Metrica: interrogazione
861 endecasillabi (recitativo) in L'Engelberta (Zeno e Pariati) Milano, Ghisolfi, 1708 
più misero mi vuol perché più illustre;
nel più lieto splendor di mia vittoria,
ond’io n’abbia più pena, ella più gloria.
Come, o signor? Quando già vinto e domo
                                                                O cieli!
Pena, ch’è ria, fremer non puote occulta.
                                                               È tanto
che scoperta più duole e più infierisce.
Gran rimedio è virtù ne’ casi avversi.
Ma negli estremi anche il rimedio è pena.
                                                               (O dio!)
recai gl’ordini eccelsi. Ei frettoloso
(Donde nasca m’è noto il suo dolore).
                                     Qui non chiedo, Ernesto,
Legge è di Ernesto un favellar sincero.
                                           E da quel giorno
                                       Vedovo letto
                                   Anch’ella è donna e moglie.
                                                  Qui legga Ernesto; (Mostrandogli una lettera)
(Comincia a respirar la mia vendetta). (Legge)
Scrive chi tutto è zelo e tutto è fede».
Che lessi mai! (Godi, alma mia). (Rendendogli la lettera)
                                                              Tu, Ernesto,
cui, me lontano, unir di augusta al fianco
di’, chi svegliò l’ardor? Chi de l’iniqua
Nol niego; errò Engelberta; e in basso affetto
penò ne l’ozio de’ suoi voti e tacque;
è altrui virtù quanto non è sua colpa.
Ah! Ch’egli è reo chi non volendo ancora
                                        Sol de l’offese
                                 (Sorte mi arride).
                                  A le tue piante il vedi... (S’inginocchia)
            Sì, vedi prostrato il reo vassallo
che tu in esso punisca un non suo fallo.
                                Io quel son, io l’infelice
che piacque ad Engelberta e parve ogetto
Me stesso odiai, da che l’intesi; e senza
lasciata avrei la fatal reggia e ’l regno,
m’era il tuo error, se mi toglieva Ernesto.
O raro esempio d’amistà e di fede! (Lo fa levare e lo abbraccia)
più che il tuo re, strigni il tuo amico.
                                                                   Io feci
                            Ciò ch’io pur deggio adempio.
Mancherò al viver mio, pria che al dovere.
                                        In Aquisgrana, Ottone,
                                                  Il cenno
dovrò un bene maggior, la mia vendetta.
de’ cesarei custodi, opra è di Ernesto;
un’alma grata, è sol mio voto, o prence.
Ma per qual via giunse al monarca il foglio?
Ne la sua tenda, ove il deposi, ei scosso
Vada or l’altera e quell’amor rifiuti
che le offersi in trofeo, spoglia non vile.
Vada or l’ingrata e le minacce e l’onte
                                       Fu solo orgoglio
ciò che di grande ella portò sul soglio.
Da quella man, che ne sostiene il fasto,
                                       Ah! Ch’ella è moglie,
ributtò le tue fiamme, io perché avversa
                             Il mio zelo e ’l tuo periglio
darà stimolo a l’opre, arte al consiglio.
augusta è donna, è offesa; e ’l fatal foglio,
esser può lo strumento. Eccoti, Ernesto,
col lasciar d’esser reo. La nuova colpa,
perch’è necessità, l’altre discolpa.
Già sodisfatta è la sua gloria. I passi
gli serpe in seno e gli traspar da’ lumi.
                                               Il tuo bel volto
di serenarlo avrà la gioia e ’l vanto.
Con sì gran merto invan diffida il cuore.
Ma qui che scorgo? (Rimirando le pitture)
                                      In queste tele impressi
volli i trofei del mio signor. De’ Greci
passa là ne le Gallie e al primo arrivo
fugge il Normanno. La Sicilia è questa,
sciolta dal giogo onde languia poc’anzi.
                           Al tuo valor gran parte
forze il mio zel la bella fiamma ond’ardo.
Il so, Bonoso, il so. La tua grand’alma
che del primo consorte a me già nacque.
                                        Arder ti piacque.
Il tuo natal, la tua virtù, il tuo merto
che de’ cesari al trono alzò Engelberta,
                                A lei fia sposo Arrigo,
Ella n’ha ’l mio comando, ei la mia fede.
v’incenerì, liete speranze? E d’altri,
                                           Ah principessa!
Poss’io non sospirar, quando ti perdo,
Chi può di questo cor torti il possesso?
Quel comando crudel che ti vuol d’altri.
                                       In figlia amante
spesso è forte l’amor più che il dovere.
                                        Bella Metilde,
che te al mio soglio e me al tuo seno unisca.
sul tuo crine il mio serto; e que’ bei rai
più sdegnosi e più fieri. E che? Gl’affetti,
più che dal genio e da la fede, Arrigo,
era pena al mio cor, torto al mio grado.
la tua grandezza e la trovai più giusta.
Col mio amor tu rifiuti anche il mio soglio.
Questo, o prence, non curo e quel non voglio.
                                           Vil tolleranza
ne approverà l’illustre nodo. Altrove
un suo cenno mi attende e Otton mel reca.
Meco verrà la figlia. Io là t’aspetto.
Già impegno di mia fede è ’l tuo diletto.
Nel consorte sovran l’hai già vicino.
                                             In rii sospetti
t’agiti inutilmente. Il cor di augusto,
spiega il volo a più fiori e un sol ne sugge;
a più lumi s’aggira e un sol lo strugge.
spargi su la mia piaga? Ei puote adunque
                                     Ma negl’altrui
forse un raggio cercò de’ tuoi begl’occhi.
non fu ’l suo amor, com’ei fu solo il mio.
                                       In mezzo a quella
(Smanie d’alma fedel, purtroppo, o dio!
me ne foste presaghe). Intendo, intendo.
che con la mia pietà mi è forza offrirti
                                               In che giovarmi
                                             Nel dar la morte
                            Egizio schiavo in prezzo
che al suo dover lo toglie ed al tuo core.
                                                       Andiamo
(Non fia sempre a’ miei voti il ciel nemico).
Cor mio, ti vuo’ più forte. Anche ne’ falli
Tanta frode!... Non più, quando è salvezza
contro Engelberta... Sì, l’amai; ma ingrata
dirai che a’ passi miei diè l’ali amore.
                                     (Propizi ho gli astri).
Ah! Tua bontà sia fausta a’ voti miei.
ch’Engelberta son io, ch’Ernesto sei.
                     Mal cominciasti. Io mi credea
che, se non la mia gloria, il braccio almeno
                                       Ed egli appunto
Più reo non son, da che pentito io sono.
                                             A’ casti numi,
Sai quanto osasti? E chi offendesti e quale?
e l’offesa e l’ardir; questo è ’l mio affanno
                                        Vuo’ che tu tema
più del gastigo il fallo. Esser dee tale,
(Se ingannata mi crede, io son contento).
più la bontà del mio signor che l’ira;
ch’egli in me trovi un reo, un ingrato, ah questo,
                                       (M’intenerisce). Ernesto,
qui mi scordo il tuo error. Per me non fia
(Deludasi l’incauta). Ah! Col mio errore
perch’io più mi confonda, egli si renda.
(Giunge il sovran, l’arte or mi giovi). Al cielo (Alzando più al solito la voce)
ch’arda d’impura fiama il cor di Ernesto.
di Engelberta nel sen l’onor d’augusto.
Sposo, signor, pur mi ti rende amore. (Veduto Lodovico)
Pur d’un lungo languir... Ma qual mi accogli?
(L’infedel! Ma si finga). Addio, Engelberta.
Addio Engelberta? Ov’è di sposa il nome,
                                                   (Ingrata!) (Verso Ernesto)
abbia Ernesto; ei n’è degno. Io non mi offendo.
Ma ch’io turbato in lor miri il tuo core,
(Frena l’ira, o signor). (Piano a Lodovico)
                                           Parti, mio fido.
Sì, s’ella è moglie e moglie augusta.
                                                                 Il soglio
                                        La fa il dovere.
                                      Son di Engelberta,
                                   Fida consorte!
Fede ugual fosse in te; ma quel sembiante
gli uffici tuoi, finch’io pugnai fra l’armi?
(Qual favellar!) Doppo il mio amor, le cure
pubbliche dell’impero e ’l fido Ernesto...
degno sostenne ognor le veci. Ernesto....
                                       L’indegna fiamma e ’l vile
disio mi è noto e già la pena è pronta.
(Il seppe). Un cieco error talvolta al grado
                              Anzi si accresce al reo
Colpa, che fu segreta, è assai men grave.
È pubblico l’error, se offende un soglio.
                                Il testimon di un foglio.
(Tutto è palese). Al cieco ardir si oppose
                                      Peccar volea.
                                      Ne’ grandi eccessi
                                (Empia donna!)
                                                                Ah! Lodovico,
                                  Senti, Engelberta,
Per ora io non l’assolvo e nol condanno.
                                                 (Indegna,
                                                (Odi l’iniqua,
mi tradisce, lo afferma e pur mi accusa).
                                             (O scelerata!)
Va’ del tuo fallo altera, iniqua donna,
                                           Signor, perdona
                        Che sì ti afflige?
                                                        Arrigo
                                  Ne ottenne il core?
ha di merto il mio acciar quanto ha di speme,
                                        Regge Engelberta
Se ho da te un sì gran ben, vita mi rendi.
ne’ fasti suoi la mia presenza. Andiamo.
                  (Ahi vista! Ahi pena!)
                                                            Ecco l’audace.
(Moro di duol). Mia principessa, io parto.
                            Forse il mio volto, parla,
                                     Che importa questo? (Ad Arrigo)
Metilde, un de’ tuoi sguardi è la mia sorte.
                         Bella, addio.
                                                  No, qui trattienti. (Di nuovo lo ferma)
                                      In questo seno;
Questo è troppo favor, quel troppo ardire. (A Metilde e poi a Bonoso)
del mio soffrir. Sugli occhi miei si tenta
                                      Vanto mendace.
                                            Arrigo...
                                                              Eh taci. (A Bonoso)
La sua speme, il suo amor mia colpa fassi
né l’avresti rival, s’io non l’amassi.
                                           Questo è ’l sol nome
                         Taci, superbo, e parti.
                                              Non ne sei degno.
qui t’invitto con l’armi e là ti aspetto.
Vieni re qual io sono e allor t’accetto.
Qual tiranno pensier? Dir puoi d’amarmi?
                                     A te conviene,
                                          Potrei tradirti?
                                               Ah! Credi, o cara,
Sì, cessa pur d’amarmi e se fia d’uopo
Fido m’ami il tuo cor, questo è ’l mio regno.
                             Al tuo real destino.
Più ’l tuo ben che il tuo amor cercar degg’io.
                  Non più, cara Metilde, addio.
Ma non fia vero; ovunque ei volga il passo,
Qui, Otton, qui l’infedel di un solo sguardo
L’egro, ch’ama il suo mal, pietà non merta.
Sposa non mi chiamò. Que’ dolci accenti
mirar quel che tradì, già caro oggetto,
Da che m’odia il crudel, qual più mi resta
Ch’egli torni ad amarti e vegga il torto.
                                         Sta in tuo potere.
E non m’inganni, Otton? Puote una stilla
spegner nel mio signor gl’impuri affetti?
                                       Lo avrai fra poco
                               Oh! L’uso a me ne giovi.
vedrai solo a’ tuoi lumi arder lo sposo.
                                Rea di sì enorme
Qual fiamma appunto egli è di augusta il core.
                                            E spesso ancora
Negli applausi, che diede a’ miei trionfi,
                                   Finger ben sappia
                                          Che? Tradimenti
                                          Esser crudele
presente Otton; n’ebbe orror meco e vide
il vaso e ’l luogo, ov’ella chiuse il tosco.
(Quando si udì maggior perfidia?) Ottone,
                              M’empie ancor l’alma, o sire,
ne le sue stanze osai seguirla e ’l vidi.
fa’ che il velen sopra il rubello Argonte
del suo poter mostri gli effetti e l’opra.
Chi punir dee la frode, il ver ne scuopra. (Parte)
ne le contigue stanze. Uopo è ch’io resti
Mio dovere e mia gloria. (Il ciel mi arride).
a quell’amor che ti fe’ augusta? A quello
E ’l frutto de’ miei doni è ’l farti ingrata?
(Certo è l’error). Sul contumace Argonte
                              Al primo sorso or ora
                                                       O dei!
Con qual volto ella vien? Con qual riposo?
giunge or a te sì mal gradito, ei ch’era
la delizia e ’l piacer? Di’, perché mai?
in me finge i delitti, in sé gli assolve).
                                                 Ma quello insieme
                                                     (Il vaso,
che diemmi Otton, come in poter di augusto?)
Onesto è ’l fine e fien malvaggi i mezzi?
                                                       Per pena
                                            (Ah! Dir più tosto
                                    (Empia! Con quanta
audacia ancor sen vanta?) E chi un disegno
                                      Un forte amore.
                               Non più, se’ da te stessa
                                            Ascolta...
                                                               Intesi
                                 Un lieve error...
                                                                Tal sembra
                                             E fia punita
                                            Sei rea di morte. (Parte)
perdon si niega, anche il più reo paventi.
                                       Quel foco indegno
                              Ed a punirlo egli arma
                           E tu le attendi? E spiri
sì tranquillo quest’aure? Ernesto, vedi
la mia bontà. T’invola al colpo e parti.
ritrare il piè ne le tue stanze. In questi
                                      Ad ubbidir ti affretta.
                           Da un cesare oltraggiato.
                                                     Costei
                                    Parti e tu, mio fido,
non lasciar che l’indegna a me si appressi.
L’ire accresce l’indugio. (Ad Engelberta )
                                              E fido appelli... (A Lodovico)
                                             A un’innocente...
                                        Sposo inclemente!
                                                   Oggi il destino
mi toglie a’ tuoi favori; uopo è ch’io parta.
                                                Ho petto
pria d’orror, poscia d’ira; evvi chi offende
                          Che ascolto?
                                                   Evvi chi tenta
                           Empio voto! Ardire infame!
                                          In Engelberta.
                                              Ella è impudica.
                                            Donde l’accusa?
de’ miei torti il rossor. Dove più folto
                                                                Io dunque?...
a la destra ed al sen, questa è la strada.
                           Metilde, io so qual fiamma
Applauso tal de’ miei affetti è gloria.
Tu affretta il suo valore. Usa un consiglio
So ch’è facondo amor. Tu qui l’ascolta. (A Metilde)
                                               Un duol segreto
                                       O più non m’ami o vanne.
                                 E tu sospiri? Il bene,
Qual sia ’l tuo cenno, anima mia, non sai.
Né tu sai cosa è amor, se qui più resti.
                                       Irresoluto ancora?
                Perch’io nol son, tale mi chiami.
Lo so. Mel disse il cor. Tu più non mi ami.
Vedi s’io t’amo, o bella. A costo ancora
Dirò: «Vieni, mio ben. Vieni, mio sposo».
                                                            (Intendo).
                                                             Dicesti?
sin che del mio destin giunga il momento,
del mio sposo e signor qui attendo il cenno.
chiedessero al mio braccio un colpo iniquo?
                                                     Il mio consorte...
                             Qual comando?
                                                            A te dia morte.
                                 Né senz’orror l’intesi
                                             Bonoso,
e moglie e serva anche nell’ora estrema.
Prova è d’alma innocente alma sì forte!
Ma di’, per qual delitto ei vuol ch’io mora?
Del tosco, ond’ei m’accusa, Otton ne renda
                              In quel orror si deve
                                           E là si adempia.
né ti arresti il saper ch’ebbe in lui vita
levane il cor. L’abbia il mio sposo; il veda
                              A me perdoni il cielo,
al mio tiranno e al mio uccisor perdono...
                          Qui me pur tragge amore
                                        In fra gl’amanti
non è sempre il più caro il più importuno.
Odiar chi t’ama è crudeltà, o Metilde.
Amar chi t’odia è stolidezza, o Arrigo.
Nieghi la figlia il suo, l’altrui che giova?
                                   Orsù, da quest’accusa
sia di augusto un comando ed io l’accetto.
Speri il superbo e quell’assenso ei tenti
che Bonoso già ottenne... Oltre il costume,
T’intendo, ecco a te viene il tuo diletto.
Spirò pur l’alma infame e del reo sangue
punita avrà l’infamia e ’l tradimento.
(Qual freddo orror m’empie le vene e l’ossa?)
saper ch’io la cagion sia del tuo pianto.
(Infelici mie furie, io vi detesto). (In atto di voler partire)
                                  Fermati, Ernesto.
degno di aver per tomba il sen de’ mostri.
                                     Quella temendo
la speme ai prieghi, alle discolpe il tempo.
foglio i suoi falli e l’altrui fé ravvisa. (Porgendo a Lodovico la lettera di Engelberta)
che attender posso? Un pentimento? È tardo.
Ti si compiaccia. Ecco già l’apro e ’l leggo. (Lo prende e l’apre)
                                Deh! Sommi dei! Che veggo!
                                           Io, sire?
                                                             Sai
cui sian dirette e qual ne sia l’arcano?
                                       Or tel rammento; ascolta.
Ardo a’ tuoi lumi e pietà chiedo o morte.
regno, o bella, non hai di quel di Ernesto».
(Nieghisi tutto. Il mio periglio il vuole).
Tu sì fellon? Tu l’empie brame, Ernesto,
tu l’atre nebbie e l’impostor confondi.
                                        Finse altra mano
                                    Il nieghi invano.
                                                            Duce,
Di tua perfidia è chiara prova il foglio.
                                                         E in questo
vuol l’onor tuo che si sostenga in campo
l’onestà di Engelberta e l’innocenza.
punirò la tua accusa e ’l tuo ardimento.
sia l’impedir ch’egli non fugga. Duce,
va’, le raccogli, ond’io le onori almeno
                             In ciò prevenni, o sire,
                    Anche Metilde ha una gran parte
                                                         Augusto
                          A sì tiranno impero
                                    Era Metilde
che ’l tuo capo e ’l tuo cor mi rechi in dono.
                                   Giurasti eterna
Tu mi amasti, o crudel? No, che avria amore
                                                         Tu pure
stringi l’acciar, pugna, trionfa e t’amo.
la figlia di Engelberta in sul mio soglio.
                                                 Addio. Per sempre
Vacilla il passo e gir non osa il guardo,
Se nol vede Engelberta, e chi mi assolve?
                                   Piangasi adunque
e perché sia maggiore il pianto e ’l duolo,
poiché giugner non puote il mesto pianto
deh! soffrite che imprima in su quest’urna
non men l’error che ’l pentimento afferma.
marmi, il giusto mio affanno e ’l compatite.
le tombe han vita?... Ove son io?... Qual puro
fulgor s’apre a’ miei lumi?... E che rimiro? (Si aprono tutti i sepolcri che con la loro lucida trasparenza figureranno una imagine de’ Campi Elisi; e da uno di essi uscirà Engelberta, tutta di bianco nobilmente vestita)
che tua direi, se tua più fosse. Il fato
È gioia? È speme? È error? Sogno? Traveggio?
essa che un empio, un traditor ti chiama.
Falso il mio pianto? Ah! S’egli è ver che scarche
                         Già lo viddi. Un cor che cieco
mancò a l’amor col non udirlo, un core
È ver; ma ’l mio dolore è tua vendetta.
Duol che l’onte non toglie, accresce l’onte
Parti; né più ti vegga un’ombra offesa
                                                Odio ch’è giusto
                           No no, perfido errasti.
a te il sospetto, a me il periglio. Vanne.
                             Noi merti, o dispietato.
                                        Sei un ingrato.
                                        Ed io ti uccisi?
                                  Vane querele.
                                          Sei un crudele.
Ti plachi il sangue, ove non giova il pianto.
che ’l sen t’aprì; s’ei pur m’aprisse il petto,
che sia l’alma infelice, a lei tu almeno
                                             Fermati e senti.
l’odio mio, vivi, o sposo. Un sì bel nome
poscia il perdon, se pur lo brami, attendi.
                                             Risparmia, o bella,
i tuoi sdegni ad altr’uopo. Altra vendetta
Chi una volta ne uscì, più non vi rieda.
                                      Ed io, signore,
                             Mi osserva.
                                                    Io ben il vedo.
                 Non posso.
                                       Eh! Mi amerai.
                                                                     Nol credo.
confido l’onor mio, quel di Engelberta;
e l’amor di Metilde è la tua speme. (Va a seder nel suo posto)
Tempo è di pugna e non di vezzi. Andiamo.
lo vincerò, Metilde. Un sol tuo sguardo
Ti arrida il ciel, come ti arride amore. (Va a sedere)
l’onestà di Engelberta e la sua fede,
e la destra e l’acciar. De la vittoria
cieco furor? Tutto l’inferno io chiudo.
Che fai? Cerchi il nemico? In me lo vedi.
Al cimento la tromba omai ti sfida. (Suonan le trombe in segno di combattimento)
e col ceffo peggior de’ suoi spaventi.
Quali smanie? Ove vai? Questo è ’l nemico. (Bonoso si mette in atto di combattere. Ernesto lo guarda attento e poi torna alle prime sue furie)
Le furie? Ove m’ascondo?... È ver... Tentai
                                       Parla il suo fallo. (Verso Lodovico)
Dov’è il mio cor? Ma veggio Otton; di’, giunse
l’ingegnosa calunnia a Lodovico?... (Verso una delle guardie)
                                          Il colpo intendo.
Il foglio mio, deh, rendimi, Engelberta;
                                       O tradimento!
Non più, confessa il torto o qui ti sveno.
o solo per pietà passami il seno. (S’inginochia dinanzi Bonoso e getta la spada)
O non v’è più Cocito o l’ho nel petto. (Parte tra le guardie. Al partir di Ernesto comincia a poco a poco a rischiarirsi la nuvolosa e pian piano scendendo a terra si apre e fa vedere nel suo seno la reggia dell’Innocenza. Lodovico intanto scende con gli altri dal suo posto)
quanto son io, Bonoso, or che più certa
di Engelberta è la fama. O dio! Metilde,
Tempo è ch’ei si consoli. (A Metilde)
                                               Amor pietoso. (A Bonoso)
non è chi vuol morir, che almeno aperta
                                        Viva Engelberta.
l’alma che tanto amai? Né questo è inganno
contro Engelberta e nel cader l’arcano
svelò de l’impostura e l’empie frodi.
Eccone la mercé. (Mostrandogli Metilde)
                                  Cor mio, ne godi.
                                                      E ’l core.
                                         Arles sia regno;
                                         Ben ne sei degno.

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