A me, figlia di Ciro, a me di tanti
gloriosi monarchi unica erede
io figlia di Artaserse, io lo contendo.
prima del tuo cinse il diadema.
tolsero a lui ciò che gli diede il sangue.
Chi re more, è più re di chi vi nasce.
né orgoglio tuo né altrui livor può tormi.
sono inutili gare. Abbiam conteso
da femmine finor, non da regine.
più che sul labbro, hanno vigor sul brando.
saria, Barsina, l’amor mio, quand’egli
non ti recasse al maggior uopo aita.
teco, invitto Oribasio, i miei trionfi.
la tua causa con l’armi, anch’io ne vengo
(Cieli, a’ miei danni Arsace!)
combatte Arsace, al suo valor si gloria
ubbidir la fortuna e la vittoria.
Fuor della mischia il piè ritira, o bella.
già tutte appresi del ferir le vie.
Tu pure esci dal campo e ugual prometto
(Se Arsace è mio campion, regina io sono).
(Se Arsace è mio nimico, io perdo il trono).
Qual nume avverso oggi cospira a’ danni
del perso impero? Onde tant’ire? È questo
d’odi privati il miglior tempo? A fronte
del regio sangue, il fiero scita, Oronte.
Là s’impieghi l’acciaro e là trionfi.
Siate di voi, pria che di altrui regine.
con quale orror gli odi civili io scerna.
vuole usurpar ciò che a giustizia è mio.
per non soffrirlo ho le mie furie anch’io.
Ne sia giudice il popolo e il Senato.
commettasi, o Barsina, il dubbio evento.
Ma non si sveni al tuo furor privato
Forte guerriero ambe scegliete. In chiuso
prezzo ad una lo scettro, ad un la gloria.
la mia ragion, forte Oribasio, affido.
Pari è l’incontro; ambo d’invitti han grido.
avrò vibrato in miglior uso il brando
Or che son tuo guerrier, cara Barsina,
Vado a dispor l’ire alla pugna e l’armi. (Si parte)
senza l’onor del rogo ancor sen giace.
L’estremo uffizio differir non lice.
Tutto è in Tauris disposto; e sol la vostra
mi costi, incauta ambizion! Già sono
ria con l’amante, empia col padre. L’uno
metto in rischio di vita e nego all’altro
la pace del sepolcro). Andiamo, o duce.
qui mi richiama e mi trattiene amore.
Chi non serve al mio cor, Dario, non mi ama.
Al tuo cor servirò, quanto richiede
Non ha tanti riguardi amor ch’è cieco.
La tua beltà vuol ch’io fedel t’adori;
la mia virtù non vuol ch’io viva ingiusto.
a sostener le mie pretese al soglio?
Giudicarne non dee chi nacque servo.
Va’ ed amami regina o non amarmi.
la superba rival, regno ed Arsace.
Non gli otterrà. Ciò che può ingegno e forza
tutto userò. Core, a’ consigli, all’arti.
Per regnar, per goder tutto alfin lice;
e la colpa è virtù, quando è felice.
tiene in guerra civil l’odio feroce,
una certa vittoria. Ite e là dove
da sé, pria che da voi, vinto è il nimico,
abbattete i ripari, empiete il campo
in fiero aspetto un solitario orrore,
funesto al guardo e spaventoso al core.
delle vittorie mie dovea esser frutto.
Chi prevenne i miei voti? E chi ti tolse
Beltà che in questo foglio il cor ti espone.
barbaro re, non son felice appieno).
regal donzella, eccelso re, confida.
s’insidia a lei. Suo difensor tu vieni.
Vien generoso. A te non far ch’esposti
chi suo appoggio ti vuole o suo sovrano».
mi tolse a’ ceppi e a te recar m’impose...
Per Statira è il mio cor. Lei chiedo in moglie.
vinco la Persia ed Artaserse uccido.
L’ira sinor si è soddisfatta. Or pure
si soddisfi ’l desio. Statira io voglio,
prima e sola cagion di mia vittoria.
Volerla è impegno e conquistarla è gloria.
il genitor la dichiarò consorte.
Di un padre estinto è un vincitor più forte.
dieno le trombe. La città si assalga,
si combatta, si espugni; e in dì sì lieto
mirti ed allori al bellicoso Oronte.
il rammentar qual sei, non qual ti fingi.
sai ben qual sia l’iniquo Oronte? Il crudo
ti uccise il padre. Ti rapì ’l superbo
d’Issedon la corona; e vai per esso
rammingo e vil, mentito il nome e il grado.
Per mia man cada l’empio; e se avrò morte
sul cadavere suo, morrò da forte.
Statira la crudel, mossa da cieca
al difficil cimento, oh dio, ti espone.
proferir mai potesti ’l dolce nome?
Amabile idol mio, combatte Arsace
e combatte per te. Son meco al fianco
mi stimola beltà, ragion mi regge;
certa la tua grandezza; e tu paventi?
Sì debole son io? Tu così ingiusta?
Ingiusta è mai la tema in un’amante?
e nimica a virtù spesso è fortuna.
ma morire per te, che bel morire!
si dee regnar, scettro, corona, addio;
voi siete il mio terror, non il mio voto,
il trono della Persia e quel del mondo.
leggo nel tuo timor. Cari perigli!
Pur consolati e parti. Il tempo è questo
in cui, più che pugnar, vincer degg’io.
ch’io vivo nel tuo seno e tu nel mio.
tu dei del viver tuo gli ultimi avanzi.
Oribasio, qual pensi, il tuo trionfo.
che le pretese sue perda Statira?
All’armi, all’armi. Ogni contesa è vana.
Già il ferro è su la destra.
E pietà qui non s’usi e non perdono.
Cessino l’ire. Alle nostr’armi, amici,
corron le stragi ad innondar la reggia.
le porpore e il diadema usurpa Oronte.
se non per sua difesa, avversi numi,
dirà s’io sono amante o s’io son forte.
facciam col nostro petto argine e sponda;
al nimico furor l’ultima gloria.
della mia speme e l’interesse e il merto.
Vano è l’ardir. L’armi cedete, o prodi.
e la mia nimistade e il vostro rischio.
rasserenate il ciglio. Al perso impero
di man cadde l’acciar; ma non vi cadde
per diventar catena. A sì vil uso
non fa servir le sue conquiste Oronte.
a tuo piacer sin dove puoi. Sol sappi
che l’alma di Statira è il suo confine.
So dar freno alla sorte. Idaspe, vanne
l’ire a frenar de’ miei guerrieri e il fasto.
Io vado; e alla tua gloria
la pietà fregi accresca e la vittoria.
arbitro io m’offro. Alla mia guerra, o belle,
la vostra pace. A chi di voi più giusta
assista la ragion, consegno il trono;
e più che vincitor, giudice sono.
pender non sa Statira; e non le piace
quell’onor che le costi un atto indegno.
serva loro di appoggio. I miei natali
fanno del grado mio tutta legge.
chi regni sopra i Persi. In te la sorte
un vincitore, un re vuol ch’io rispetti.
Nulla di più. Giudica i tuoi. Mi basta
saper qual io sia. Se poi l’orgoglio
a contender del soglio ora mi sfida,
ha la Persia un Senato. Esso decida.
(Ben di regnar quel brio feroce è degno;
e già sopra il mio cor comincia il regno).
Ha la Persia un Senato. Esso decida.
per suo giudice un re sdegna Statira?
alterigia la move, odio la sprona;
e il ricusar che tu l’innalzi al soglio
è timor di cader sotto al tuo voto.
che il viver mio. Di tua sentenza al cenno
chino la fronte. Vuoi che oppressa e vile
la Persia estrema abbia i miei giorni? Gli abbia.
mio vincitor? Ti seguo. Il tuo volere
faccia pur le mie leggi e il mio piacere.
tua legge e tuo piacer sia ciò che lice.
bilancia il merto e la virtù compensa.
(Barsina, or datti pace).
di sé stesso diffida, ancorché saggio.
la lor felicitade. Al lor decreto,
pago di mia vittoria anch’io mi accheto.
Quel guardo amico, onde si fissa Oronte
che un fulmine fatal sia per Barsina.
Vano timor. N’è giudice il Senato.
la legge avran da un vincitor ch’è amante.
Il mio amor vi si oppone e la mia fede.
Ami Oribasio e per regnar sia ingiusto.
sia del suo amor quella virtù che il regge.
non mi restò che un solo colpo. Un solo
di tutto il loro sdegno assolvo i numi.
la speme di vederti in trono assisa,
mercé del mio valor? Lascia, o Statira,
al mio braccio, al mio cor gli ultimi sforzi.
chiamar pretendo il vincitor superbo.
Le tue sciagure, o bella,
O risorga Statira o cada Arsace.
ma pien della sua gloria altro non cura.
Non mi vedrai le sue catene al piede.
ne’ guardi suoi pur un affetto. Il labbro
composto in maestà nulla mi disse
che fosse tuo timore; e la vittoria
tutta nel sol piacer dell’aver vinto.
la libertà di qui vederti.
gli dà questo poter, più che il mio cenno.
meglio che dalla sorte, il suo contento. (Si parte)
(Ah, che di gelosia languir mi sento).
e poderoso e vincitor sen viene.
Venga qual vuol, mi troverà Statira.
Se ne offende il mio amor. Là ti nascondi,
testimonio vicin della mia fede.
Non più. Dentro al mio cor, nel mio sembiante,
ei vedrà la nimica e tu l’amante.
anch’io lo so, son armi degne i preghi.
(Di linguaggio cangiò). Preghi non usa
regina, il maggior fregio. Or siedi e ascolta.
Taci le lodi a me nimiche. Or segui.
mia pompa, no. Dalla fortuna io sdegno
al mio furor la mia pietà.
Sai che della tua man posi lo scettro
in libero piacer de’ tuoi vassalli,
quando giusta il potea stringer la mia.
Tutto so; ma so pur anche il lutto
di questo impero e quanto sangue e pianto
e dagli occhi de’ Persi e dalle vene
l’offesa mia stammi sul core. Al padre
svenato dal tuo acciaro, eterna l’ira,
figlia e figlia real, deve Statira.
non offensore ingiurioso. È reo
delle perdite tue l’incerto Marte,
se a me lo ascrivi, in questa man ti rendo
per un re padre un re marito.
Ma seco non perì la mia vendetta.
O il nimico o l’amante ecco in Oronte.
Piace il nome del primo alla mia gloria.
Chi t’insegnò questi rigori? Arsace?
(Ei si confonda). Arsace; e in esso onoro
Ma più del cor servi all’affetto.
servo al ciel, servo al padre e servo al core.
Tanto ad Oronte ancor armato? Or resta
dal tuo Arsace difesa. Egli rimanga
Mi contenda il tuo cor, vada fastoso
qual l’ira sia del provocato Oronte,
ad un amante un genitore il dica.
Tu mi fai più costante e più nimica.
Questo, Statira, è il generoso? È questa
che nulla disse, onde ne tema Arsace?
Purtroppo ei disse, oh dio, né mi spaventa
il suo desir; nel tuo periglio io temo.
Qual periglio? Il morir? Per te mi è caro.
No no, viver tu dei. Sia la tua vita
del barbaro la pena. A lui t’invola.
ti lascio in suo poter? Fuggo dal ferro;
ma la pietà del tuo timor mi svena.
E me il timor di tua pietade uccide.
Salvati, Arsace. Ogni momento è rischio.
Rischio maggior fora il lasciarti. Duolmi,
duolmi che l’amor mio sia tua sventura.
E sventura peggior mi è la tua fede.
sia il periglio comun, comun lo scampo.
Già cade il sol. Tosto che l’ombre
Né so né vo’ partir, se tu qui resti.
il silenzio tua scorta; e là compagno
Propizio il ciel ne arrida.
E l’ardire e l’amor sien nostra guida.
che nutro in sen, la difendete. All’onte
sottraggo l’onor mio, non la mia vita.
ma senza duol. Più fortunato e degno
sul cor di Arsace amor mi addita un regno.
lesse, squarciò; né di Barsina il merto
all’affetto prevalse, ond’egli avvampa.
in lui destò qualche scintilla; e questa,
dacch’ei la vide, alzò la vampa e crebbe.
voi siete in rischio. Alla rival superba
giova un amor che ne sarà il sostegno;
sin dal Caucaso suo, diadema e regno?)
grato dover, tu il mio furor sostieni,
tu le vendette mie. Tolgasi questo
faccia la tua fortuna e il mio riposo.
contro l’iniquo re, sproni rifiuta.
Più di te son offeso e dee lo sdegno,
ad Idaspe servir, non a Barsina.
Tu cerca i mezzi, ond’egli pera. Io pure
vengano alle mie stanze. Idaspe, sia,
se lo sdegno è comun, comun la fede.
Tradir non so chi libertà mi diede.
fidi solo a sé stessa i suoi disegni.
Ecco alla mia l’ora opportuna. Oronte
ho facile l’ingresso. Il sonno e l’ombre
posso involarmi ad ogni rischio. Idaspe,
il braccio e il petto arma di ferro e d’ire;
e a chi serve ragion, non manchi ardire.
Di che temer, quand’io son teco?
de’ miei spaventi ’l più crudel tu sei.
Custodi, olà, sono tradito. (Di dentro)
Che fia? (Dà di mano al ferro)
Ah traditor! (Veduto Arsace col ferro in mano)
basti per mia difesa e per tua pace,
sì, ti basti ’l saper ch’io sono Arsace.
Come? Arsace? Tu qui? Fra l’ombre? Armato
di acciar la destra? E con Statira al fianco?
qual odio qui ti trasse e qual furore.
Sol perché Arsace sei, sei traditore.
a cimento col reo. Chiamisi Idaspe.
Nel tuo sangue, o crudel...
l’ardir qui è rischio. Al tuo destino or cedi.
Idaspe, io son tradito; e questo sangue
n’è chiara prova. Là fra l’ombre e il sonno
perfida man tenta svenarmi. Il brando
Chiedo aita; egli fugge. Esco e qui trovo
conto mi renderai di tua innocenza.
Oronte, io ti favello e sul mio labbro
non parla amor, ragion ti parla. Ascolta.
Arsace è prence; e la virtù sostiene
Alle tue stanze egli non venne. Allora
il braccio armò che le tue voci intese.
Ti esposi ’l ver. Più dir non posso.
Idaspe, va’. Ti attendo impaziente.
(E la disgrazia altrui mi fa innocente). (Entra nelle stanze di Oronte)
A che tante difese? A te ben nota
è l’innocenza mia, cara Statira.
e un amor, ch’è mia gloria, è sol mia colpa.
cauto cercai né alcun rinvenni, o sire.
cedi quel ferro; alla prigion tu il guida. (Ad Idaspe)
barbaro, prendi e del tuo sangue il mira
sitibondo bensì, non tinto ancora.
Tempo verrà... Statira, io vado e forse
solo per ubbidirti io vado a morte.
questo tenero addio con più costanza
e l’innocenza mia sia tua speranza.
non saria gloria tua la sua innocenza.
in lui condanno, in te l’amante assolvo.
Vien Barsina. Io vo’ il giusto e datti pace.
sin fra’ trionfi ’l tradimento ardisce.
questa ferita. Il reo n’è Arsace e questi
quel magnanimo eroe di un tradimento.
Amor talora alla virtù prevale;
e sovente l’eroe cede al rivale.
le inutili discolpe. Oronte offeso
e Oronte vincitor tutte aver puote
ma non dia leggi, ov’ei ricusa il trono.
una è la sua regina. Ambe segnate
la morte sua del suo delitto in pena.
Dario ne avvisi ’l reo prigione. Rechi
a me Oribasio la fatal sentenza.
(Io che soscriva il foglio!)
Eccovi ’l foglio. A piede
Temasi un’ingiustizia e più guardinga
sia la destra in punir. Qualche riguardo
si pesi ’l giusto e si maturi ’l vero
né tradisca il dover desio d’impero.
è una legge crudel che mora Arsace.
Pur conviene ubbidir. Tu che risolvi?
qual sia il mio cor dalle mie voci intenda.
la mia fede ugualmente e la sua fama.
(Dunque io sarò più ingiusta? Io di Statira
meno amante sarò? No no, Barsina,
segui l’amore e la ragione. Andiamo).
propizio è il cielo. Già t’innalza al trono
la caduta di Arsace. Alla vendetta
servi di Oronte. La rival si privi
del sostegno miglior. Regina, scrivi.
può parer crudeltà la troppa fretta.
Ma periglio esser puote un troppo indugio.
più che col labbro, a te favelli amore.
il tuo affetto capir se sia verace?
Il labbro non mel dice e il cor mel tace.
E l’empie leggi ubbidirà Statira?
non si arrossì di un tradimento.
senza discolpa un tanto eroe?
e se lice, il tuo zel sia mia difesa.
Difenderò con opportuna aita
le ragioni del regno e la tua vita.
le furie sue? Vuol che Statira anch’essa
E lo soffrite, o dei? Così nimico
è della Persia il vincitor che toglie
a noi sin la virtù? Vuol che i delitti
sien passi al trono e che un crudel decreto
sia l’auspizio del regno? Alle regine
tinga gli ostri ’l mio sangue? E scellerato,
empie le fa, pria che felici? Agli astri
e se giova a Statira il tuo morire,
soffri ch’essa il comandi e muori in pace.
Al piè? Perché no al core?
momenti di mia vita, anche i sospiri
più di amante non son ma di vassallo.
la mia grandezza i tuoi bei giorni? Ah, caro,
finché innocente era il desio.
l’ira ch’è tua fortuna. Io te ne assolvo.
del tuo goder. Va’; la mortal sentenza
Ahi, che diria quest’alma?
che non mova la man l’odio o lo sdegno;
e allor che scritto avrai: «Condanno Arsace»,
alle note funeste; e amor vi aggiunga:
«Arsace, il mio più caro, il mio più fido,
quel che, da lui pregata, io stessa uccido».
chi sì ardito mi perde. Io forze avrei?
Avrei senso? Avrei mente? Avrei pensiero
sdegna Statira il soglio; e se il diadema
porta seco l’orror di una rapina,
ascoltatemi, o dei, l’abbia Barsina.
col castigo di un reo, di un traditore.
Usa il poter ch’hai sul mio fato e lascia
Orsù, cessin le accuse e le difese.
Sai qual ti penda, Arsace...
Taci; ed esso risponda. Qual ti penda
Ed io ne attendo il voto.
che segnò il tuo furor. Fa’ ch’io rimiri
l’autorità del mio morire; e serva
alle grandezze tue la mia rovina.
Eh, Arsace, sì crudel non è Barsina.
nel mio tacer ciò che ti salva? Ascolta.
il tuo destin. Tacqui finor; ma tacqui
merto dalla beltà per farti amante.
Or che il favor di un beneficio illustre
il tuo viver ti reco o il tuo morire.
egli risolva, egli risponda.
E risolvo e rispondo. Amo Statira.
dall’ire mie, da questi lacci; ed egli
sia tuo campion, per innalzarti al regno.
del mio soccorso insieme e del mio affetto.
Pria che il soccorso tuo, la morte aspetto.
Indegno è un traditor ch’io de’ miei passi
il suo carcere onori e il suo delitto.
desio di mie vendette a voi mi trasse.
e la pena di Arsace e il suo dovere.
Sien chiari i falli; allor la pena è giusta.
Parla il sangue di un re, parla il tuo ferro.
E il mio ferro può dir quale io mi sia.
che a una cieca pietà fai ceder tutta
Statira in libertà della sua gloria.
L’amo, già il sai; ma l’amo
non sai punirlo ed innocente il chiami.
Ma tu, Barsina, e che risolvi?
vedi i fulmini miei. Rispondi e temi
di una donna real la forza e l’ira.
Non la temo e rispondo; amo Statira.
Or odi e l’ama. Alle tue offese, o sire,
deve la Persia una vendetta... Ed io (Si ferma e guarda Arsace ad ogni posata)
per la Persia te l’offro... Il ciel, la legge
al labbro mio ne detta il voto... E tosto
Ecco la mia sentenza... Arsace... mora.
morirà Arsace e tu sarai regina.
Perdona all’amor mio... Ma non l’amore,
sol la giustizia il suo cader destina.
Un magnanimo sforzo, un sol tuo sguardo
sia tua vita, tuo soglio. A me la cedi
e vivi in libertade. A me ti dona
e regna e sopra i Persi e sopra i Sciti.
esso alla vita e me al comando inviti.
ch’io sì gran ben ti ceda.
al colpo di un carnefice, s’io il voglio.
me la torrà il morir, non l’incostanza;
e la dono al destin, non a un rivale.
così favella un reo? Vedrem se possa
più del mio braccio il vostro ardir. Ritorni
Tu, traditor, morrai. Lungi dal trono
vivrai, donna ostinata. Io vo’ che veda
te mia vittima il mondo e te mia preda.
se tento la tua fé. Dimmi ch’io mora.
Sì, basta il dirlo a tranquillar quell’ira;
e basta il farlo a guadagnarti un trono.
ne pubblicò il decreto. Il crudo Oronte
me ne fa la minaccia. Ah, sol tua legge
Empia ti sia Barsina, ingiusto Oronte;
ma pietosa e fedel ti sia Statira.
la fé, ch’è tuo periglio, è mio tormento.
Soffri che teco io sia infelice. Addio.
Vado a Barsina. Ad ogni prezzo io voglio
che viva Arsace. In lei tutto si tenti.
Tu grato all’opra amami e spera.
ch’esser dovrebbe il mio conforto estremo,
e allor che più mi piace, io più la temo.
servono i tuoi nimici al tuo destino.
Molto ancor manca a stabilirmi. Il merto
Odi e fia l’amor mio premio dell’opra.
Qui la rival verrà fra poco. Ignota
Ma quindi uscir poi se le vieti. Occulto
tu attendi ’l cenno e in mio poter l’arresta.
A così lieve impresa un sì gran dono?
Lieve non è ciò che assicura un trono.
Vien la rival. Lice l’inganno. Ceda
e serva di ragion forza e pretesto.
in te non sia crudele o in me superbo.
a te giovi ch’io l’ami; e a me pur giovi
sia prezzo un regno. Io te lo cedo; e l’uso
ten dia pietà. Giusta la rende e degna
e la gloria e l’amor. Serbalo e regna.
l’ingegno ammiro del tuo amor. Mi cedi
ciò ch’è già mio, ciò che più aver disperi.
Questa è troppa bontà, voler che un trono,
ch’ora è conquista mia, sembri tuo dono.
tanto non ti sia a petto. Io di sua sorte
disporrò col mio voto; e dal tuo core
leggi non prenderà la tua regina.
Quel che più a me conviene e tal m’inchina.
più non deggio soffrir. Statira, adempi
le parti di mia suddita o Barsina
saprà quelle adempir di tua sovrana.
Rido la cieca speme e l’ira insana.
Impon chi regna. Io servo.
Vedrem se alfin si pieghi un cor protervo.
temer d’inganno io più dovea. Ma senti;
con arti ree cerca di aprirti un calle
e vittima ne sia. Pur non è spenta
vive in Arsace ancor la mia vendetta;
né premerai con piè sicuro il trono.
Vanne e vedrai se tua regina io sono.
la scelta mia ch’è tua fortuna ancora.
Amor sia la mercé di chi ti adora. (Si parte)
salvi ’l mio ben dal crudo Oronte... Ei viene.
di offeso re sdegna gl’indugi. Il reo
che segnò la tua man, diasi ad Oronte.
dover del regno. Arsace...
l’ombra, il loco, l’acciar.
Ma seco rea mora Statira ancora.
di Arsace il piè, che ne armò il braccio e l’ire,
condannata da te, dee pur morire.
No, non morrà. Tutto il poter di Oronte
tutto farà ciò che può far Barsina.
ha con che spaventar l’altrui vittoria.
Vediamlo. A me qui Arsace.
che far potrai, se sui tuoi lumi istessi
reca ad Arsace un cenno mio la morte?
Che far potrò? Con quest’acciar punirti (Dà di mano ad un ferro e minaccia su la vita di Statira)
di Statira nel sen. Vedi, la sveno.
Ferma o di Arsace anch’io lo vibro in seno. (Fa lo stesso Oronte su quella di Arsace)
Difendi Arsace e poi morrà Statira.
Salva Statira e poi trafiggi Arsace.
S’ami estinto un nimico, in me lo impiaga. (Ad Oronte)
Se una rival vuoi morta, in me l’uccidi. (A Barsina)
L’ira mi sprona e la pietà mi arresta.
La morte di un rival temo e vorrei.
Il caro ben voi proteggete, o dei.
la fé di sposa o qui ti sveno Arsace.
pensa di amarmi o qui Statira uccido.
Ahi, che farò? Tu mi consiglia, o caro.
Ahi, che dirò? Reggimi ’l core, o sposa.
Se mi manchi di fé, pena ho più cruda.
Fato ho più rio, se d’altri sei consorte.
Ma se mi sei fedel, tu sei di morte.
t’amo estinto veder, pria che infedele.
Che più soffrir? Qui almeno un ferro...
Oimè, dir non poss’io: «Mora il mio bene».
Signor, di Arsace il nome e di Statira
ti fa novi nimici. Ha prese l’armi
Dario lo move; ed in tumulto è tutto
il Senato e la reggia. Omai si vuole
odesi: «Arsace viva e mora Oronte».
Tanto di speme han dunque i vinti? Or abbia,
abbia il fallo e l’ardire il suo castigo.
Cada qui tosto Arsace. A voi, guerrieri.
E Statira pur cada. A voi, miei fidi. (Arsace qui si avventa improvviso ad Idaspe, che gli è vicino, e toltagli di fianco la spada assalisce Oronte, in cui difesa accorrono le sue guardie)
la sua difesa. Addietro, o vili.
Oimè! Ti cedo Arsace e dagli aita. (A Barsina)
farti cader, per man di Oronte, estinto.
un carnefice vil. Traggasi, Idaspe,
chi del mio braccio osa rapirlo all’ira.
ella soffra in Arsace il suo periglio.
E vedrem chi le forze abbia più pronte,
o voi con Dario o con Barsina Oronte.
(E questi di mie colpe avran la pena?)
Ma, Statira, perché? Perché in que’ lumi
così bel pianto? Insuperbirsi io veggio
nel tuo dolor la nostra sorte e pompa
son dell’empia rivale i tuoi sospiri.
forse è l’ultimo onor che te presente
rendo al mio genio. Lascia...
con la mia libertà l’ardir de’ Persi.
Dario è per noi. Per noi saranno i numi
diletto Arsace, a me rasciuga il ciglio.
Idaspe, affretta. Andiam. Tu vieni, o cara.
Ogn’indugio è un rossor della mia fede.
Vuoi così? Teco è l’alma e teco è il piede.
Io soffrirò che Arsace, io che Statira
le colpe sfortunate Oronte intenda
e una giusta virtude ambo difenda.
Per Statira ei decise e al voto iniquo
serve il popolo ardito e contumace.
cadrà tutto l’ardir dal cor de’ Persi.
gli auspizi del suo regno avrà Barsina.
Quali auspizi? Statira è la regina.
signor, non isdegnarti. Alla corona
si vuol Statira. Amor, pietade e zelo
movon l’impeto audace e con quest’armi...
lice all’onor. E con quest’armi, o sire,
no, non si offende e non s’insulta Oronte.
Rapirmi ’l reo, lasciarmi invendicato
non è un’offesa? Di’, non è un insulto?
Troppo è noto alla Persia il cor di Arsace
stringa ancora per me di Astrea la spada.
Statira regnerà; ma Arsace cada.
il suo regnar da un’empietà. Rifiuto
che ti porti sul trono esser dee quello
Crudel! Pria che il mio ben, perdasi ’l regno.
(Ambizione, amor, che far degg’io?)
Ingiustissimo pianto! Abbia Barsina
sopra i Persi l’impero e si punisca
il traditor del pari e la nimica.
Io condannare Arsace? Amor tel dica.
Vile sospir! Vendetta a me si nega?
Guerrieri, a voi. Qui lo uccidete...
A un’ira coronata e impaziente
egli cui d’Issedon rapisti ’l regno,
le vendette cercò dentro al tuo seno.
Io quegli sono. Invano ad altri ’l chiedi.
(Gelosia, sei pur cruda in cor che tace!)
Udite, o Persi, udite. Anche gli Sciti
hanno i lor fasti; e una virtù straniera
la natia desta in essi. Amai Statira;
e Arsace traditor quasi mi piacque
per punirlo rivale. Or che innocente
e lo trovo e lo abbraccio, alla mia gloria
cede l’amor. Regni Statira e teco
divida il soglio, avventuroso amante.
Così gode in amore alma costante.
A te, Idreno, cui deggio atto sì giusto,
qui col perdon rendo il comando. Bella, (A Barsina)
china la fronte al tuo destin. Gli affetti
sien tuoi vassalli e la ragion tuo regno.
oltra l’Eufrate; ed all’amor di Arsace
Al tuo merto ed al ciel convien ch’io ceda.
Già vinto è il vincitore.
Fra la Persia e la Scitia eterna pace.