                                   E voti io formo,
e per Quinto germana, ardenti e puri.
E più illustre e più degno, a te ben tosto (A Papiria)
Cominio di quest’alma idolo e nume. (Parla a Papiria)
Arde anch’egli, o Rutilia, al tuo bel lume. (Parla a Rutilia)
                                   Il militar tribuno?
                  Amica. (Parla a Rutilia)
                                  Egli di Quinto un foglio
scrive al Senato e al dittator non scrive?
                                                         Eh, figlia,
errò; ma incauto errò. Donisi agli anni
trascorso giovenil. Che reca il messo? (A Servilio)
Viva Fabio? Alla Curia il passo affretto.
gli esempi a rinnovar di Giunio e Tito.
Deh, lo segua Servilio e a noi ritorni.
nel denso della turba aprirsi il calle.
Il poterti ubbidir m’è gloria e sorte.
né so perché. L’alma è in tumulto e in pena;
Orridi spettri, sanguinosi, infausti
parmi avergli presenti. O dei! Che fia?
Se il mio Fabio qui fosse, avrei più pace.
Vinti sono i Sanniti e Fabio ha vinto;
abbraccerai, cinto di lauro il crine,
rivedrò Fabio? E sarà vero? O gioia!
l’ombre infelici de’ nimici estinti.
Qual fu la pugna? La vittoria? Il core
più gode allor che più conosce il bene.
erano al gran conflitto. Infausti o dubbi
                                    Venne e placolli.
né ardia pugnar. Fiero il nimico intanto
Lontano il dittator, crede il superbo
non sien romani o sien rimasi i vili.
è più facile sempre ad esser vinto.
Ov’è il tuo cor? Sei tu romano? Il sangue
hai tu de’ Fabi? Io sì ’l rampogno e sgrido.
non ti vieta il pugnar, quando la pugna
Scosso a’ miei detti, ordina, accende e move
le schiere; esce del campo; assale ed urta
Necessità poi gli fa forti. Io, duce
entrano nella mischia; e nulla al loro
van prigioni o dispersi. Un solo giorno
della guerra ha deciso; e alla vittoria
campo, spoglie, trofei, conquiste e gloria.
Né a te, prode guerrier, manca il suo pregio.
Ma il padre che dirà? Che il dittatore?
A lui può non piacer l’utile colpa,
che approvaro gli dei con lieto evento?
Nol so. So che il mio cor non è contento.
che d’illustre virtù, di nobil merto.
                                        E le tue leggi
n’ebbe il consiglio tuo, n’ebbe il tuo braccio.
Qualunque siasi, a te s’ascriva il pregio
tu mi desti valor. Sei la mia gloria,
                                               Va’, segui, o duce,
non del più amante. A me ubbidir conviene.
Sta in tua virtù del nostro amor la sorte;
sii più ch’altri romano, opra da forte.
                            Onde il tuo duol?
                                                              Dall’ira
del dittator. Vede il divieto infranto;
                                               Spinto
dal suo furor, già sen va Lucio al campo
e al vincitor, d’amplessi invece o premi,
Io ne tremo per lui; l’amor che ho in petto
d’ogni fortuna tua mi chiama a parte.
né cotesta pietà chieggio al tuo core
                                Che?
                                            Non han tutti
l’onor d’esser Comini e d’esser Fabi.
A’ Fabi ed a’ Comini empie le vene
sangue patrizio; e sofferir non deggio
co’ Valeri è congiunta e co’ Metelli.
più di Rutilia assai, Roma e il Senato.
più degno oggetto a’ tuoi superbi amori.
la ragion del trionfo. Il porvi piede,
pria d’udirne il voler, parrebbe orgoglio;
e vincitor modesto ottien più lode. (S’apre la porta della città e calandosene il ponte levatoio, n’esce Papiria seguita dal popolo di Roma che tiene in mano rami e ghirlande di alloro)
al suo duce, al mio sposo, io potea sola
Non vaghezza d’applauso e di trionfo
                Da qual rischio?
                                                Oimè! Che fia?
                                              Fuggi. A momenti
                           Chi è reo paventi e fugga.
Contra invidia e poter, che può innocenza?
O dio! Già sento il fier comando e veggo
fasci, scuri e littori... Ah! Fuggi, o sposo;
                                             E morte infame.
                                        T’amo, o Papiria,
prega un padre crudel che non sia ingiusto,
Qui fermo al dittator mostra il suo torto;
puote sdegno e livor, que’ scudi ed aste
parte a voi se ne dia, parte alle fiamme.
Sciolti vadan gli schiavi; e non ci usurpi
invidia altrui delle nostre opre il frutto.
                  Oh, qual preveggo angoscia e lutto!
se lagrime di figlia in cor di padre...
il padre non ascolta; e a piè di giusto
tribunal non s’accosta amor né pianto.
                                       Null’altro il labbro
                                                           È sommo.
                                    Senato e plebe
                                                           Al solo
                                  A consultar gli auspici.
Frale è poter senza il favor de’ numi.
                                   Più de’ Sanniti,
Disubbidisti, iniquo, e n’avrai morte.
morte ingiusta, o signor, son troppo avvezzo
fra cento aste a sfidar per non temerla.
te cieca invidia, non ragion, non legge.
Ciò che il tuo non poté, fece il mio braccio.
non perché combattei. Che più faresti,
Roma salvai. Tu nol volevi. Io ’l feci.
era un tradir la patria e la mia gloria.
tacqui e soffrii; ma del supplizio a vista,
non so se tanto avrai, giovane audace,
                                  Più che la fama,
che virtù non fu mai morir per colpa.
tu a morir non condanni anche la figlia.
E con lui tu non perda il campo tutto.
                                          Sedurmi ancora
si vuole e intimidirmi? Olà, che mora.
Cadrò là da guerrier, cadrò da forte;
mi venga, o Lucio, ad assalir la morte.
                                       Genero a Lucio...
                        Tutto è per Fabio il campo.
                                        Perdona agli anni.
in disprezzo io sarei, Roma in periglio.
Non un Fabio però, non un mio figlio.
A Roma, o Lucio. Ivi i suoi falli e i merti
bilancerà il Senato. A lui da un troppo
e s’ei giudicherà che sotto il taglio
di una scure il reo cada, io sarò il primo
a Roma e nel Senato. Ivi o il tuo figlio
o in sua man deporrò quello i cui dritti
sosterrò, finch’io ’l regga, eccelso grado.
e che avrà in Campidoglio, ove sperava
il mal chiesto trionfo, infamia e pena.
E tu risparmia i preghi, asciuga i pianti,
d’esser consorte a cittadin malvagio.
È ver, Fabio è tuo sposo, io te lo diedi;
ciò che caro mel fece; e a te pur tolga
Segui l’esempio mio. Più che col senso,
o se moglie esser vuoi, non sei più figlia.
Figlia e moglie, che fo? Qual di due beni
men di protervia. Egli mi è padre. Ah! Come
oltraggiarlo tu puoi? Questi m’è sposo.
e d’odio e di pietà, direi d’amore;
Dei! Che farò? Giusta nel padre è l’ira.
Reo nel marito il fasto. A me sol tocca
chiegga Fabio il perdon, Lucio lo dia;
sia Papiria egualmente e figlia e sposa.
Reo d’ardir, reo d’amore, a’ tuoi begli occhi
Se Quinto cade, il mio consiglio il perde.
Il tuo consiglio diè vittoria a Roma;
del tuo illustre fratel s’agita il fato.
pur se scritto è lassù ch’ei perir debba,
per chi muor per la patria e fra i trionfi.
Ma ancor lo spero; avranno cura i numi
di tanti eroi. Roma impor leggi al mondo
dee per voler de’ fati. Il grande impero
o, se l’ultimo Fabio or manca e cade,
Roma l’avrà ma con più tarda etade.
pugnerà il cielo, la virtù, la gloria;
combatterà il mio amor, la mia amistade;
e se fortuna, alle bell’opre avversa,
fia comune a più d’un la sua ruina.
che alternino fra loro il bene e ’l male.
Partito il caro amante, ecco il noioso.
Se sai d’esser molesto, a che cercarmi?
Disprezzato, ho il piacer del vendicarmi.
Che più dirai, se di novelle infauste
corbo non s’ebber mai lieti presagi.
tra Lucio e Marco, in pien Senato, a lungo
Qual fu de’ padri, ivi raccolti, il voto?
                                        E in mano ancora
                                Rutilia non risponde? (A Servilio)
Le sovvien de’ miei torti e si confonde. (A Papiria)
Tribuno, è ver, me ne sovvengo; e n’hai
io qui m’abbassi alla viltà de’ preghi.
                         Ma con virtù superbo. (A Papiria)
Adempi il tuo dover. Sol per tua gloria
un Fabio, un vincitor, vedran le genti
Deh, Servilio, d’un’alma prevenuta
Ragion mi farà il padre. A te già piacque
Vano ah! sia mio timor, non tua pietade.
Unì sprezzi a ripulse, ingiurie a sprezzi.
l’arbitrio de l’amor né del rifiuto.
a te oltraggio farian, queste ad entrambi.
pesa il merto e l’error. Qualunque siasi,
l’approverò, che non m’offende un retto
giudizio e più del figlio amo le leggi.
                                                 Eh, dall’esterno
Tu vedi il padre; ma il roman non vedi.
a me di giudicarlo e che il suo fallo,
eccoti, o padre, un figlio; e se ne impetro
(Mi scaccia il padre? O fulmine che abbatte
                                         Scostati.
                                                           O cieli!
Contro di Fabio tu, mia sposa, ancora?
(Che pena è simular con chi s’adora!)
e non ascolto chi è nimico al padre. (In atto di partirsi)
lascia la mano, ond’io m’asciughi il pianto,
e va’ quella a fermar che ti minaccia.
                                   Tu il provocasti.
misero, i mali tuoi, gli fa il tuo orgoglio.
                                        E vidi ancora,
più del giudice offeso, il reo feroce.
L’ira di lui tra questo core e il tuo
s’è posta e, quasi insuperabil muro,
ei si plachi, ei t’abbracci; e sposa io sono.
Ambe il littor minaccia, io vo’ salvarle.
E un Fabio si vedrà chino e sommesso?
                                     E il saprà Roma.
Posso implorar pietà senza ottenerla.
In tuo soccorso allor verrà il mio pianto.
vivrai con l’odio suo, vivrai col mio.
vado a implorar mia pena. Addio, Papiria.
Sì, vanne al dittator. Fa’ ch’ei ravvisi
Son io Fabio? Io prostrarmi? Ahi! Che promisi?
Se il fo, me troppo vile! E se il ricuso,
troppo infelice! Oh! Meno fossi amante
Non si risparmi il reo, solo s’ascolti.
Che? Per espormi a nove ingiurie ed onte?
Suocero e dittator, Lucio il condanna.
Ei non distinse i gradi, io non le offese.
Giudice, ch’alza il braccio a sua vendetta,
Non errò dunque Fabio? Io sono ingiusto?
Sì, ma sua causa al popolo è rimessa.
tu non v’hai più ragion; né sopravvive
Ira, invidia, furore, e che l’altero
E perché miei, dovrò soffrirgli? E il grado
fia, qual segno allo stral, scopo all’insulto?
Quinto dica il suo torto e grazia implori,
Qual giudice v’è mai che a’ più malvagi
Giustizia odia i delitti, i rei compiange.
Facil pietà rende più arditi i falli.
Un Fabio a’ piedi tuoi frena i più audaci.
Orsù, venga al mio piè; ma Roma il vegga.
Non ti basta in sua pena il suo rossore?
E la pubblica pena ha più d’esempio.
Quinto è genero tuo, Quinto è mio sposo.
Nulla darai d’una tua figlia a’ preghi?
egli in me abbraccerà suocero amante. (Ritirasi a parlare con una delle sue guardie)
                                           A tempo ei giunge.
S’anche tutti al tuo piè stesser prostrati
che si svenan per lui pietà e natura;
Cieca è giustizia, non distingue oggetti;
e punisce il delitto, ovunque il trova.
Ma tu lo trovi in tutti e un sol punisci.
Dell’opre, o buone o ree, la lode o il biasmo
cade sul duce; ei pecca in tutti; e tutti
Fabio da’ tuoi costretto uscì a battaglia.
serve al maggiore ed il maggiore al sommo.
Fabio aveva i miei cenni, il campo i suoi.
Ei vi resse alla pugna e fece il fallo.
Voi pugnaste, lui duce, e pregio aveste.
voi con merito andaste, ei con delitto.
Non v’ha dunque ragion che salvi a Roma
Al popolo appellossi; e sempre incerti
che chiaro era il misfatto e giuste l’ire;
e l’uno e l’altro di chi regge e impera).
e la placida fronte e la severa). (Si rivolta senza guardarlo, appoggiato ad un tavolino)
che in sembianza di reo ti venga innanzi
Non dir sciagura tua ciò ch’è tua colpa.
d’esser genero tuo. La mia vittoria...
Al popolo appellasti. A lui ti scolpa.
Sol rendimi il tuo amor. Rendimi quello
della sposa diletta. Ecco al tuo piede... (Ponendosi in atto d’inginocchiarsi, Lucio Papirio a lui si rivolta e lo ferma)
non ti getti il tuo amor ma il tuo rimorso.
Alza, Fabio, quegli occhi a questo volto.
Ah! Per te che non fei? D’unica figlia
e deposi in tua man sin la mia gloria.
scrivi al Senato e al dittator non scrivi;
l’esercito abbandoni e vuoi trionfo.
mandi sciolti i prigioni, ardi i trofei.
Che più? D’invidia, di furor m’accusi.
e perché vada inulto il primo eccesso,
Tua virtude or m’insegna il mio dovere
Alza, o signore, il punitor tuo braccio.
Mia pena imploro e tue ginocchia abbraccio. (Quinto Fabio inginocchiasi a’ piedi del dittatore)
                                      Oimè! Tradito io sono.
che conosce il suo torto e vuol perdono.
tu vincitore? E tu prostrato? Il ceffo
più ti spaventa che ignominia ed onta?
                        Taci. E tu, crudel...
                                                            Col figlio
mi rispetti anche il padre. Già vedesti
se dimessi al mio piè tremino i Fabi.
avrò altrove il riparo e la vendetta.
Tu, se ancor ti rimane audacia in petto
vieni al popolo e al foro. Io là t’aspetto.
bell’oggetto a’ grand’avi, in faccia a Roma
precaria e non più mia. Per te era meglio
                                            E questa spada (Prendendo la sua spada dal tavolino)
Senz’altro testimon che del mio amore,
così a te quest’acciar parla e risponde. (In atto di ferirsi)
ei parlerà, quando dal sen mi sgorghi.
                      Prevenir littori e fasci.
Affrettarsi la morte egli è un temerla.
Attendere il supplizio è un meritarlo.
Ciò che infama i supplizi è sol la colpa.
Ma spero a’ giorni tuoi più amica sorte.
S’oggi avesse a perir sì nobil vita,
in sen di padre avrei sì fermo il core?
t’esporranno que’ seggi, ond’io più miti
Piacciono a Lucio i rigidi e severi. (S’incamminano per salire sulla parte più elevata del foro ma ne sono arrestati da Lucio Papirio che sopravviene)
che là mi vuol, donde privato io possa
che d’altro non è reo che del suo sdegno.
Senza le offese leggi io non l’avrei.
(E vagliono tant’odio i giorni miei?)
e di silenzio il banditor dia segno. (Al suono della tromba vanno a sedersi il dittatore nella sella curule, Servilio e gli altri capi del popolo in altri seggi nella parte più alta del foro. Marco Fabio e Quinto Fabio siedono nella parte inferiore)
sta di Roma il poter, fui vostro anch’io
il Romano e il Sannita. Ov’è la prisca
modestia? Ove i Cammilli? I Cincinnati?
puniasi in oro. Un trionfante or vuolsi
e il dia sotto il littor. Qual maggior pena
tutta in festa la patria? Aprirsi i templi?
morir nel Campidoglio? E in faccia a’ numi
Qual gioia a’ suoi nimici? Ah! Lucio il vuole;
Nulla quelli degli avi? E nulla i miei?
A che m’avete riserbato, o dei! (Siede coprendosi il volto con le mani)
Quinto Fabio si assolva. Io ne protesto
alle leggi, all’impero, al culto, a Roma.
Per me sto in mia sentenza; e della pena
Farlo a voi piace? Al ciel le vostre teste
Roma per voi si perde. Io vo’ che viva.
Fabio per voi si assolve. Io vo’ che mora. (Discende e in atto sdegnoso parte, seguito da’ littori. Tutti gli altri si levano)
                                                  S’adempia il giusto.
non reo, non vincitor ma cittadino. (Servilio con gli altri discende nella parte inferiore)
andrai ma sempre illustre. (Parte con li capi del popolo)
                                                   Io feci, o figlio,
e anche in faccia al littor mostrati forte.
Tutta a sì mesto addio l’alma si scosse
Perché dal ciglio risospingi il pianto?
sta nel volto l’eroe, l’uomo nel core.
Faccialo; ne avrò stima, amor non mai.
                                                         Il padre
Piaccia agli eterni dii che Fabio viva.
Con queste tra’ littori e tra la plebe
Vendicherò di un dittator l’inganno...
                                        Che non degg’io
E di costui qual più importuno e audace?
non osa il labbro e il tuo dolor rispetto.
                                          Io te l’uccisi?
Vanne, fuggi, o crudel. Togli a questi occhi
Già ti sprezzava; or ti detesto; or t’odio;
e t’odio col dolor che tu sì indegno
sia, qual già del mio amore, or del mio sdegno.
dovea prostrato. Or che il decoro è salvo,
Ma incerto della plebe è ancora il voto.
                                              Ah! Che ne rechi?
                                            D’un dittatore
tolto il potere del gastigo, agli altri
si dà l’ardir del fallo e del disprezzo.
                                          Oimè! Son morta.
Qual tribunal fia asilo all’infelice?
Quello che può salvarlo e a cui s’appella.
Fabio ancora appellarsi? A chi? Agli dii?
al tuo cenno il suo fato. Ei qui ben tosto
tratto a te fia. da ferrei ceppi avvinto.
togliendo a sé l’arbitrio del perdono,
Padre, a vita rinasco. Avrò il mio Fabio
                                          Potea salvarlo
Ciò che far ei non volle, a me non lece.
Or non vo’ che d’ingiusto ella m’accusi.
Fabio ottenne al tuo piè grazia e perdono.
Se infetta parte, che guastar può il tutto,
chi di crudel quel colpo accusa e sgrida?
nel perdono di Quinto il comun rischio.
Scorge più lunge assai chi siede in alto
e a tutta Roma il dittatore è un solo.
O dio! Padre, son figlia e sposa io sono.
Fabio è un tuo don. Perché mel togli? E appena
e tu fosti cagion che tanto io l’ami.
Vuoi ch’io cada al tuo piè? Vuoi che coteste
ginocchia abbracci? Ecco ti cado al piede; (S’inginocchia)
Sorgi. T’accheta; e se vuoi pianger, piangi
Padre crudel, tu non sarai più padre, (Papiria si leva con impeto)
che sì poco l’apprezzi. Allor che un ferro
un altro all’alma mia troncherà i lacci.
Ah! Più figlia non son di chi m’uccide.
Tutta l’alma v’opposi e bastò appena.
Vien Fabio. A nuovo assalto accingo il core.
Papiria, abbia misura il tuo dolore. (Fermandosi in lontano)
Mia cruda sorte abbia misura anch’essa. (Quinto Fabio s’avanza verso Lucio Papirio e Papiria si ferma nel posto di prima)
destra baciar che il mio segnò di morte
alla mano ed al piede, olà, sciogliete. (Un littore s’avanza ma Papiria lo risospinge e scioglie di sua mano le catene di Quinto Fabio)
                              Il brando illustre e il premio (Al littore)
                                      E di piacer non moro?
                                 Non la mano, o Fabio, (Abbracciandolo)
Io la man bacierò che mi dà vita. (Papiria bacia la mano del padre)
s’anche morte verrà, verrà gradita. (Vengono due soldati, l’uno de’ quali porta la spada di Quinto Fabio e l’altro sopra un bacino una corona di lauro fregiata d’oro)
la spada trionfal. (Lucio Papirio porge a Quinto Fabio la spada e questi se la ripone al fianco)
                                  Non in mio fregio
ma in difesa di Roma ognor la cinsi. (Lucio Papirio, presa la corona d’alloro, la mette sul capo di Quinto Fabio che si china in riceverla)
In ben oprar premio ha dall’opra il forte.
Non mai sì bel Fabio a’ miei lumi apparve.
l’invitto al Campidoglio; e là, gridando
pieghi al littor sotto la scure il capo;
morir senza il tuo sdegno e con l’affetto
L’ultimo addio prendete; e da me prendi
(Parto e al vostro nascondo il pianto mio).
                                             Amplesso il primo
Viver? Nol potrò mai né consolarmi. (Escono i littori)
                        No, che in vederti afflitta
Rimani. Amami. Vivi; e pria ch’io mora,
ma se non l’ebbi, l’adottai, lo feci;
                                           Del tuo germano
                                         Anzi a gioirne.
Pianto ricusi a chi fra’ lauri ha morte.
                                         Armi e tumulto. Han fatto
Vano è il timor. Vano il tumulto. Fabio
e il popol, che approvò la mia sentenza,
Cadran con Fabio i più malvagi e tutti...
non poca parte. La vicina Curia (In lontano sull’alto cominciano a farsi vedere i soldati romani)
Faccianlo. Io solo il grado, io solo il petto
                                   O ferreo core! (Marco Fabio e Quinto Fabio scendono dalle logge, seguiti da’ soldati)
Che fia? Col genitor Fabio a noi scende.
Roma un reo ti togliea. Mia man tel rende. (Marco Fabio, preso per una mano Quinto Fabio, lo presenta al dittatore)
Signor, tue leggi adempi. Eccoti il figlio.
alla scure sottrar. Qui siedi, o Marco; (Si leva dal suo seggio)
succeda al primo. Uno fa esempio all’altro.
Tale è l’orror, che del mio fallo or sento,
                                             O basti il mio.
                        Tacciasi. Il tribuno (Vedesi scendere Servilio dall’alto, seguito dal popolo, da’ soldati, eccetera)
(Spunta ancor nel mio sen raggio di spene).
a sé tolse l’arbitrio e a te lo diede.
nulla ha in Roma d’egual, fuor che il tuo core.
prostrati, e tu buon padre e tu reo figlio. (Servilio, il popolo e i due Fabi s’inginocchiano a’ piè di Lucio Papirio)
Donala agli avi, al padre, a Roma tutta.
non rispingere il pianto. È Roma, è Roma
ma ch’altri non vedrà china a’ tuoi piedi.
Tribun, popolo, Fabi, omai sorgete. (I suddetti al comando di Lucio Papirio si levano)
Vivi al mio amor. Vivi alla patria. Il troppo
l’altrui perdono e il tuo, Cominio, ancora.
                          (Mio sfortunato amore!)
(Io del tribun qual premio? O padre ingiusto!)
d’innalzarmi all’onor de’ tuoi sponsali.
Mi ributtò il tuo fasto e in quel ritroso
tuo volto ancor le tue ripulse io leggo.
ma vil non son; né misero esser voglio.
piaccian nozze a te care. Io ne lo prego.
Né a Servilio, che chiede, il dono io nego.
ma in quel che tu mi dai lieta mi veggio.
                                Fortunato giorno!
                                            E di virtude...
                                a ben goder ritorno.
l’opra è di Lucio e sua pietà s’onori.
L’opra è di Lucio e sua pietà s’onori.
all’ottimo de’ prenci, il buon non calca
dell’uomo e non del tempo è vizio e colpa.
ma il gran nome immortal segna ne’ fasti,

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