Metrica: interrogazione
762 endecasillabi (recitativo) in Sirita Vienna, van Ghelen, 1719 
Vedovo regnerò, finché la figlia
sinor di acciaio, e ad imeneo consenta.
si fa di onore irrevocabil legge
non mai legarsi a marital servaggio,
di legittimo erede orfano il trono?
prima del tempo e dei lontani, incerti
può ad un tratto cangiar voglia e pensiero.
Violenti consigli amor non ode.
Seco i preghi userò, che in nobil alma
han più poter che le minacce e l’ire.
traetevi in disparte. Ella d’ogni uomo
fugge la vista, più che d’angue e mostro;
lascia cader, ma passaggero, un guardo.
A te il ciel sia propizio. (A Iroldo amore).
(Parlo a pro di Romilda e del mio core). (Si ritirano in disparte)
Cor di re, cor di padre e cor di amante,
di te si tratta. A quell’amor, che t’arde
frena il disio, tempra le fiamme e soffri.
prima si espugni. Indi più chiare e belle
per te accenda imeneo tede e facelle.
A te, padre e signor, qual sì per tempo
al suo giudice offeso il reo non vassi,
qual tu a me ti presenti, amata figlia.
Rispettoso dover leggi m’impone
Ma perché sì negletta? A che non prendi,
quale a te si convien, l’oro e le gemme?
cotesto di beltà fregio gentile,
Meglio saria che o più non fosse o mai
Anzi che farne pompa, ad ogni sguardo
vorrei poter celarmi e al sole istesso.
Semplice! A quanto in terra alma respira,
a chi nuoto, a chi volo, a chi ugne e denti,
di mille lance e spade arma più forte,
con cui vincete e valorosi e saggi.
propria del sesso tuo lode e tesoro,
stimerai tua vergogna e tua sfortuna?
Stimerò lode mia ciò che è mio acquisto,
non ciò che è dono altrui. Grazia e beltade
e di fragile tempra. Amar dovremmo
più durevoli fregi, ornar sol l’alma
di onestà, di modestia e d’innocenza,
impor leggi severe a l’occhio e al labbro
né mai dar fede ai sempre falsi amanti.
Cotesta tua salvatichezza, o figlia,
strugger vorrebbe il mondo e di natura
Ha virtù i suoi confini e, quando eccede,
lascia d’esser virtù. Lodo il pudico
ma lodar non poss’io che tu sì schiva
sia di onesto amator che a nobil sangue
eccelso animo aggiunga e degno aspiri
a l’onor di tue nozze...
                                         Ah, pria col ghiaccio
vedrai la fiamma e amar l’agnella il lupo.
Perché nodo abborrir così soave?
Nodo servil, giogo penoso e grave.
Fido imeneo fa i più felici in terra.
                                             Mancarti
può sposo, a cui ti unisca amore e fede?
di una tempra e di un cor. Già ne la mente
fiso è ’l pensier, viver solinga  e sciolta
a la mia libertade ed a me stessa.
di un regno ancor nascesti. Ah! Se ’l mio affetto,
se la memoria de l’estinta madre
può nulla in te, cedi a’ miei preghi  e vinci
che t’ingombran l’idea. Tu gli occhi abbassi?
Tu non rispondi? Ah! Figlia, io da te questa
mercede attesi o meritai? Mia morte
insoffribil dolor l’alma circonda,
tra un regno afflitto ed una figlia ingrata.
movi, o padre, al mio cor? Voler che a un tratto
genio cangi, costume, abito e vita,
me stessa uccida e in me rinnovi un’altra.
tutto non si ricusi. A sì amoroso
e benefico padre un tanto deggio
sacrificio crudel. Sposa!... Ah! Che al solo
l’alma in gelo e sudor rappresa e sciolta;
Sposa sarò; ma con qual legge ascolta.
a voi promette di Sirita il core.
più facile è inceppar la rapid’onda
che un occhio femminil. Lubrico e vago,
vola, qual suole augel di ramo in ramo.
ne’ secoli già scorsi alme sì caste
che, condannando a sì gelosa legge
schernir le insidie de’ sagaci amanti.
Questi di antica età rari prodigi
chi gli lodi trovar, non chi gl’imiti.
né mai per anni insterilisce o manca.
Mi accingo a l’opra; e pria che cada il giorno,
farò sposo felice a te ritorno.
Ottaro, o tu non ami o tu disperi.
poc’anzi era l’amar senza speranza
che sperando or languir per gelosia.
                                      È cieco il caso
che può farmi contento; e s’egli sempre
fesse al merto ragion, non saria caso.
Usa ingegno e virtù. Voti felici
gli fermasti sui capo. Acquista un bene
ch’io ti dovrei. Poi sul mio trono ascenda
Godrò dar questo testimon d’amore
al suo bello, al tuo merto ed al mio core.
Romilda, o tu mi assisti o son perduto.
ma dal giro di un guardo il tuo destino.
Che? De’ miei casi omai ti giunse il grido?
senza strepito e scoppio il verde lauro.
non fia sedur due ben difese ciglia
che l’uscio sono, ond’entra amor ne l’alma.
                               Alma gentil gli sdegna.
questo basso disio, più di quel ch’abbia
per far crollar pianta robusta un lieve
Pur mano liberal prova è d’amore
grande e cortese; e rifiutati ancora,
scuoprono i doni il generoso amante.
                                           In zelo e fede
metti tua spene. Ove sia d’uopo, esponi
Un animo real mai non è ingrato
né un benefico amor mai sventurato.
Per lei non temerò rischio e fatica;
ma se ingrata e nemica ancor persista?
Stringi per atterrarla arma più forte.
vanta altr’amore. Gelosia, dispetto,
onta, furor l’affolleranno intorno;
che avrà negato all’amator fedele,
licenzierà dietro l’amante infido.
pietà dal fiero cor non anche impetra?
Di’ che quel non è cor ma tronco e pietra.
Parto a tentar mia sorte, Appo la bella
non si stanchi in mio pro la tua amistade.
Col nodo di Sirita andran congiunti
i tuoi regi sponsali; e tu dal soglio...
Va’. Servirò al dover, non a l’orgoglio.
Pensieri ambiziosi, io non vi ascolto.
Un diadema real può farmi illustre
è il mio fasto, il mio ben, la mia fortuna.
Degna di tutta l’alma è sua beltade
ma più sua fede. Un amator sincero
val più d’ogni grandezza e d’ogni impero.
Sì, sue nozze otterrà chi de’ suoi lumi,
con merto o fraude, il primo sguardo ottenga.
Legge che è mio spavento.
                                                 Esser può amica
                                           Ei porrà in uso
col favor di Romilda arte ed inganno.
E tu in ozio starai stupido e tardo?
Non mi creder sì vil, diletta Alinda.
trar dietro l’orme di cigniali e d’orsi
nel vicin bosco la real donzella.
la rapirò. La subita paura
volger le farà un guardo al suo periglio
e quel guardo sarà la mia fortuna.
                  Nulla ottien chi tutto teme.
Ottaro esser può tuo, s’io di Sirita...
trarrò la preda, ove l’attendi, al varco.
viste non ci abbia errar la selva e ’l monte.
Come a quel duro cor la via ti apristi?
D’amor fingendo esser, qual lei, nemica.
qui spesso a vagheggiar vengo in quell’ombre,
qual io mi struggo a’ suoi. Spera il mio core,
sinché il suo non è lieto; e de l’amica
l’ire lusingo e a le ripulse applaudo.
                                         Men grave oltraggio
Intendo, intendo. Una beltà schernita
ti fa pietade. È ver, Romilda amai;
ma per la sua beltà perder di un regno
Sì, lo dovevi, ingrato, e non tradirmi.
Tue voci udì. (Ad Iroldo)
                           Romilda...
                                                Anch’io difesi
da le lusinghe di un real diadema
Perché, perché l’esempio, anima vile,
un cor sì generoso. A sì gran prezzo
Ambo amiam, tu in Sivaldo, io ne la figlia,
Bella è l’infedeltà che guida a un regno.
chi al regno troverà via più spedita.
Non perdona giammai beltà tradita. (Ad Iroldo)
a l’importuna turba degli amanti,
te che di genio al mio conforme, austera,
peste de l’alme ed insanabil morbo.
Mostro e demone dillo e furia e Averno.
Ma da cotesto insidioso male,
come più schermirai l’alma pudica,
se vi hai posto in custodia un solo sguardo?
S’oggi solo avvezzar volessi il ciglio
regger nel corso ed addestrare al freno.
piano anche l’arduo. Io, dacché appresi amore
quanto sia falso e quanto l’uom bugiardo,
fuori del padre, altr’uom non vidi in faccia.
(Visto anch’io non t’avessi, iniquo Iroldo).
Prodigio sei del nostro sesso.
                                                      Alinda,
si appressan l’ore. Oggi faremo al monte
Miglior ce ne assicura il vicin bosco,
ove fiero trascorre irto cignale.
Corri a prender tu l’asta, i dardi e l’arco
non è la mia Romilda? O quanto afflitta
Ed è sua pena un infedele amante.
(Vendicarsi convien, non più dolersi).
lascia, ti dissi, il vaneggiar, che alfine
non ne trarrai che pentimento e duolo.
Felice Alinda in libertà di affetti!
                                          Eh! Principessa,
Col dir male d’altrui crede ciascuno
o scusar suoi difetti o ricoprirli.
adorno il crin, grave di usbergo il petto,
spira anche finto aria guerriera?
                                                             Il veggo.
dolce traluce amabil grazia?
                                                    Il veggo.
sotto giogo stranier non langue oppressa.
passati eroi che a la presente etade
Ei caro al re, caro a la Dania vive
Questi è l’oggetto de l’amor di Alinda?
Appunto; e spesso qui disio la guida
di vagheggiar la colorita immago.
Qualche scusa è al suo error l’aver riposto
in sì nobile oggetto il suo pensiero.
(Beltà, che loda il finto, amar può ’l vero).
                               Eroe, che è nato a l’armi,
No, ma in amar Sirita ei più s’illustra.
Che? Romilda... L’invitto? Il vincitore?...
L’eroe che miro in quella tela impresso?...
Arde a’ tuoi lumi e a quei di Alinda è cieco.
Taci, Romilda. Ove ritrovo amante,
più non ammiro eroe. Gli toglie amore
atro liquor, che vi si sparga, il pregio.
Nobil poc’anzi era l’oggetto...
                                                      Eh! Mai
oggetto più deforme io non mirai.
per virtù, per beltà, del secol nostro
Cerca favor la lode o tenta inganno. (A Romilda)
Il tuo padre, il mio re che di sé stesso
Te di seguir vaga scorgendo in caccia
Degli ozi de la reggia a me più caro. (A Romilda)
Veggansi, o mia Romilda, i ricchi doni. (Romilda va a prender un arco da un bacino)
Doni di padre a regal figlia.
                                                    In questo
d’avorio e d’oro arco lucente e grave
Parlo a Romilda; non risponda il servo.
come vaghe han le piume e di qual tempra
l’acuto acciar. Gloria è di morte e fasto
sotto un solo cader di que’ be’ sguardi.
Non fa torto a beltà lode verace.
Ve’, che nobil faretra? Arte maestra (Prende un turcasso, eccetera)
                                         Non mai sì bella
che qui, dove somiglia a te che sei
e più vezzosa e più crudel di lei.
Da amante e non da servo egli favella. (A Romilda)
Vago è quindi mirar la diva istessa,
                                                 Romilda,
di Endimion? Del pastorel coteste
del prode? De l’eroe? Doni di padre
E chi li reca è servo? Ah! Riconosco
l’inganno e l’ardimento. Odio del pari
le basse anime assalga e non l’eccelse,
da cui sol ritrarrà pena e vergogna,
un armato espugnar campo nemico
che la ferma onestà di un cor pudico.
                                    Un vano sforzo
non ti tolga l’ardir. Nel vicin bosco
segui la bella. Ivi può offrirti il caso
                                   Siami anche avverso,
avrò almeno il piacer di rimirarla;
né soffrirò che a quelle, luci, ond’ardo,
rival si appressi e ne rapisca un guardo.
Romilda, odio si deve al traditore.
l’odio tanto più fier, quanto più giusto.
Aimè! Mal con ragion si accorda amore;
né a suo piacer sempre disama un core.
scorta e difesa. Io per lei temo ognora
trascorre audace e le feroci... Oh dio!
Pallida e sola a me sen viene Alinda,
O come spesso è ver che de’ suoi mali
dove? E senza Sirita? Io che son padre...
L’esser più padre, ah! quasi oggi perdesti.
ma per virtù di generoso amante.
son giocondi al pensiero i rischi andati.
di lieta caccia. Alto sonava il bosco
alor che nel più chiuso odesi intorno
Ed ecco uscirne minaccioso e torvo
vasto cignal. L’orribil mole, il lungo
tremar fan l’alme più sicure e forti.
di volgar preda, a la real tua figlia
                        Ahi! Che in udirlo inorridisco!
Sirita, il volto scolorita alquanto,
Non può arretrarsi; e non si arretra. Il dardo
dove l’occhio segnò, vola e colpisce.
torna lo stral, qual se colpito avesse
L’irato mostro, a lei già presso, arruota
morso letale al bianco petto; ed ella,
in volendo ritrarsi, inciampa e cade.
                        La sua caduta a morte
fu che la tolse, poiché il dente acuto
squarcia in gran parte e a lei non reca offesa.
Non si ferma il feroce. A lei già è sopra...
Deh! Libera il mio cor. Chi la soccorse?
corse, volò, snudò l’acciaro; al mostro
pria ne l’aperta gola, indi nel ventre
e tre volte lo spinse e tre l’ascose,
sinché batter, spumando orribilmente,
gli fe’ la terra con mortal percossa.
Tutelar genio de la Dania e mio!
Al suo liberator grata già attendo
volger la figlia il guardo.
                                              Odi e stordisci.
s’alza, raccoglie l’armi, il dubbio mira
non di fuggir, ma di tentar sua possa.
fosse rimasto di guardarla in volto,
riscontrato si fora occhio con occhio
e ad un punto egli dome avria due fere.
l’immane belva, a la real donzella
chiede di sua salute e che gradisca,
priegala, un atto di dover, di amore.
Che fe’? Che disse? Che rispose alora?
«Prode» li disse «a te mia vita io deggio.
De l’opra illustre ricompensa attendi
Mosse, ciò detto, entro la selva il passo,
ratta così che parea strale e vento,
e lui lasciò che parea gelo e sasso.
Misero prence! Sconoscente figlia!
Dietro l’orme di lei corse Romilda.
Io più lontana e del timor passato
ripiena ancor, spirto non ebbi e lena
tolta la veggo e pur rimango in pena.
                                     Sua sciagura intesi.
Il tuo germano non la tolse a morte?
Ma l’empio rapitor festeggia inulto.
Qual rapitor? Che nuovo male arrechi?
                 E che?
                                Di armati cinto e d’armi,
                          Me, che tentai di oppormi,
mi convenne il terreno; e tal lasciommi.
                                               E l’ebbe?
                                                                   Appunto,
un insensato avesse idolo e tronco.
E al primo error nuovo delitto aggiugne,
col non lasciarla in libertà?
                                                  Confida
di espugnar col terror l’alma costante.
Né lo sgomenta un genitor regnante?
La legge di Sirita è sua discolpa.
No, legge non v’è mai che dal rispetto,
che si deve al suo re, sciolga un vassallo.
disperi del suo amor, tema il suo fallo.
                                          E tu ne esulti?
Già comincio a gustar la mia vendetta.
                                            Il può, se è forte.
Amasti Iroldo; e forse l’ami ancora.
dacché ’l vidi infedel, spenta di amore
                                         E incendio spento
l’ultima offesa estinse; e l’odio accese.
Non ti muove sì a sdegno un tradimento
che più non ti lusinghi una corona;
Sinché Iroldo fu fido, io fui costante.
A l’amor suo svenate io tutte avea
per vendetta lo fa, non per orgoglio.
per te è favor, quando la stimi oltraggio.
Ella ti dà il diadema; e tu dovresti
il tuo regio destin dal suo riposo,
ch’egli sia di Sirita amante e sposo.
                                             Fedele amico
Del rimprovero tuo cerco l’arcano;
ma nol comprendo. Io che d’amor nemica...
Non lo dica il tuo labbro. Ottaro il dica.
Mal può celarsi amore; egli trabocca
tutte congiuran le parole e gli atti.
Il suo stesso silenzio è in lui loquace
e parla un cor, quando sospira e tace.
la vostra rabbia, o stelle. Infausto punto,
dIsio di regno e avvelenò la dolce
Io Romilda ho tradita. O regno! O amore!
O Sirita! O Romilda! O voti! O beni!
Tutti già mia speranza, or mio dolore.
Audace e reo vassallo, a te, su l’orme
viene un re punitor. Mal ti sta in fronte
cotesto tuo tardo timore e vile.
quella, che provocasti e che hai negletta,
degna di re e di padre, alta vendetta.
quai le giudica il re, buone o malvage,
di certi a guisa coloriti oggetti
che, posti in vario lume, a l’occhio istesso
di quel che stima esser virtù la colpa
e che senza rossor pecca e con fasto.
rapir figlia real, ne la più cara
parte oltraggiarmi, opra sarà di lode
degna e di premio? Avrà discolpa e merto?
L’avrà, se sofferente odi mie voci.
Non si negan difese al reo più iniquo.
La malizia de l’uom fu che nel mondo
a lor pena e terror. Ma quando udissi
o che legge imponesse atto malvagio
o che a legge ubbidir fosse delitto?
Legge non fu de la real tua figlia,
di porre in uso arte, terror, lusinga?...
Sta l’abuso nel fatto? O sta nel fine?
E ne l’uno e ne l’altro io reo ti veggio.
Era il fatto permesso, il fine onesto.
io non volea che un guardo. Or qual mio fallo,
se di amor disperando, usai la forza?
Non più. Reo sei. Con più maturo esame
peserò colpa e pena. A me fa’ intanto
                                        Ah! L’ubbidirti
                                            Come?
                                                            Sirita
fu da rival più forte a me rapita.
Passa di pena in pena un cor di padre.
da’ tuoi custodi, in su l’uscir del bosco,
Ottaro mi assalì. Fe’ mio rispetto,
non suo valor, ceder la preda e ’l campo.
la prima pena. Altra ne aggiungo; e fia
il non più amar Sirita. Io vado incontro
a la coppia diletta; e ti abbandono
più a l’interno terror del mio gastigo
che a l’incerto piacer del mio perdono. (Entra nel bosco)
Ne l’applauso comun tu scorgi, o figlia,
il comun voto e mio. Quegli, che offerse
in due cimenti generoso e forte
egli è l’eroe, chiaro di sangue e d’opre
e per titoli illustre e per antico
deve sua libertade, io mia grandezza.
Regia o paterna autorità non uso;
né t’impongo di amarlo. A te lo impone
dover, virtù, riconoscenza e gloria.
Seco ti lascio; e qual poc’anzi, ingrata
non fuggir dal suo aspetto; odi il suo amore;
più non rimanga il tuo bel cor macchiato.
Il cor più vile è quello de l’ingrato.
Di Sirita sii cor. Resisti e vinci).
poderosi nemici avessi a fronte,
non, se il più de la Libia orrido mostro,
tanto avrei di terror, quanto al tuo aspetto,
Ma più d’ogni altro me spaventa e lega
me che sol di gradirti amo e disio.
avessi il tuo piacer, per te ridotta
dura necessità, non più sofferta,
Pur si ubbidisca al padre; e al cor si faccia
qualche sforzo in tuo pro. Parla. Ti ascolto.
Ma gitterai prieghi e speranze al vento.
A te, bella d’amor madre e nemica,
come d’amor parlar, se non l’intendi?
Come fede vantar, se non la curi?
Pur se di onesta ricompensa e lieve
dimmi, ten priego, onde sei mossa a tanto
In te credo ragion la sua condanna;
ma convinci il mio cor. Tu sii più giusta.
e sia mia pace il disperar conforto.
Ma insidia conosciuta è già schernita.
Parli pur l’odio mio, parli e non tema.
fossimo a’ vostri inganni, o voi sareste
mi addottrinò. Sorda agli amanti e cieca
le lor frodi spavento; e col mio sdegno
fortezza a un sesso e fede a l’altro insegno.
                                  Dove sperarlo?
Mille prove d’amor strugge un momento.
E momento non trovi, in cui si assolva
Sì, ma il sol de la vita ultimo instante.
e se mai tra la vita e tra la morte
due fossero i momenti e sino al primo
trovato avessi un cor costante e fido,
ch’ei potesse ne l’altro essermi infido.
Ottaro sia, qual tu lo chiedi, amante.
non si nieghi il piacer di un gran trionfo .
Parla, che di ascoltarti è mio dovere
e questo ufficio non incombe agli occhi.
questo, ch’io ti presento, ignudo acciaro,
mal troverai la strada al cor che anela
versato a tua salvezza, e n’abbia un’altra,
Su, qui ferisci; e ’l solo ultimo instante
e ti doni e ti tolga un fido amante.
Pietade, gratitudine, dovere,
patria, re, genitor, che mi chiedete?
Si ascolti la mia gloria e voi tacete).
Principe, il tuo valor mi ha tolta a morte.
forse ancor dissi; e tu, se giusto sei,
non esiger di più. Voler ch’io t’ami
L’un fa torto a l’onor, l’altro al dovere.
                                          Facciasi; e serva (Levandosi con impeto)
un amor disperato a tua fierezza.
sento or l’orrore. Aita. Io manco. Io moro. (Mostra di svenire, lasciandosi cadere sopra uno sterpo)
occhi, or vi apriste e morirei beato.
Ferma. Già ’l cor rinvenne. Ottaro, addio.
Comincio a disperar. Pietade e stima
mi promette e mi mostra un empio core.
sono un oltraggio a chi ricerca amore.
                              (Qui Iroldo).
                                                        (Oh! Racquistarne
potessi ancora i mal perduti affetti).
(Oh! Tornasse l’infido al primo laccio).
facile è la beltà). Bella Romilda.
e ritorna pentito. A bel sembiante
racquistar è più gloria un cor perduto
che aver sempre fra’ ceppi un cor costante.
l’illustre sposo, il successor d’un regno,
ver me abbassar suddita e serva?
                                                              Il trono
sia per altri lusinga. Io nol riguardo
che con orror, quale di scoglio a vista,
ov’ebbe a naufragar, suole il nocchiero.
Or solo hai cor sì generoso?
                                                   Seguo
Amiam pur, tu in Sirita, io nel monarca,
Bella è l’infedeltà che guida a un regno.
ti fia crudele; né svenar gli affetti
più cari a pro di un re d’anni maturo.
Disuguale imeneo non ha mai pace;
in chi noia risveglia, in chi sospetto.
è assai più bello un trono. In re l’etade
e l’aureo cerchio a lui ricopre ed orna
e la fronte rugosa e ’l crin canuto.
come un ben già sicuro e già vicino.
Di te non avrò mai peggior destino.
Ma se sorte ti manca, alor poss’io
sperar che tu mi renda un cor già mio?
Io tornarti ad amar? Sarei ben folle.
Chi una volta tradì, tradir può sempre.
                                          Ah! Se i miei casi...
In disparte gl’intesi e da Sirita;
e tu disperi a torto. Amor sorprende
spesso in sembiante di pietade e stima.
di sole stragi. Paventò Sirita
mia morte e l’impedì, non perché male
ma perché a’ mali era riposo e fine.
O per tuo duol troppo ingegnoso! Almeno
non giovò fede e gioverà dispetto?
Così un veleno è medicina a l’altro.
Amor nasce da amor. Da sdegni e torti
che sperar posso altro che sprezzi ed ire?
non curar di quel ben, che si possiede,
Se a superba beltà doni il tuo core,
par vile il don; se lo ripigli, alora
Finger di non più amar la tua tiranna,
ad Alinda, che t’ama, e sparger voce
                                 (Duro cimento!)
Alinda ingannerò? De l’infelice
farò al grado e a l’amor sì nero oltraggio?
No, ma presti a la trama anch’ella il voto.
purché Sirita non disciolga il laccio
su l’aggrupparsi e te in suo sposo accetti.
E con periglio di restar delusa
Facile è lusingar chi già dispera.
Ma se Sirita non si scuote a l’onta,
vuole onor, vuol dover ch’io sia di Alinda;
e alor, Romilda... ah! ch’io sarei di morte.
Soverchio antiveder non fa l’uom saggio
ma irresoluto. A te sen viene Alinda.
In disparte mi traggo. Ardisci e spera.
Gentil vezzosa Alinda, il passo muovi
non so se grato o se noioso, immersa,
talché incerto son io se scossa i’ t’abbia
                                           Qual chi presente
sogna amabile oggetto e, gli occhi aprendo,
fu presagio, non sogno, il ben che vede,
nel lontano idol mio, desta a tue voci,
col guardo incontro de l’idea l’oggetto;
tutta si raccogliea nel suo pensiero,
da l’idol finto a vagheggiare il vero.
desio d’esserti grato. Altro, e tu ’l sai,
altro amor vi si oppose; e teco, Alinda,
Chi può l’egro sanar, perché il compiange?
Studia pietà i rimedi e poi gli arreca.
Vani spesso gli rende il troppo indugio
e le vie di salute occupa il male.
Orsù, ti senti, Alinda, alma bastante
Sforzo onde poi godranno i nostri affetti?
Ah! Che non oserei con tal mercede?
Per ingrata beltà sai quanto feci,
in me costanza, non in lei fierezza.
come scior la catena e uscir di affanno.
Vuoi la via più spedita? Ama chi t’ama.
E lo bramo e ’l farò. Pria che la notte
l’ombre sospinga a la metà del corso,
celebrerò mie nozze; e tu mia sposa
Ottaro... Io ricusarlo?... Io tua?... Tu mio?
Sì, lo ripeto ancor; sarai mia sposa,
purché fra la tua destra e fra la mia
non si ponga Sirita e a te mi tolga.
grandine impetuosa abbatta e strugga,
sì non rimane sbigottito e mesto,
quale al suon di tue voci il cor dolente
che languir vede e inaridir sul fiore
                               Di vergogna e scorno.
Sai la durezza di quel cor protervo?
Ma di femmina è cor, fiero per uso,
Alma sì altera e a tant’amor sì ingrata
Ciò che non puote amor, fa gelosia.
Può sentir gelosia chi amor non sente?
Su, che più pensi irresoluta? Vince
altri ostacoli amor. Mi vuoi tuo sposo?
                                               Né si trascuri.
Forse sarò contenta; e quando ancora
per me ruoti il destino avverso e rio,
vedrò lieto il tuo amor, se non il mio.
Qual cominciasti, a condur l’opra a fine
usa senno e fermezza. Ecco Sirita.
              Stimola a sdegno il molle affetto;
Mostriam di non vederla. (Piano ad Ottaro)
                                                 Ella ne osserva (Piano a Romilda)
Quella è Romilda; Ottaro è quegli. (A parte)
                                                                Oh, l’ombra (Piano a Romilda)
di me stesso foss’io, ch’or non avrei
del guardo, ch’io sospiro, invidia a lei.
Lascia di vaneggiar. (Piano ad Ottaro)
                                       (Parlan fra loro). (A parte)
Ottaro, non si stanchi; e non sì tosto
                                             Ah! Che soffrendo
io già tanto fui vil, quant’ella ingiusta.
Segui; ma con più d’ira anima i detti. (Piano ad Ottaro)
i benefizi ingrata; e quanto scorge
più forte il suo dover, meno lo apprezza,
Non ti smarrir. Ma languido e dimesso (Piano a Ottaro)
parla in te sdegno, come parla amore.
(L’ira del labbro è una bugia del core). (Da sé)
Di che ti lagni? Al tuo valor diè lode
Quale stima ha per me chi mi disprezza?
languir ne’ ceppi suoi. Fomenta i torti
Avrà fra poco la gentile Alinda,
ch’arde per me di puro amor sincero,
avrà, sì, le mie nozze. (Ah! Non fia vero).
(Avrà sue nozze Alinda?) (Da sé)
                                                Ah, principessa, (Volgendosi e fingendo di averla solo allora veduta)
                         Taci. Valore e gloria
desta quasi mi avean qualche speranza
da la turba minore alzarsi a volo
Mi deluse apparenza. Anch’egli rade
la bassa terra e sta di loto asperso.
le nozze affretti. In me non resta omai
altro senso per lui che di disprezzo
di dover la mia vita a un infedele.
                                          O poco esperto! (Piano ad Ottaro)
Leggi, leggi in quell’ira il suo dispetto.
Anche l’ira nel forte è debolezza
e l’offesa non giunge a chi la sprezza).
Tanto farò. (Piano a Romilda) (Reggi mie voci, amore). (A parte)
viver tuo, morir tuo, crudel Sirita.
Quanto feci e soffersi, altro non abbia
Questa è l’ultima volta... O dio, Romilda. (Piano a Romilda)
L’ultima, sì, che ti favello. Io porto
ma un amor disperato a’ piè de l’ara,
di funesto imeneo. (Mi ascolta e tace). (Piano a Romilda)
Vanne ad Alinda. Addio. Lasciami in pace.
così tranquilla? Orsù, ti si compiaccia.
pace che a te conviene. E qual oggetto
un rimprovero a te di sconoscenza?
La reggia? Io la difesi. Il bosco? Anch’ivi
ti salvò con periglio il braccio mio.
Mal perduta mia fede! A te di lei
Per non più rivederti, ingrata, addio.
disperato il mio amor. Mi ascolta e tace.
Vanne ad Alinda. Addio. Lasciami in pace.
Parti e del resto a me la cura affida. (Piano ad Ottaro)
anche assenzio in cristallo e sta nascosta
anche in placido aspetto ira e amarezza.
                                    Vincitor non mira
torsi la preda né beltà un amante
mal mi conosci. In me non arde amore
Nol desio, non l’invidio e non lo spero;
averlo e non averlo è ugual pensiero.
Fingi così ma in te ti rodi e struggi.
Fa’ qual prova più vuoi di mia costanza.
potrai tu stessa de la coppia eletta
mirarli e non mirarli è uguale oggetto.
                       Ma d’astio piena e d’ira.
L’ilarità del cor vedrai nel volto.
A noi mentir gli affetti è agevol cosa.
E tu norma prescrivi a mia virtude.
Fra la garrula turba io non ti voglio
                                   A qual mi eleggi
ne’ più illustri imenei vergine eccelsa
suol sostener sacra facella.
                                                 E questa
sfavillerà su la mia destra.
                                                 Intendo.
Farai ch’ella di mano alor ti cada,
onde i lieti imenei turbi il sinistro
arder mi lascerei la destra invitta.
Troppo, amica, ti ostini in tuo tormento.
Il simulare indifferenza e pace,
quando guerra e tumulto agita l’alma,
Sposa d’Ottaro Alinda? Andrà superba
di un a me tolto non amato amante?
sul crine i fiori? A rovesciar su l’ara
l’infausta pompa? Ad ammorzar la face?
E minacciosa a vendicar l’oltraggio?
O dio! Sarà vendetta e parrà amore
e si dirà che non di Alinda il torto
ma di Ottaro l’amor mi duole e preme;
e forse forse avran ragion di dirlo.
manterrò ritrosia, fermezza al core;
vacillerà la destra. Andiam, Sirita.
Salvisi la tua gloria e a lei si doni
e vendetta e riposo e amante e vita.
pronubo al mio, qui a celebrar si avesse,
me due volte beato e padre e amante!
Lascia i lamenti. Il popolo giulivo
la face nuzial. Tu fa’ che ad arte (Ad Ottaro)
finché quella in sua man fiaccola ardente
                                          Da questo indugio
In sentirsi l’altera arder la destra,
Sinistro augurio per l’infauste nozze.
O spinta dal dolor, volgerà intorno
l’occhio languente ad implorarne aita.
E a te facile fia rapirne un guardo.
Piaccia al ciel che mi giovi. Io spero e temo. (Parte)
Ottaro molto deve a tua pietade.
Servo insieme al suo amore e al tuo riposo.
come re, come padre o come amante?
l’alme sovrane; ed i gravosi e molti
spazio non danno di abbassar la mente
che d’ozio si nutrisce e di diletto.
Anche fra gli ostri e gli ori amor passeggia
né cor di re fan da’ suoi strali esente
per esser re. Il nascere e ’l morire
gli è comune coi vili, il moderarli
coi forti, il non sentirli con nessuno.
                                                 Puoi dubitarne?
Né Sivaldo arrossisce in dirsi amante.
Ama qual deve; e fa che su la fronte
amore e maestà siedan concordi.
                                      Ove la bella
non potria da sé stessa, io la sollevo;
e amor corregge di fortuna i torti.
a lei, fuorché Romilda, invidia porti.
Ma de la lieta turba odo i concenti.
placida, lieta e d’oro adorna e d’ostro.
Ecco l’ardente face. Ecco l’afferro (Prendendola dalle mani di un paggio)
                                       Io t’ho pietade.
Di’ che la mia fermezza a te dà pena.
Non far che di sua frode Alinda esulti.
Sua frode non mi nuoce e non mi irrita.
Tardo pentirsi non ripara il danno.
Quando io chiegga pietà, tu a me le niega.
                                        (Troppo è ostinata).
Vien più lieta a incontrar la tua fortuna (Piano ad Alinda)
che l’estinte speranze in me ravviva.
Si trovano i naufragi anche nel porto. (Piano ad Iroldo)
di amor nemica. Io ti credea più forte;
e ministra qui vengo a’ tuoi sponsali.
Per liberarti da importuno amante
Piacemi tua pietà. Ma che si tarda?
Sta sul finir la face. Al nodo, al nodo. (A Romilda)
A le danze, a le danze. Ai canti, ai canti. (Escono altri popoli festeggianti, in abito di varie nazioni)
e di ardore e di vita. Al nodo, al nodo.
A le danze, a le danze. Ai canti, ai canti. (Accompagnando il ballo)
la facella divampa. E ancor si tarda?
Dolor non mi permette il sostenerla,
                                            In suo soccorso (Piano a Romilda)
               Fermati e attendi. (Piano ad Ottaro)
                                                  Arde la destra,
e se la getto, ogni mia gloria è spenta.
Romilda... Amiche... Ah! S’io non mi ho pietade,
Purché splenda mia gloria, arda la mano.
                            (O costanza!)
                                                       (Io con lei peno).
Ottaro già in amarmi a me sì fido?
dal sembiante di Alinda e non mi osserva.
A me giunse quel guardo e tu sei mia. (Sirita abbassa gli occhi e sta alquanto pensosa)
                                                 Ottaro, hai vinto.
Hai vinto, sì, son tua. Pria del mio sguardo
dovuto a la tua fede e al tuo valore.
Non le nozze di Alinda e de la destra
l’ardor non ti rinfaccio. Io ben conobbi
l’arti d’industre amor; ma ceder tosto
non era gloria mia. Penai con lode
e insieme vendicai frode con frode. (Verso Alinda)
                                    (Oh! La rubella,
la nemica di amor come favella!)
non è ’l piacer, quando un gran ben si ottiene,
da quel desio, che sì mi accese, o figlia,
di vederti congiunta a illustre sposo,
splendor del regno nostro, eccelso eroe.
Coppia illustre di amor, vi abbraccio e stringo.
qual può darti un re amante. Hai la mia fede.
di più illustre imeneo tromba festiva?
suonano a l’alta intorno augusta reggia.
e di luce miglior si veste il giorno.
che è di lode e valor fonte perenne,
o tu di augusti figlia e tu nipote,
di beltà, di virtude anima adorna,
il favor di fortuna, in cui nascesti,
del tuo sposo real degna saresti.
cui diè un regno natura, uno virtude,
che dir potrò? Sposo a lei vieni. Questo
il sommo di que’ fregi e di que’ beni,
che a tua sorte e grandezza il ciel concesse,
ve n’ha ancora un maggior; cesar ti elesse;
cesare, in cui la mente è assai più vasta
te elesse a tanto onor, te stimò degno
del suo amor nobil pegno. Or di sua scelta
ciò che cesare elegge, approva il mondo.

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