Metrica: interrogazione
676 endecasillabi (recitativo) in Zenobia in Palmira Barcellona, Figueró, [1708] 
l’Ebro, che fido un sì bel nome adora,
sotto l’essempio altrui splender si vede
sconfitto è ’l Perso, libera Palmira,
Aspasia in mio poter, Farnace avvinto
i miei lauri e ’l mio regno un vostro dono.
Fregio del vincitor, speme del vinto,
spoglia non vil del tuo trionfo, è degna
di tua clemenza. A pro di lei ti parla
                                                E più ’l tuo amore.
Signor, nol niego. Ardo d’Aspasia; e ’l foco,
andai messaggio al re Sapor, suo padre.
e fu, se a questo pena, a quei diletto.
Ma chi arse mai per non veduto oggetto?
Io, duce, io son che n’ardo. Amo l’eccelsa
                    La magnanima, l’invitta,
tace del ver, per non parer bugiarda.
altro non ami in lei che il tuo pensiero.
Amo in lei la virtude, amo il valore;
non da beltà, prese da gloria ha l’armi.
Re di Palmira, al tuo trionfo io reco
il non ultimo fregio. Egli è ’l superbo
distruttor de’ tuoi regni, ei che fra l’armi
                                             E quello, aggiugni,
che per Aspasia odio immortal ma giusto
a te deve, a te giura; e meco il giura
da un tuo rifiuto in lei sua figlia offeso.
(Anche vinto, minaccia il cor feroce).
Nobil guerrier, sotto le assirie insegne (A Zenobia)
è troppo avvezza a militar fortuna.
per cui gloria ha ’l suo sesso, invidia il nostro.
A l’armi sue deggio ’l trionfo e deggio
la vita ancor. Nel valor vostro, o duci,
parve sul campo d’ostil sangue intriso
tutto egualmente il suo gran cor diviso.
(Non men che l’alma invitta, ha bello il viso).
l’ire superbe in libertà. D’alora
che appresi a non temerle. E tu di Roma (A Decio)
freggio maggior, vanne ad Aspasia e dille
che la mia reggia, ove l’arresta il fato,
non è carcer per lei. Ne’ miei vassalli
(Decio ad Aspasia? O mio destin spietato!)
Così servo al tuo amor. (Piano a Decio)
                                            (Parto beato).
Perdonami, o signor. Pietà imperfetta
che non sieno compiti e non sien grandi.
Torni ella pure al ciel di Persia; ed ivi
de l’indomito sen le furie ultrici;
qual sia ’l cor, qual la man de’ suoi nemici.
l’assirio Marte a suo piacer disponga.
                             Andrò, Odenato; e solo
per cangiarlo in tua pena accetto il dono.
chi disarmi in tuo pro la mia vendetta;
me più possente e più nemico aspetta.
                                        La tua nemica
tanto t’è a cor? (Giovi scoprirne i sensi).
Deggio questo rispetto alla sua sorte.
Vanto ha di bella; e in due begl’occhi il pianto
spesso facile via s’apre ad un core.
In diffesa del mio veglia altr’amore.
il rifiuto d’Aspasia e l’armi perse.
                                 La tua regina.
                                                             Eh! Duce,
Io che, pria d’un bel volto, amo un gran core.
                                      Fama e virtude.
Or n’amo anche i favori; e se al grand’uopo
mi difese con l’armi il suo potere,
l’amo insieme e per gloria e per dovere.
a Zenobia anche il grido; e ne’ tuoi rischi
temé di parer vile o almeno ingrata.
e fregi accresce al suo valor beltade?
Cresce l’amor, quanto più cresce il merto
E in chi s’ama virtù, beltà si brama?
più bella è in un bel corpo la virtude.
E se onor di beltà manchi al sembiante?
A la virtù non mancherà l’amante.
amerò con più ardor, se ha vago il volto,
                                Favella.
                                                 In uom gentile
                                                     È vile.
                             Tutto anzi deve al forte.
                              Chiuso ne l’elmo il prode
portò altrove la strage e la vittoria.
                                         «Prendi» mi disse
«quest’aurea gemma». Io qui ne serbo il dono. (Mostrando un scattolino d’oro)
                                         Quando il mirai?
Che? Non intendo. O dio! Tra queste gemme
E tu, timida destra, ancor mel chiudi?
Apri. Ogn’induggio è pena. Ah! Che rimiro? (Apertolo ritrova il ritratto di Zenobia)
vi leggo il nome a ciffre d’oro impresso.
Questo è ’l suo volto. Il cor mel giura. È desso.
tien del guerrier ch’a me lo diede. O cieco!
Io cercava il mio sole e l’avea meco.
Son io più Aspasia? Io di Sapor la figlia?
giurata in Persia? Ove l’amor? Tu primo
a’ danni miei? Tu mio nemico? Ah spegni,
le infelici tue fiamme, odia l’ingrato;
e l’odia, se ’l puoi far, più di Odenato.
Odio, sì, principessa, odio ti chieggo;
misero più che reo, chieggo a’ tuoi piedi.
l’alta necessità de’ falli miei.
E Decio ancor, Decio d’Aspasia ardisce
offrirsi al guardo ed insultar le pene?
vieni a goder? Vieni a cercar il vanto
de la perfidia tua sin nel mio pianto?
                                               Taci. Abbastanza
di un empio cor. Contra d’Aspasia armarsi
l’Asia potea, Roma, la terra; il solo
la tua fede, il mio amor, tutto oltraggiasti,
di furie il sen, di acciar la destra armasti.
(Ma se ’l torno a mirar, l’ira vien meno).
di augusto vedi anche un vassallo e vedi
Tutto in lui può l’amor, purché l’amore
non si opponga al dover; cesare impone
                                                   Aspasia
                                     E non un cor romano.
nelle miserie mie; vieni, ti affretta;
accorciar questo manto; il piè mi prema
la man si stringa. E ad ostil carro avvinta
fa’ ch’io lo siegua e prigioniera e vinta.
Tu temi oltraggi ed io ti reco, o bella,
E ognor sei schiava ove un nemico ha ’l trono.
              Addio, Decio.
                                         (Gelosia mi svena).
                                    Tu parti, Aspasia?
vegliò tra l’armi e che per lei fedele
Ma sleal mi fu Decio, empio e crudele. (In atto di partire ma poi in lontano si ferma a mirar Decio)
                              (Che più ti arresti?) (Ad Aspasia)
                                                                     Eh! Lascia, (A Farnace)
nel duol de l’infedel la mia vendetta.
Più mesto il vuoi? La tua partenza affretta.
                                Che? I miei doveri
Andiam, Farnace; e teco resti, iniquo, (A Decio)
de l’ire mie la rimembranza e insieme
de la perfidia tua tutto il rossore. (In atto di partire)
(Io partirei, se ’l consentisse amore).
                                                        Farnace,
                                  In testimon del core
                                 Applaudo. (A Farnace) E in te, spergiuro, (A Decio)
più di quel ch’ora t’amo, io non t’amai.
                                  Tu ch’io qui resti? (A Decio)
                              Che?
                                          Voglio vendetta.
ad imprese più ardite il bel comando.
in favor del mio amore alla mia gloria?)
Decio, così sospeso? è tempo, è tempo
Se tardi, il campo al tuo rival tu cedi.
Già ti precorro; e tu lo soffri e ’l vedi.
al più forte campion del perso impero,
le sue vendette affida. Ecco te lieto,
già spirano a’ tuoi lini; e resti intanto
qui Decio l’infelice in mar di pianto.
Non mi movono a sdegno i tuoi disprezzi.
Tutte ora deggio le vendette e l’ire
                                            Ire e vendette
mai non mancan ministri alla vendetta.
                                     E qual ti accolse,
Piena de l’odio tuo, de l’odio mio,
                                                   Eh! Decio,
                                         Cieca ne l’ira
la rabbia di Farnace e ’l mio dovere.
Ma Farnace è impotente, io son romano.
E bench’ella mercede a l’opra sia,
Quanto può, tenti Aspasia. In te mi affido
                                               I passi
de l’invita Zenobia offrir non posso
con la stolida forza e braccio e ingegno.
vedine, o duce, in questo cerchio espressa. (Gli mostra il ritratto)
che non scuopra anche in voi nuove belleze.
mira il ritratto, io l’esemplar vagheggio).
ch’ella non apra in me piaghe novelle).
Luci de l’idol mio, siete pur belle.
distrutto ha l’opra d’un amor lontano,
formato da l’idea, non da l’oggetto.
e in un dal core ripassando al labbro,
vorrien pur dir; ma che dir poi non sanno;
per troppa piena in su l’uscir ringorga.
Mio re, nel tuo piacer sento il mio bene;
per gioia del cor mio, dimmi che m’ami.
di parer poco amante e troppo ingrato.
                   O godimenti!
                                              O cor beato!
A l’ardor di quegl’occhi io vengo meno.
Al ferir di quel ciglio il seno è poco.
                                            Io tutto foco.
Tu ’l vedi, a’ voti ingiusti è sordo il cielo.
Ciò che nuoce al nemico è sempre giusto.
ti fe’ la sua vittoria; e poiché tenti
de’ suoi popoli il cor, sei un ingrato.
                                    Opra più saggio.
L’ingegno e ’l braccio al mio signor degg’io.
Va’, poiché manca il braccio, usa l’ingegno.
l’amicizia di augusto e degli Assiri
sono facili acquisti. A che più tardi?
Vanne. Fa’ che Sapor regni e trionfi.
                                              L’amor de’ suoi.
Nobile amor sdegna le frodi. Ei chiede...
La bella io qui rispetto; e degno altrove
In Farnace viltà? L’acciar... (Dà mano alla spada)
                                                    Risponda (Vedendo Aspasia che sopraviene)
Le tue giuste vendette ei mi contrasta.
Decio sia men amante o men nemico. (A Decio)
Ti serva ei col valor, non con l’inganno.
Tant’ira da Farnace io non pretendo;
né si cerca il mio cor di Decio in seno.
Il so. Ti duol ch’ora in periglio ei sia.
Lice ogni via, se a grande impresa è scorta.
Ma perde de l’impresa il frutto e ’l merto
chi la tentò senza guardar l’arcano.
Meglio pensa. D’altr’opre Aspasia è ’l prezzo.
Ma tu che oprasti, di’, per meritarmi? (A Decio)
Taci. (Purtroppo il so). Di’, che facesti?
tutto se un vero amore in me tu guardi.
                                                  So dirlo anch’io. (A Farnace)
Ma qual merto ha l’amor che nulla giova? (A Decio)
D’altro parliam. Dispera i nostri voti
                                            Empio, che dici?
Vedi Zenobia. Ella è in Palmira e aggiugne
la sua presenza un crudo scherno al danno.
Nemica l’odio e non rival. Mi sprona,
più del bel che mi usurpa, il mal ch’io soffro.
La salvi dal tuo sdegno il di lei sesso.
Pensa; è sagace alor ch’è grande amore.
vuole Odenato. Io là ben cauto i miei,
che meco han libertà, trarrò in aguato.
Tu al mio fianco sarai. Zenobia ed esso
cadranno in tuo potere; e ’l fido legno,
ch’io disporrò dove vicino al bosco
trarrà con noi di tua vendetta i pegni.
Ma Decio? S’ei riman, potrà seguirne
con maggior stuolo e a noi ritor la preda.
                       No, vo’ ch’ei viva e veda
ch’anche ne l’ira estrema ho regio il core.
                                                             Io parto.
                          Il rival?
                                           Non più. Ubbidisci,
meglio che al tuo sospetto, al cenno mio.
                          Anche Decio. Aspasia, addio.
se agl’amanti superbi i lacci io rendo,
e più bella se Decio... Io taccio e fingo. (Vedendo Zenobia e Odenato)
                              Eh, signor, Zenobia è bella.
                                              Io non son quella.
Tal più non sei. Ti giovi ed a te piaccia
abbia il fasto maggior dagl’occhi tuoi.
Mi arride il cielo. Io là verrò, se vuoi.
Vieni, ma lieta, e l’ire acerbe ammorza.
Lieta dov’è Zenobia? Un’alma grande
non soffre senz’orror pubbliche l’onte;
né più mi fermo, ove del mio rifiuto
e la cagione e ’l reo presenti io veggio.
                         Placa il furor.
                                                    Nol deggio.
Né l’amo né la temo. Io tuo mi giuro.
Pensi ch’io ne diffidi? Entro il mio petto
non giugne un basso affetto. Ella pretese;
ma la tua fé m’accerta. Un core augusto
arderà sempre per chi pria l’accese.
Tu l’accendesti e per te avvampa il mio.
Ne fu l’esca primiera il tuo gran nome,
l’altra stirpe e ’l saper che, appena uscita
del terzo lustro, hai tanta gloria in fronte.
Ma poiché giunse il guardo ove giungea
sol con amor la speme, il foco crebbe;
e ’l cor desia che nel suo ardore accenda
sono la gloria ed il piacer de’ miei.
                         (Ah! Che sovvienmi, o dei!)
Che? Si turban degl’occhi i rai vivaci?
                              Impallidisci e taci?
Arde; ma ’l mio dover l’empie di gelo.
                                                Chiedilo al cielo.
Lascia che al nostro duol l’aura s’avvezzi.
io per scoprir, tu per saper l’arcano.
                                                   Parti e temi,
se non la mia sciagura, il tuo dolore.
Nol so temer, se non lo fa il tuo core.
il prezzo di quel ben che già perdei.
veglio cauto e fedele. Io qui d’intorno
ogni varco spiar più volte il vidi.
Tengono il vicin colle i miei romani,
pronti al cenno primiero. Ei venga. Ei tenti.
la mia fama sarà, sarà il mio zelo.
Sempre è custode a re, ch’è giusto, il cielo.
de la Persia il decoro e l’onor vostro.
che val mille vittorie. Andiamo, amici;
esempio al vostro cor quel di Farnace.
Principessa, che pensi? È tema o sdegno
Vengo. (Ma Decio qui non veggo ancora).
Se hai spavento di fiere, a me ti accosta.
                                (Ahi! Fosse vero).
                                                         O dio!
                                 Da chi?
                                                  Dal voto mio.
                                      Or puoi svelar l’arcano.
(Tenta insidie Farnace). Eccomi, o bella.
                                          (Il cor lo spera).
Avrem prede più illustri; e qui vedrai
Siegua or lieta la caccia; e in essa accenda
e più chiara e più bella amor la face.
                           Fier destin!
                                                   Cedi, o fellone.
Ah codardi! (Verso i suoi che fuggono)
                         Non più, rendi quel ferro. (Tenendogli la spada al petto)
                         Lascia l’acciar. (Lo incalza e lo disarma)
                                                      Son vinto.
                                   Non tutto il core.
per vantar l’alta impresa. Io teco, teco
vuol che infelice il mio pensier si scuopra,
la gloria de l’idea, se non de l’opra.
                           Infame gloria! Or ora
traggasi a’ lacci ed ivi aspetti e vegga
L’aspetto e la vedrò ma senza tema. (Parte condotto da’ romani)
E l’egual benefizio onoro anch’io.
(Soffri, sdegnato cor. Quel che tu adori
Non perdoni a Odenato ed è innocente;
                                           Assai ti onoro
Non mi discolpo e non mi accuso. Addio.
Decio verrà. Di te tal guida è degna. (Ad Aspasia)
Va’; e col tuo amor men crudeltà le insegna. (A Decio)
                                                 Brama, che affretta
gli affanni tuoi, troppo raddoppia i miei.
S’hai grande amor, quella che cerchi è grande.
La pavento maggior, se non mi è nota.
Deh! Perdona a l’amor, perdona al zelo
Basti a me del saperla e ’l duolo e ’l danno,
                                              Ti ascolto.
(O dio! Vorrei pur dirlo e non vorrei).
                                E perché t’amo, io parlo.
T’amo; ma ch’io sia tua, che tu sii mio
                                            Solo Odenato.
Fosti il mio solo amor e ’l sarai solo.
Ahi! Senza tuo dolor, senza tuo rischio
esser puoi l’amor mio, non il mio sposo.
                              La mia giurata fede.
                                                          Ai numi.
Del mio goder rivale il cielo? E come?
Odi e fa’ cor. Dal fasto mio rapita,
a’ numi protestai, promisi e, o dio!
quant’io detesti il mio feroce orgoglio.
                               Ti dica il pianto
il mio grave rimorso, or che m’avvedo
che tardi e invan de la mia fé mi pento.
cercar quel cor che de’ miei voti è ’l segno?
per seco esser contento? Un duolo atroce
succede a la sconfitta. Infausto voto!
Tu fai la mia sciagura; e in ogni sorte
veggio in te il mio rossore e la mia morte.
                                                      E porgi
a pro del tuo rival voti al mio scettro?
                                                                 Aspasia
                                       Mi fa pietade
ne condanno la man ma ’l cor ne assolvo.
Ragion non te ne rendo e Aspasia sono.
                                    Le sue catene
                                              Io ti assicuro
per lui da nuove offese; il cor feroce
tutte lasci al mio piè le sue vendette.
Così Aspasia per lui giura e promette.
Ma Zenobia vi aggiunga il regio assenso,
oltraggiò troppo iniquo e troppo audace.
Resti il tuo amor qui più contento; addio.
                                                  Qual posso
Temer ti convenia pria di oltraggiarmi
Bella, non più. Reo vuoi ch’io sia? Reo sono.
                                   Ora il vedrai, crudele. (Mostrando di voler partire)
               Fra’ Daci il piede o fra gli Sciti
l’infausto nome a funestar quell’aure
che, a l’estremo sospir chiusi i suoi lumi,
con pietà troppo tarda a te ’l richiami.
(Fingo così, perché mi creda e m’ami). (Come sopra)
avvilirmi così? Già so ch’ei finge.
Non partirà). Che più ti arresti? Parti.
Venga meco un dolor ch’è disperato.
Teco resti un furor ch’è vendicato.
Non richiamarmi più. Già parto. Addio.
                                       (Ei parte). Ah! No, cor mio.
                        (Taci. Ecco Farnace).
                                                                Eh! Parli (A Decio)
il felice amor tuo; sugl’occhi istessi
n’è la mia libertà. Mi toglie Aspasia
dal piede i ceppi, ond’io gli sciolga al core.
Vuol così la crudel. Parli il tuo amore.
assai per me fece il tuo braccio; assai
De la Persia a l’onor fido servisti,
ma servisti anch’insieme al tuo dovere.
ha per gloria e per legge ogni vassallo.
fermar il volo a certi affetti. Basta...
Tu m’intendi, o Farnace, ed al tuo merto
ch’io, tua sovrana, abbia il tuo amor sofferto.
Soffrir quel di Farnace è mia mercede,
                                           È mio diletto.
Voglio così. Tu datti pace. Ho detto.
Non contrasto i tuoi voti. Ama a tua voglia.
Ed a me resti in libertà lo sdegno. (Dando un’occhiata a Decio)
Suol le altezze ferir nembo che freme.
più non ti chiede Aspasia e te le vieta.
libero uscisti; il tuo rival ne ha il merto;
Tu per tema de’ miei, reggi i tuoi sdegni.
Mal si soffre un rival, quando è felice.
                                                 Più tosto
                                       Anche il mio amor, se ’l vuoi,
                                             Mel giuri?
(Quanto parla in amor gioia che tace!)
da l’odio del mio amor, prole mal nata
me n’apre il campo; io pugnerò; qualunque
io n’avrò gloria e tu dispetto ed onta.
vivi nel sen, dimmi, quel cor che pensa?
Ah! Se ’l trovo nemico, ov’è ’l suo amore?
esser devi, o Zenobia, il prezzo illustre.
tocca il primo cimento, a me che t’amo,
più di quanto amar posso, e che ho dolore
desti avrà nel tuo sen spirti guerrieri.
e già sei col pensier nel gran cimento.
e che osar non dovrei? Ma ch’io la cerchi
sudo, agghiaccio, vacillo e vengo meno.
Che? Col rossor di un vil consiglio in fronte
per svenare a’ tuoi piè le mie speranze.
Pria che offender quel sen, pria che piagarti,
la fiachezza del sesso; e volger l’armi
Se da l’amor prendi consiglio, ei t’armi,
egli al campo ti guidi, egli al trionfo.
non son io sposa tua, se son tua palma?
M’ami la tua bell’alma e son contento.
Sia pur misero il mio, pria che crudele.
E non è crudeltà voler ch’ei pianga
                                      Così tu vuoi,
ch’altri, con men di fede e più di ardire,
                                       Su, fa’ più core. In campo
del tuo amor vien guerriero. Ecco ti chiedo
                                 E là ti attendo anch’io.
Zenobia... Ahi, che promisi? Io l’empio acciaro
volger nel tuo bel seno? Io pugnar teco?
a’ colpi del tuo braccio offrirò il petto,
o bellissima man, qui ’l ferro immergi.
l’immagine gentil de’ tuoi begl’occhi».
E che? Son io cagion che ’l mio nemico
Essa è la sua miseria e ’l mio contento.
Or venga pur, combatta pur. S’ei perde,
il suo dolor val l’onta mia. S’ei vince,
di Zenobia il rossor paga i miei torti.
Basta un di questi sfoghi a’ miei pensieri.
                      Decio m’ami e Decio speri.
Basta, basta così, già i due campioni
del fasto e de l’amor Palmira attende.
Mio terror, mia speranza è ’l dubbio evento.
Vediam come il destin serva al mio sdegno.
                Siegui.
                                Non più. Chi diè speranza
amo; ma che? Grande e Zenobia io sono. (Si ritira in disparte)
che a’ tuoi voti amorosi apre la sorte.
sì ch’io scemi il rossor de l’esser vinta
o si aggiunga un gran fasto al vincer mio.
                                                 (Tace Odenato?)
Nel mio pallor, nel mio silenzio mira...
Quell’ira generosa... (Se gli accosta)
                                       Io l’ire, o bella?
regge i miei voti e l’opre mie consiglia.
                          Ciò che l’amor m’insegna.
Mi piace; ecco il mio brando e il mio valore. (Mette mano alla spada)
                               Non me lo insegna amore.
                                                     Amor mel vieta.
                                                 Ah! Ben vegg’io (Abbassa la spada)
Che tutto il mio pensier sia la mia fama?
Amo anch’io, bramo anch’io; ma poich’osservo
l’alta necessità, ch’è nostra legge,
Sin qui l’amante, or la nemica ascolta. (Ritirandosi addietro)
su, quel ferro decida. (Alzando il ferro verso lui)
                                         Io tanto ingrato!
ne l’induggio ostinato il mio disprezzo.
il viver tuo che de’ miei sdegni è reo.
Rispondimi con l’armi. Io tel comando.
se avesse il cor la tempra egual col brando.
                               Quale ardimento?
Quella, che tu non curi, è mia ragione.
Zenobia è premio a tutti ed il suo voto
la strada de l’acquisto apre a Farnace.
                                  Il soffrirai? (A Odenato)
                                     Pronto ti attendo. (A Zenobia)
Ferma. È mio quel cimento. (A Farnace, tirandolo addietro)
                                                      Or qui l’adempi
Mi arma rivalità. (Mette mano alla spada)
                                  Vinci, o Zenobia,
(Veggon gl’astri il mio cor). (Si mette in atto di pura difesa)
                                                    (L’evento aspetto). (Si ritira in disparte)
                                           Nobile sdegno,
vittoria tanto illustre. Il ferro prendi. (Le rende il ferro, Zenobia lo prende e torna mettersi in atto di combattere)
Io così mi difendo. Ecco il mio seno. (Getta la spada e le presenta il petto)
È ver. Meco or si provi il tuo valore. (A Zenobia avanzandosi)
Frena l’inutil brama. Egli mi vinse (A Farnace)
pria col braccio guerriero, indi con l’atto
del cor gentil. Sì, mi vincesti, o caro. (A Odenato)
Son tua. Sei mio. Più contrastar non lice
al linguaggio del ciel. (Decio ed Aspasia scendono intanto dal loro posto)
                                         (Sono infelice). (Parte)
                                                O me beato!
per amar il tuo Decio. Ei ben n’ha il merto.
                                                O lieta sorte.
tu la mia man, voi l’amistà sincera (A Odenato e Zenobia)
Io per l’Assiria ed immortal la giuro.
Al nostro applauda anche l’Eroico Amore.
degl’Elisi il piacer provano l’alme,
l’aspre tempeste fai volgere in calme;
ma con gara d’amor l’Adda e ’l Sebeto.
N’arde d’invidia ancor quanto si serra
che già non v’è del mondo estranio lido,

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