Metrica: interrogazione
630 endecasillabi (recitativo) in L'amor generoso Venezia, Pasquali, 1744 
si agita il mio destin. Vuol le tue nozze,
benché sposo di Alvilda, il re crudele,
deggio, più che fratel, dir mio tiranno.
nulla l’empio potrà. Costante e forte
                                           E quel son io.
                                                  Sire.
Parti né osar di più veder Girita,
                                              Un re ti chiede
                                               In altro tempo,
                                              In ogni tempo
                                                   Ma ancora
son tuo germano; e sovra me non hai
che un più presto natal, dono del caso.
                                             Se sugli affetti
                                     Tal dunque ei sia;
                                                 Ah, frena
l’ire mal nate. E tu, mio caro Aldano,
se non vuoi ’l rischio tuo, temi ’l mio pianto.
del possente rival fede ti giuro
Parti mio, resto tua. Può il rio comando,
ch’odi esige ubbidito e non rispetti,
i corpi disunir, non mai gli affetti.
non ti far più trofeo, bella Girita.
Ama un re che ti adora. Ama un affetto
che uscì da’ tuoi begli occhi e fu mia pena,
che or parte dal mio core ed è tua sorte.
Il mio sposo amerò sino alla morte.
Ov’è il tempio? Ove il talamo? Ove il rito?
Ove il nodo si strinse? Ove le destre?
Amor fe’ gl’imenei. Senz’altra pompa,
egli il pronubo, il nume, il sacerdote.
L’amor di un re si oppone; io mia ti voglio.
Quante vuoi nel tuo talamo? Anche Alvilda...
Politica la diede e amor la toglie.
L’amor del re prenda misure e voti,
più che dal suo piacer, dal ben del regno.
Dunque perché son re, deggio a me stesso
                                        Lice, s’è giusto.
E l’amar ciò che piace è forse ingiusto?
cede la tua ragion. Se teco i preghi,
se valessero i pianti, io ti direi,
«Obblia questa fatal beltà infelice;
ama il ben del tuo regno e la tua sposa».
Ma poiché sol ti move ingiusta brama
l’ultimo sia di un risoluto amore,
con franco cor, più che con voce ardita:
«Sì, l’ultimo ei sarà ma di mia vita».
Tanto dunque egli è vil l’onor di un trono,
che bello a paragon sembra un feretro?
stragi e rovine. Ella di udir più nega
                              E che osar può?
                                                             Di’ pure:
«Che osar non puote una regina offesa,
con l’armi in mano e con le furie in seno?»
formidabil naviglio ella a noi trasse.
egli è un perder per me corona e vita.
a che chiamar dalla Norvegia Alvilda?
men opportuno. Ei dopo stretto il nodo,
la piaga aperse e non trovai difesa.
                                  Se del tuo re ti prende
vanne, ten prego, alla real donzella;
e tutta a lei pietosamente narra
la debolezza mia; dille il mio fato,
dille il mio duol. Di’ che conosco il torto,
che altro non posso e che più mio non sono.
E se l’ira non cede? E invendicata
col disonor del suo ripudio al regno?
Onor di altro imeneo vinca il suo sdegno.
                                  Aldano; e perché in esso
re lo dichiaro e la metà gli cedo
                                  Il popolo già in armi
o le nozze di Alvilda o il tuo diadema.
punir, non compiacer. Pur l’ire affreno.
oggi me vedrà sposo e lieta Alvilda.
Ad Aldano m’invio. Tu, caro Asmondo,
e a te di Elfreda, mia real germana,
giuro le nozze in guiderdon dell’opra.
La tua sorte è in poter della tua fede.
negli affetti di Elfreda. Ella è già mia.
Ne ho la fede real. Tu datti pace.
non men che la fortuna, anche la fede.
Resta pur col tuo inganno. In me vien meno
se già sento pietà del mio rivale. (Si parte)
confidatevi, affetti. Il fatal laccio
non anche gode alla sua sposa in braccio.
Che più ti affanni, Alvilda? Oggi tuo fia
o dono del suo amore o tua conquista.
del mio sposo infedel, già vi perdono.
con innocenza amar mi lice ed amo.
Amo? Ma chi? Con quale spene? O bella
escimi alfin di cor, lasciami in pace.
Tu nel patrio mio ciel, caro Sivardo,
strisciasti; io vidi ’l lampo e sentii ’l colpo,
lampo che mi abbagliò, colpo che m’arse.
Questo è il natio tuo suol. L’aure son queste
son mantici alla fiamma onde tutt’ardo.
s’esser deggio di altrui né tua esser posso?
tirannica ragion, giunta a dar leggi
sino alla libertà de’ nostri affetti,
quelle che unisci in tirannia del core
quando furono mai nozze di amore?
                              A che ne vieni, Asmondo?
Vuol l’ire mie? Fievoli scuse e vane
dimmi ch’è infedeltà la sua tardanza.
D’altra egli avvampa; e del mal nato ardore
qualche scintilla a balenar sugli occhi.
di sua ragion. L’ire primiere io vinsi.
La vendetta sospesi e tacqui e finsi.
Né più si finga. È ver, regina, è vero.
Fu sì debole il re che mal difese
quel cor ch’esser dovea sol tua conquista.
Spergiuro e vil, contra la fede? In onta
al mio grado? Alle leggi? A’ giuramenti?
per ischernirmi e rimandarmi, infido,
favola de’ vassalli e delle genti?
che impune il soffra? Andran pria tutti a foco,
tutti a ferro i suoi regni, i suoi vassalli.
farò giunger le strida e le faville
delle provincie incenerite ed arse;
la possente regina e la negletta,
e l’offesa egualmente e la vendetta.
Grav’egli è il torto; e non minor ne arreco
                                                  E qual?
                                                                   Le nozze
del prence Aldano e mezzo seco il regno.
Bolle ad Aldano entro le vene un sangue
                                 Ah, non voler col reo
                                          È sua gran colpa
                                                In lui tu offendi
la più rara virtù che in terra sia
e l’opra più perfetta de gli dei.
(Tal vi parve Sivardo, affetti miei).
grande sì, non amabile. Un ne acquisti,
in cui vanno del par grazia e beltade.
Marte è, se l’elmo cinge, Amor, se sciolte
Ogni suo moto, ogni sua voce, ogni atto
(Tal era, allor che il vidi, il mio Sivardo).
giudice insieme e testimon ne fosti,
vide le corti e nella tua Norvegia
                              Ei fu in Norvegia?
                                                                  Allora
ne avea lo scettro il tuo gran padre Irvillo.
                                 Onde osservar potesse
de’ regni altrui meglio i costumi e i riti.
gl’immensi spazi in annuo giro il sole.
in cui vidi ed amai. Cieli! In Aldano
mi offrireste Sivardo? O voti! O spene!
O mia felicità, s’egli è il mio bene!)
sia pietà, sia ragion, l’armi sospendo.
Veggasi Aldano; e se all’idea conforme
abbia pace Frilevo, abbia perdono
e mezzo il regno suo goda in mio dono.
                                         (E qual mi offrite
detestabile oggetto, ingrati lumi!)
Ferma, crudel. Perché fuggirmi?
                                                             Ossequio...
Se in traccia del tuo Aldano amor ti porta,
                                             Sovvienmi, o sire,
del divieto real. Parto e ubbidisco.
sì tiranno al tuo cor. Fermati; io dono
a’ tuoi teneri affetti il rivederlo
e sola in libertà seco ti lascio.
(Non attesa pietà, mi sei sospetta).
nascondigli ’l tuo amor. Digli che ad altra
le sue fiamme rivolga; e se non osa
uscir del labbro timido ed amante,
gliel dica il tuo tacer, l’occhio e il sembiante.
e le tacite voci e i muti sguardi.
Girita, anche il ripeto. Un sol tuo gesto,
un sospiro, una lagrima, un accento
la condanna sarà della sua vita.
Ben consiglia i tuoi detti, i gesti, il volto;
e pensa ch’io ti miro e ch’io ti ascolto.
Potessi almen ritrarmi... Almeno dirgli...
oh, dacché ti lasciai col fier regnante,
provai per te! Che fe’? Che disse! Come
ti togliesti al suo amor? Come al suo sdegno?
                                            Parti e rispetta
Noi siam qui soli. Ad altri affari intento,
                                     Son questi luoghi
pieni del suo poter. Sin questi sassi
han per lui sguardo e voce; ed ei presente,
E da quando sì timida, o Girita?
(Affetti, per pietà, siate crudeli).
da te stessa diversa? Insino, oh dio,
Forse in odio ti son? Ah, s’io il credessi...
del nostro amor soave rimembranza,
per quegli dei che mi giurasti, o sposa,
onde il silenzio? Onde il rigor? Qual nume,
a’ danni miei? Parlami, o dio!...
                                                           Non posso.
Girita che parlò? S’ella è infedele,
dov’è virtù, dove più fede in terra?
Germano, a te verrei, felice amante,
se non fosse il dolor che ho di tue pene.
ch’io son tradito? E che Girita...
                                                           Al lampo
di un titolo real cadde abbagliata.
Gran perdita al tuo amor; ma tal ne arreco
l’ampia Selanda e re ne sii. Le nozze
pur ti cedo di Alvilda; e di due regni
Senza Girita odio la vita e il mondo.
Più non turbar la mia fortuna. In pace
lasciami un cor ch’è mio. Le nozze accetta
di un’illustre regina; e se ripugna
un amor ch’è fedel, benché sia offeso,
vaga è Alvilda e gentil. Nella Norvegia
                                     Le avrà il diadema
almen per obbligarmi e per gradirmi.
Giusto è il tuo voto e ricusar nol deggio.
torna non più rival. Torna ripieno
di novo ardor, per tua e mia pace, il seno.
Pavento insidie e le comprendo in parte;
ma forse schernirò l’arte con l’arte.
ch’io teco venga alla regina e i voti
Grav’è l’affar; ma se il mio amor, se hai cari
                                          Con tal mercede,
perché il merito togli alla mia fede?
Cangiar dei meco e nome e grado. Aldano
tu sarai per Alvilda ed io Sivardo.
                           E di amor figlia gentile.
Ma difficil per me. Come poss’io
ben sostener della tua fama il grido?
Anzi molto occultar dei di te stesso,
finger ruvido tratto, aspro sembiante,
lodar la sua beltà ma con fierezza,
favellarle di amor ma con orgoglio,
offrirle il letto e non parlar del soglio.
                                                 Io fin d’allora
col nome di Sivardo e tal mi crede.
Dall’opra mia conoscerai mia fede.
alimento e piacer della costanza.
ed il nunzio real, cui dir tu possa
del tuo nascente amor; seco è Sivardo.
vien per l’udito a ritoccarti, Alvilda,
l’interna piaga?) E qual ei fia?
                                                         (Mio labbro,
al tuo rival cauto dà lodi). È questi
cavalier di gran sangue, i cui maggiori
tenner già nell’Allanda impero e scettro.
Nulla però vi ha in lui che degno il renda
(Questi non è, mio core, il tuo Sivardo).
(Vi offuscate, o begli occhi, e non v’intendo).
Qual giunto appena il caro nome a’ sensi,
tumulto di pensieri? Affetti miei,
è inganno od è piacer questo ch’io sento
Andiam meglio a dispor l’anima amante.
tanto ti turba, e che farà il sembiante?
                                 Ah, s’ei qui ferma il passo, (Ad Aldano)
                                                     Asmondo, in questo
privato accoglimento, Alvilda ed io
trattar con libertà. Quando ha chi osservi,
più cauto il labbro e più guardingo il core;
che degli empi trionfi orridi sdegni,
onde son minacciati i nostri regni!
                                               Ecco il momento.
                                               Giammai non manca,
a chi serve con fede, arte ed ingegno.
E scudo io ti sarò dal regio sdegno.
e pur mi ripetete: «Ecco il mio bene»). (Entra nella camera)
ma più il desio di vagheggiar quel volto,
mi presenta a’ tuoi sguardi. Aldano io sono,
nome forse non vil, nome che forse
al norvego oceano e al più remoto,
opra di mia virtù, non passa ignoto.
se tal fosse Sivardo, io l’odierei).
La gloria hai di piacermi; ed in Aldano
Principe, non m’infingo; al primo aspetto
ne’ tuoi lumi a cercar la mia fortuna,
non a render ragion del fallo altrui.
(Né v’è beltà né gentilezza in lui). (Siede)
che dalla prima età mi spinse all’armi,
non degnò di abbassar l’idea guerriera
nel vil piacer di effemminati amori.
veleggiare a’ trionfi, ora oltre i lidi
delle provincie, conquassate e dome,
stender le leggi della Dania e il nome.
                                              E ti sia nota
Tanto poté sol questo braccio invitto.
                             Invitto dissi! O dei!
che divenuto io sia vostra vittoria.
(Più noi posso soffrir. Quanto è superbo!)
tacqui e dissimulai. Prence, con tanta
non si denno trattar sì gravi affari.
Sdegno, grado, poter, che più si aspetta?
                                O tu... (Che miri, Alvilda?
                                  (Impallidisce e tace).
(Fosse questi lo sposo e darei pace).
ire mie, dove siete? Ah, vi sovvenga
d’ingiusto re, ciò ch’io risolvo attendi.
che in mio sposo detesto Aldano e lui,
lui perché fu spergiuro e mi è nimico,
l’altro perch’è superbo e non mi piace.
(Fosse questi lo sposo e darei pace).
                     Ferma. Non tutti espose
lascerò ne’ suoi regni. E quando estinto
al fianco di colei per cui sprezzommi,
sarò contenta e vendicata appieno.
(S’anche il seguo a mirar, l’ira vien meno).
sortì l’inganno). (Esce della camera)
                                Ei parte, Alvilda. E puoi
tal lasciarlo partir? Rieda il messaggio...
Vile che sei... Parta... No. Venga.
                                                            E vengo (Aldano rientra)
                             (Temo l’indugio).
                                                               E quale,
volesti addur del tuo signore al fallo?
Serve né più riflette umil vassallo.
pur ti chiuse sul labbro i primi accenti.
Dir sol volea che del commesso errore,
se un re può errar, solo n’è reo...
                                                            Chi?
                                                                        Amore.
                               Siediti, dissi.
                                                          (O inciampi!) (Siede)
                         Colpa è ma lieve.
                                                          E il grado?
Non lo rende men suddito agli affetti.
(Purtroppo il sai, cor di regina amante).
mi lasciassi allettar da vago oggetto,
Amor vien da beltà, non da fortuna.
gli dicessi così: «Caro Sivardo»?
Dove finto è l’error, vano è il consiglio.
Finto l’error? Sivardo... (Ah, dove, dove,
Vanne; già troppo dissi; e i detti miei,
non intesi da te, son mio dolore
O se col piè potessi o se con gli occhi,
come col cor ti seguo, anima mia,
tal qui non resterei sola e dolente.
ritorno a te. Come ti piacque il prence?
Come il tratto gentil, l’aspetto, il brio?
con lo sguardo di Asmondo e non col mio.
non ha che il fasto. O quanto di esso, o quanto
ch’io già vidi in Norvegia. Egli ha più eccelsa
l’idea, qual la persona; e a lui più bionda
scende la ricca chioma e il collo inonda.
Regina, o meco scherzi o sei delusa.
                        Quegli cui scende il crine
                      Egli è Aldano.
                                                  Il prence?
                                                                       Il Marte,
l’amor del nostro regno, il saggio, il prode,
che non mai l’altro uscì di Dania.
                                                             O frode!
di questa reggia? A tanto giunge, a tanto
lo sprezzo altrui, la sofferenza mia?
non mi si parli più. Voglio vendetta.
Per tirannico cenno, or con Alvilda
sarà il mio bene. Essa di bella ha il grido
e le splende sul crin serto reale.
Fors’ei potrà... Di che pavento? A tante
prove dell’amor suo rendasi questa
e ragion della sua sia la mia fede.
(Se mi arride l’inganno, o me felice!)
Nel cor di Aldano alfin di amore ottenne
Alvilda coronata a lui più piacque
ne festeggia con pompa e con diletto.
ma sul tuo labbro ei mi divien sospetto.
Pubblico è il grido; e prevenirlo io volli,
una vendetta alla tua offesa eguale.
Perdonami, signor; non ti do fede.
il mirerai della sua sposa al fianco
superbo andar di sua fortuna e insino
sugli occhi tuoi portar gl’insulti e i vanti
de’ suoi spergiuri. Allora, ingrata...
                                                                E allora
ti crederò. (Ma gelosia mi accora).
l’offesa prevenir con la vendetta.
Quella ch’è la più cauta, è la più certa.
Col darle tempo un gran piacer le scemi.
Non si credon sì tosto i mali estremi.
Con questa legge almen dammi or la fede.
Se Aldano è un traditor, l’avrai punito,
e s’egli è fido, io la tua fede ancora
Mi assolverieno poi gli dei giurati?
Troppo incredula sei, troppo crudele.
Farmi un’empia vorresti o un’infedele.
Esecutor de’ tuoi comandi, o sire,
Degna è di amor, degna d’impero.
                                                                Ed ella
la real confidenza. Ecco il ministro.
tutta orgoglio e tutt’ira «ambo detesto,
Aggiunse poi che a riparar suoi torti
non vuol più amori; odi sol vuole e morti.
Fido amico, il tuo amor che non mi diede?
tacqui ’l più del favor; devo Girita.
è debito a chi serve e premio all’opra.
Premio ti sarà Elfreda. Io tel promisi.
avran più di poter che gli altrui cenni;
e già i suoi voti a tuo favor prevenni.
della tua fedeltà l’estreme prove,
Quel funesto momento, in cui ti vidi
troppo impresso ho nell’alma e non l’obblio.
Fuggi, ah, fuggi, se m’ami, idolo mio!
che ti sovrasta. Il re di sdegno avvampa
da te deluso. Io non lontano il vidi
favellar con Asmondo. Intesi e corsi
d’amor sospinta e da timor. Deh, fuggi.
                                        Non è questo il tempo
di discolpe per me, per te di pianti.
Ti amo, son tua, ti son fedel; ma fuggi.
E la mia fuga in libertà ti lasci
già mi conviene e liberarti, infida,
da quel rossor che hai di vederti avante
un lusingato e poi tradito amante.
In un tempo miglior saprei punirti
non la tua pena. Aldano, amato sposo,
va’, ti consola e credimi innocente.
Ci udia Frilevo e il minacciava ascoso.
                                Ed io dovea costretta
e tacermi e salvarti. Allor fu solo
ch’io volea non amati o amarti meno.
soffocava i sospiri; e mio spavento
era il mostrar pietà del tuo tormento.
il tuo amore, il mio bene e la mia colpa.
Perdon ne chiedo, o mia diletta, e lascia
che a’ tuoi piedi l’ottenga... (S’inginocchia)
                                                    O ciel! Che fai?
Ecco il re. Non vi è scampo. O rischi! O pene!
beltà che ti è fedel, segui a dar segni
della tua gratitudine; e poi vieni
a implorar quel perdono a’ piedi miei,
di cui, rival superbo, indegno sei.
Qual delitto commisi? Io seguii solo
le tue vestigie; arte punii con arte.
E con la forza io punirò l’inganno.
Ma il poter non avrai di spaventarmi.
Né tu impune il trofeo dell’oltraggiarmi.
                                (Iniquo!)
                                                    Ivi fra poco
vedrai ciò che un re possa a torto offeso.
Men degl’inganni tuoi temo i tuoi sdegni.
A morir non andrai con tanto orgoglio.
(Ed ho cor che resiste al mio cordoglio!)
è l’odio di Girita o il suo dolore.
Saria questo tuo rischio e quel tua sorte.
Amami pur, mia bella, e morrò forte.
                 No, signor. Doglia ch’è immensa
la funesta cagion de’ pianti miei.
nunzio a te vengo, inclito sire. Alvilda,
sorpreso ha il porto e la cittade. A questa
mal difesa tua reggia, e ferro e foco,
se non ti arrendi, ella minaccia e giura
e comun vuol che sia la tua sciagura.
Crudelissime stelle, avrete vinto!
ma non invendicato e non codardo.
o si vinca o si mora, e gloria e sorte.
È caro al ciel chi può morir da forte.
                                         Perfido...
                                                            Or ora
chiede inchinarti un messaggier di Alvilda.
pensa che reo già sei del mio furore.
                                             Sei traditore.
freme il periglio, onde la gioia, o sire?
                         Per man di amore Alvilda.
ritorni a lei, chieda perdono, assenta
al reale suo nodo; e avremo pace.
Tanto poc’anzi il suo messaggio espose.
                                   Lo moveranno alfine
la patria, il regno ed il comun periglio.
Non sia bugiarda in cor di re la spene.
della patria e de’ tuoi gloria e sostegno.
le passate vicende in cieco obblio.
L’imminente fortuna occupi i nostri
peso della ragion, volgari affetti,
sveninsi tutti alla comun salute.
                                                      Lo sdegno
                                 Ella i suoi primi oltraggi
Ma il riparo ad Aldano ella ne chiede.
Vuole il mio sangue? Alla mia patria il dono.
                               Pria lo trafiga e l’abbia.
e in te trovi ’l suo re, stringa il suo sposo.
Ciò che deggio rispondo. Amo Girita.
Amarla fu virtù, sinch’era pena
or ch’è rischio di un regno, amarla è colpa.
Non l’amerei, se in mio poter ciò fosse.
                                              Non quel di amante.
Né ti val per ragione il prego umile
                                              Lasciar la vita
L’ira di Alvilda non ammette indugi.
Tosto a lei vada il prence; o a noi le grida
e dell’arsa città l’alte faville.
Con novo araldo ella il minaccia e il giura.
E non ti move ancor tanta sciagura?
Che? Manca a noi virtù e coraggio? Alvilda
All’armi, o re. Sivardo, all’armi. Io tutti
precederò; vibrerò i colpi. All’armi.
Di un inutile ardir non lusingarti.
Perduta è la città, sorpreso è il porto,
                                     I Dani istessi
                                 Vinci te stesso e regna.
                                        Amo Girita.
tenti Girita istessa. Addio, spietato.
(S’ei fia sposo di Alvilda, io son beato).
(Per la sciagura mia fo voti al cielo).
Vieni, o mia principessa. Alla mia fede
Alvilda a te vuol tormi. Offre. Minaccia.
sfido l’ire, odio il regno e tuo mi voglio.
saria stata per me gioia e trionfo
sì bella fede. Or te ne assolvo. Vanne...
(E il potrò dir?) Vanne ad Alvilda e stringi
che fu de’ voti miei l’unica meta.
Fa’ ch’io sappia il tuo bene e sarò lieta.
                                     Più bella colpa
in amor chi udì mai? Salvi con essa
patria, gloria, che più? Salvi me stessa.
deggio perder me solo e salvar tutti?
Così vuole il destin; così ten prega
la tua Girita. Un generoso sforzo,
con l’esempio del mio, chiedo al tuo core.
Girita a me lo chiede! Io posso farlo!
(Cieli! Parte il mio ben). Fermati; ascolta.
Già ti lascio; men vo; sarò di Alvilda.
Oimè! Partir non posso e qui lasciarti.
Ma Girita vi andrà, se tu non parti.
la cagion de’ tuoi torti, ecco Girita.
Vendica in me dell’amor tuo schernito
la mia sorte, il mio amore e l’onor mio,
anzi la tua fierezza. Aldano, addio.
             (Barbara fé!)
                                        Più che non chiedi.
                                         Tanto ella giura.
                                     Così promette.
                                    Per ricompensa.
                                            La sua corona.
Questa viltà del mio coraggio è indegna).
Vanne, vanne ad Alvilda, amala e regna.
Pur vinsi; ei pur cedé. Crudel trionfo
che mi toglie a me stessa in tormi a lui!
Di altrui per mio comando? O patria! O regno,
quanto mi costi! Infausta gloria, o quanto!
Escimi, o cor, tutto per gli occhi in pianto.
ha vicini i contenti? Ove mi chiami,
misero amor? Sento il tuo invito e il seguo.
Norvegi, anime fide, anime invitte,
non vi avrò tratti a questi lidi invano.
Le offese mie già vi son note; e in parte
manca il più del trionfo alla vendetta.
cominciò a spaventargli il lor rimorso.
Ne compisca la pena il valor vostro.
Andiamo. Io vi precedo. E ferro e foco
in sì giusto furor non si risparmi.
fan gli stimoli oltraggio. All’armi. All’armi.
Tregua, o campioni. In su le mura ondeggia
                              Ecco, regina, il prence.
(O vista! O amore! In sì felice istante
resisti alla tua gioia, anima amante).
Reo del tuo sdegno, a te, regina, io vengo
e indegno vengo di pietà. L’inganno
Perdon ne imploro al regio piede e meco
il più giusto compenso a te ne reco.
(Mi sta a’ piedi il mio cor). Principe, sorgi.
sia il gradir la mia destra ed il mio trono.
Darò al tuo amor quanto per me dar lice.
Purché sii mio, l’avrà Frilevo e il regno.
Chi dà leggi all’amor le impone all’ira.
(Dania, da’ tuoi spaventi omai respira).
né ti appressar, che al primo passo io vibro
l’ignudo acciaro e me lo immergo in seno.
                           Che tentar?
                                                   Lungi o mi sveno.
Tuo son ma sol quanto esser posso. È tuo
Vuole onor ch’io tel dia né amor mel vieta.
non è più mia né tua esser può. La diedi
alla cara Girita. Essa a lei torni,
qual la deggio al suo amor, pura e fedele.
Prendila, anima mia. (In atto di ferirsi)
                                          Che fai, crudele?
                                        Oh pronto amor!
                                                                         Girita...
Perché offender la mia nella tua vita?
                     Taci.
                                 (A me rival costei!)
E a te volgo, regina, i detti miei.
degli odi tuoi. Girita io son. Girita,
Per me Frilevo il regal nodo infranse
che a te lo unia. Per me ti nega Aldano
Ei per me t’ingannò. Deh, giusta Alvilda,
Che fierezza è la tua? No, non cercarla
né la gloria tradir di tua vendetta.
Quanto già basta intesi. All’ira mia
leggi e consigli una rival non dia.
più che non vuoi, più che non merti. Asmondo,
riedi al tuo re. Fa’ che a me venga anch’egli.
Esser del suo destino arbitra io voglio.
che in mio poter sono Girita e Aldano.
Tema per lor; più per sé stesso ei tema.
Mi affretto ad ubbidir. (Sciagura estrema!)
a consultar la vostra sorte. Aldano
a vendicarsi il mio tradito amore.
(Da solo a sol vo’ ragionarti, o core).
Vedi a qual duro passo ambo siam giunti.
Vivi altrui sposo e un’infelice obblia.
                                  Morremo entrambi.
                                    Ma la mia morte, o caro,
non ti mova a pietà. Salva Girita
nella parte miglior, nella tua vita.
                                                      È breve
Deh, consigliami tu, ch’io non ho core.
Ah, cedi al fato e sia tua sposa Alvilda.
Tu sospiri nel dirlo; e vuoi ch’io il faccia?
Vivi sposo felice e Alvilda abbraccia.
come usaste in mio pro? Più nol tacete.
               Aldano.
                                Ancor non rispondete?
Non è il timor di tue minacce, Alvilda,
ma il periglio di Aldano e di Girita.
per due vite innocenti una rea vita.
                                              (Io pur ne temo).
Un perfido, un ingrato, una rivale
son tre oggetti di sdegno all’amor mio,
tre spoglie di vendetta al mio potere.
per mio gran vanto a’ secoli venturi.
                      O perigli!
                                          O fati iniqui!
Ma pria della vendetta amor trionfi.
Aldano, or di esser mio non è tuo voto?
(Mio voto no, ben mia sciagura). Il sono.
perder senza dolor colei che adoro.
Così vuol crudeltà di avverso fato.
ombra di bene in libertà mi resta.
                                            La mano?
                E in essa per me, tu a lui diletta,
bella Girita, anche un mio dono accetta.
che due cori sì fidi io mai disgiunga.
L’un all’altro vivete; e qui regnate,
                                           Dalla tua gloria
hai tutta la mercé di sì grand’opre.
Vedi or, Frilevo, la tua pena. Ho tolti
due gran beni al tuo amor, Girita e regno.
Perfidia e crudeltà ten rese indegno.
Verrai meco in Norvegia; e quando un giorno
sarò ancor tua regina; e mio vassallo
tu in grado di mio sposo ivi sarai.
Gli altri da te, tu da me leggi avrai.
Nel mio supplizio io son felice ancora,
che una tanta virtù già m’innamora.
                                         Il primo dono
                                            A me crudele.
E per Sivardo il tuo perdono io chiedo.
Nel reo ministro il buon vassallo io vedo.
                                               E ne ha l’onore
                 Alvilda...
                                    Un generoso amore.

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