Metrica: interrogazione
688 endecasillabi (recitativo) in Statira (Zeno e Pariati) Venezia, Rossetti, 1705 
io figlia di Artaserse, io lo contendo.
                                                          E i vizi
tolsero a lui ciò che gli diede il sangue.
                           Ma da tiranno è morto.
Chi re muore, è più re di chi vi nasce.
né orgoglio tuo né altrui livor può tormi.
più che sul labbro, hanno vigor sul brando.
saria, Barsina, l’amor mio, quand’egli
teco, invitto Oribasio, i miei trionfi.
la tua causa con l’armi, anch’io ne vengo
                            (Cieli, a’ miei danni Arsace?)
combatte Arsace, al suo valor si gloria
Fuor de la mischia il piè ritira, o bella.
Tu pure esci del campo e ugual prometto
(Se Arsace è mio campion, regina io sono).
(Se Arsace è mio nemico, io perdo il trono).
Qual nume avverso oggi cospira a’ danni
del perso impero? Onde tant’ire? È questo
d’odi privati il miglior tempo? A fronte
del regio sangue, il fiero scita, Oronte.
Là s’impieghi l’acciaro e là trionfi.
Siate di voi, pria che di altrui regine.
con quale orror gli odi civili io scerna.
vuole usurpar ciò che a giustizia è mio.
per non soffrirlo ho le mie furie anch’io.
Ne sia giudice il popolo e ’l Senato.
                                 Orché tanta di stragi
commettasi, o Barsina, il dubbio evento.
Forte guerriero ambe scegliete. In chiuso
prezzo ad una lo scettro, ad un la gloria.
                                  Anch’io v’assento.
                                                                     Omai
                                    (O numi!) Al tuo valore
la mia ragion, forte Oribasio, affido.
Pari è l’incontro; ambo d’invitti han grido.
avrò vibrato in miglior uso il brando
Orché son tuo guerrier, cara Barsina,
Vado a dispor l’ire a la pugna e l’armi. (Parte)
senza l’onor del rogo ancor sen giace.
L’estremo ufficio differir non lice.
Tutto è in Tauris disposto; e sol la vostra
                              Io verrò in breve.
                                                                O quanto
mi costi, incauta ambizion! Già sono
ria con l’amante, empia col padre. L’uno
metto in rischio di vita e niego a l’altro
la pace del sepolcro. Andiamo, o duce.
qui mi richiama e mi trattiene amore.
Chi non serve al mio cor, Dario, non mi ama.
Non ha tanti riguardi amor ch’è cieco.
La tua beltà vuol ch’io fedel ti adori.
La mia virtù non vuol ch’io viva ingiusto.
                                             Il cielo e l’armi.
Non gli otterrà. Ciò che può ingegno e forza
tutto userò. Core, a’ consigli, a l’arti.
Per regnar, per goder tutto alfin lice
e la colpa è virtù, quando è felice.
tiene in guerra civil l’odio feroce,
da sé, pria che da voi, vinto è ’l nemico,
funesto al guardo e spaventoso al core.
de le vittorie mie dovea esser frutto.
Chi prevenne i miei voti? E chi ti tolse
Beltà che in questo foglio il cor ti espone.
s’insidia a lei. Suo difensor tu vieni.
Vien generoso. A te non far ch’esposti
chi suo appoggio ti vuole o suo sovrano».
                                           Ed ella appunto
mi tolse a’ ceppi e a te recar m’impose...
Per Statira è ’l mio cor. Lei chiedo in moglie.
L’ira sinor si è soddisfatta. Or pure
si soddisfi il disio. Statira io voglio,
Volerla è impegno e conquistarla è gloria.
Di un padre estinto è un vincitor più forte.
                                       Io vo’ Statira. Omai
dieno le trombe. La città si assalga,
si combatta, si espugni; e in dì sì lieto
il rammentar qual sei, non qual ti fingi.
sai ben qual sia l’iniquo Oronte? Il crudo
ti uccise il padre. Ti rapì ’l superbo
ramingo e vil, mentito il nome e ’l grado.
Per mia man cada l’empio; e se avrò morte
al difficil cimento, o dio! ti espone.
Ingiusta è mai la tema in un’amante?
si dee regnar, scettro, corona, addio;
voi siete il mio terror, non il mio voto,
il trono de la Persia e quel del mondo.
Pur consolati e parti. Il tempo è questo
in cui, più che pugnar, vincer degg’io.
ch’io vivo nel tuo seno e tu nel mio.
tu dei del viver tuo gli ultimi avanzi.
                                      Non la ragione.
                                       Tanto ti giova
A l’armi, a l’armi, ogni contesa è vana.
                                               I nostri acciari
                                           E pronto io sono.
E pietà qui non s’usi e non perdono.
Cessino l’ire. A le nostr’armi, amici,
                                            È vinto il campo?
corron le stragi ad inondar la reggia.
                                 Già di Barsina al seno,
le porpore e ’l diadema usurpa Oronte.
dirà s’io sono amante o s’io son forte.
facciam col nostro petto argine e sponda;
de la mia speme e l’interesse e ’l merto.
Vano è l’ardir. L’armi cedete, o prodi.
e la mia nemistade e ’l vostro rischio.
rasserenate il ciglio. Al perso impero
di man cadde l’acciar; ma non vi cadde
non fa servir le sue conquiste Oronte.
che l’alma di Statira è ’l suo confine.
                                     Accorta frode.
So dar freno a la sorte. Idaspe, vanne
l’ire a frenar de’ miei guerrieri e ’l fasto.
                               Io vado; e a la tua gloria
la pietà fregi accresca e la vittoria.
arbitro io m’offro. A la mia guerra, o belle,
la vostra pace. A chi di voi più giusta
quell’onor che le costi un atto indegno.
chi regni sovra i Persi. In te la sorte
un vincitore, un re vuol ch’io rispetti.
Nulla di più. Giudica i tuoi. Mi basta
saper qual io mi sia. Se poi l’orgoglio
(Ben di regnar quel brio feroce è degno;
e già sovra il mio cor comincia il regno).
e ’l ricusar che tu l’innalzi al soglio
che ’l viver mio. Di tua sentenza al cenno
chino la fronte. Vuoi che oppressa e vile
la Persia estrema abbia i miei giorni? Gli abbia.
mio vincitor? Ti sieguo. Il tuo volere
faccia pur le mie leggi e ’l mio piacere.
                                 (Industrioso inganno!)
tua legge e tuo piacer sia ciò che lice.
bilancia il merto e la virtù compensa.
                                             Egli si unisca.
di sé stesso diffida, ancorché saggio.
pago di mia vittoria anch’io mi accheto.
Quel guardo amico, onde si fissa Oronte
la legge avran da un vincitor ch’è amante.
                                          Essa n’è erede.
Il mio amor vi si oppone e la mia fede.
Ami Oribasio e per regnar sia ingiusto.
sia del suo amor quella virtù che il regge.
non mi restò che un solo colpo. Un solo
                                  Questo si tolga e lieta
di tutto il loro sdegno assolvo i numi.
mercé del mio valor? Lascia, o Statira,
al mio braccio, al mio cor gli ultimi sforzi.
                             Le tue sciagure, o bella,
ma pien de la sua gloria altro non cura.
ne’ guardi suoi pur un affetto. Il labbro
tutta nel sol piacer de l’aver vinto.
                                             Venga
gli dà questo poter, più che il mio cenno.
meglio che da la sorte, il suo contento. (Parte)
(Ah! Che di gelosia languir mi sento).
Se ne offende il mio amor. Là ti nascondi,
Non più. Dentro al mio cor, nel mio sembiante,
anch’io lo so, son armi degne i prieghi.
(Di linguaggio cangiò). Prieghi non usa
regina, il maggior fregio. Or siedi e ascolta.
                              Statira, eccelso germe
mia pompa, no. Da la fortuna io sdegno
                                               Mi è noto.
quando giusta il potea strigner la mia.
            Tutto so; ma so pur anche il lutto
di questo impero e quanto sangue e pianto
e dagli occhi de’ Persi e da le vene
l’offesa mia stammi sul core. Al padre
svenato dal tuo acciaro, eterna l’ira,
se a me lo ascrivi, in questa man ti rendo
                                                       E si offre
                                      T’intendo; è questo
O ’l nemico o l’amante ecco in Oronte.
Piace il nome del primo a la mia gloria.
Chi t’insegnò questi rigori? Arsace?
(Ei si confonda). Arsace; e in esso onoro
                                                         È vero.
servo al ciel, servo al padre e servo al core.
Tanto ad Oronte ancor armato? Or resta
qual l’ira sia del provocato Oronte,
Tu mi fai più costante e più nemica.
Questo, Statira, è ’l generoso? È questa
Purtroppo e’ disse, o dio! Né mi spaventa
il suo desir; nel tuo periglio io temo.
Qual periglio? Il morir? Per te mi è caro.
del barbaro la pena. A lui t’invola.
ti lascio in suo poter? Fuggo dal ferro;
E me ’l timor di tua pietade uccide.
Salvati, Arsace. Ogni momento è rischio.
Rischio maggior fora il lasciarti. Duolmi,
duolmi che l’amor mio sia tua sventura.
                                           Ah! No, cor mio.
Sia ’l periglio comun, comun lo scampo.
                Già cade il sol. Tosto che l’ombre
                                        È tua nemica.
Né so né vo’ partir, se tu qui resti.
                                              Tu mi vincesti.
                             Unico è ’l varco. Sia
il silenzio tua scorta; e là compagno
                        Propizio il ciel ne arrida.
E l’ardire e l’amor sien nostra guida.
che nutro in sen, la difendete. A l’onte
sottraggo l’onor mio, non la mia vita.
sul cor di Arsace amor mi addita un regno.
lesse, squarciò; né di Barsina il merto
a l’affetto prevalse, ond’egli avvampa.
                                      Il nome di Statira
in lui destò qualche scintilla; e questa,
dacch’ei la vide, alzò la vampa e crebbe.
voi siete in rischio. A la rival superba
giova un amor che ne sarà ’l sostegno;
sin dal Caucaso suo, diadema e regno?)
grato dover, tu ’l mio furor sostieni,
faccia la tua fortuna e ’l mio riposo.
Più di te son offeso e dee lo sdegno,
Tu cerca i mezzi, ond’egli pera. Io pure
fidi solo a sé stessa i suoi disegni.
Ecco a la mia l’ora opportuna. Oronte
ho facile l’ingresso. Il sonno e l’ombre
posso involarmi ad ogni rischio. Idaspe,
il braccio e ’l petto arma di ferro e d’ire;
e a chi serve ragion, non manchi ardire.
                Anima mia...
                                          Tremante il passo...
                                                             Appunto
de’ miei spaventi il più crudel tu sei.
Custodi, olà, sono tradito. (Di dentro)
                                                 O dei!
                   Quai voci?
                                         Ah! Traditor. (Veduto Arsace col ferro in mano)
                                                                   Rie stelle!
sì, ti basti il saper ch’io sono Arsace.
Come? Arsace? Tu qui? Fra l’ombre? Armato
di acciar la destra? E con Statira al fianco?
qual odio qui ti trasse e qual furore.
Sol perché Arsace sei, sei traditore.
                        Giudice re non viene
                                                Fermati, o caro,
l’ardir qui è rischio. Al tuo destino or cedi.
                         No, se m’ami.
                                                     Eccomi al cenno.
Idaspe, io son tradito; e questo sangue
n’è chiara prova. Là fra l’ombre e ’l sonno
Chiedo aita; egli fugge. Esco e qui trovo
                              Egli è innocente...
                                                                 È colpa...
Oronte, io ti favello e sul mio labbro
non parla amor, ragion ti parla. Ascolta.
Arsace è prence; e la virtù sostiene
il braccio armò che le tue voci intese.
                                                               E troppo
                           Ma chi fu ’l reo?
                                                           Mi è ignoto.
                               Là forse chiuso ancora
                                        E là si cerchi.
(E la disgrazia altrui mi fa innocente). (Entra nelle stanze di Oronte)
e un amor, ch’è mia gloria, è sol mia colpa.
cauto cercai né alcun rinvenni, o sire.
                               Sono infelice.
                                                          Arsace,
cedi quel ferro; a la prigion tu ’l guida. (Ad Idaspe)
                                   No, cor mio. Riserba
barbaro, prendi e del tuo sangue il mira
Tempo verrà... Statira, io vado e forse
                              Ancor permetti, Oronte,
in lui condanno, in te l’amante assolvo.
Vien Barsina. Io vo’ ’l giusto e datti pace.
                                              Principessa,
sin fra’ trionfi il tradimento ardisce.
questa ferita. Il reo n’è Arsace e questi
                                Io testimon...
                                                           No, taci
ma non dia leggi, ov’ei ricusa il trono.
                               (Misera innocenza!)
                                                (Io che a tal prezzo
                Arsace.
                                Eccovi il foglio. A piede
                                    No, principesse.
Temasi un’ingiustizia e più guardinga
sia la destra in punir. Qualche riguardo
né tradisca il dover desio d’impero.
qual sia ’l mio cor da le mie voci intenda.
                                        Colà mi chiama
(Dunque io sarò più ingiusta? Io di Statira
Siegui l’amore e la ragione. Andiamo).
propizio è ’l cielo. Già t’innalza al trono
Ma periglio esser puote un troppo indugio.
                            Da l’amor mio sol nasce
                                 Gradisco il zelo.
                                         Vo’ che col core,
più che col labbro, a te favelli amore.
Il labbro non mel dice e ’l cor mel tace.
                                             E fia mia pena
                             Come?
                                             Il mio ferro, amico,
                                                           E resta
                                                       No, Dario.
le furie sue? Vuol che Statira anch’essa
a noi fin la virtù? Vuol che i delitti
sien passi al trono e che un crudel decreto
sia l’auspicio del regno? A le regine
tinga gli ostri il mio sangue? E scellerato
empie le fa, pria che felici? Agli astri
soffri ch’essa il comandi e muori in pace.
                                                In questi estremi
                            A la regina Arsace.
la mia grandezza i tuoi be’ giorni? Ah! Caro,
                                                      Innocente
l’ira ch’è tua fortuna. Io te ne assolvo.
del tuo goder. Va’. La mortal sentenza
                              Ahi! Che diria quest’alma?
che non muova la man l’odio o lo sdegno;
e alor che scritto avrai: «Condanno Arsace»,
«Arsace, il mio più caro, il mio più fido,
quel che, da lui pregata, io stessa uccido».
chi sì ardito mi perde. Io forze avrei?
Avrei senso? Avrei mente? Avrei pensiero
                            Se teco nol divide,
sdegna Statira il soglio; e se il diadema
                                L’abbia; ma senta
                                         Ragion mi sia
col gastigo di un reo, di un traditore.
Usa il poter che hai sul mio fato e lascia
                                       Ei n’è innocente.
                                                  Il sa né teme.
                                      Ed io ne attendo il voto.
                                 Io già ’l prevedo. Vieni
che segnò il tuo furor. Fa’ ch’io rimiri
                                            Siegui.
                                                            Non leggi
nel mio tacer ciò che ti salva? Ascolta.
Orché il favor di un beneficio illustre
Il tuo viver ti reco o ’l tuo morire.
                                     Parlo ad Arsace.
                                                 O audace!
                              Così a Barsina.
da l’ire mie, da questi lacci; ed egli
sia tuo campion, per innalzarti al regno.
del mio soccorso insieme e del mio affetto.
Pria che il soccorso tuo, la morte aspetto.
Indegno è un traditor ch’io de’ miei passi
il suo carcere onori e ’l suo delitto.
                                     Nulla risponde
Sien chiari i falli; alor la pena è giusta.
Parla il sangue di un re, parla il tuo ferro.
E ’l mio ferro può dir quale io mi sia.
                                     Ceda ma resti
                                 L’amo, già ’l sai; ma l’amo
                                             E perché l’ami
non sai punirlo ed innocente il chiami.
                                                      Pronti (Ad Arsace)
Or odi e l’ama. A le tue offese, o sire,
deve la Persia una vendetta... Ed io (Si ferma e guarda Arsace ad ogni posata)
per la Persia te l’offro... Il ciel, la legge
al labbro mio ne detta il voto... E tosto
Ecco la mia sentenza... Arsace... mora.
                              E tu sarai regina.
                                 Empia Barsina!
Perdona a l’amor mio... Ma non l’amore,
                              E tu sarai regina?
e regna e sovra i Persi e sovra i Sciti.
                                              E pur lo cedi
al colpo di un carnefice, s’io ’l voglio.
me la torrà il morir, non l’incostanza;
più del mio braccio il vostro ardir. Ritorni
vivrai, donna ostinata. Io vo’ che veda
se tento la tua fé. Dimmi ch’io mora.
Sì, basta il dirlo a tranquillar quell’ira
e basta il farlo a guadagnarti un trono.
ne pubblicò il decreto. Il crudo Oronte
la fé, ch’è tuo periglio, è mio tormento.
Vado a Barsina. Ad ogni prezzo io voglio
                                                            Ah! Senti.
ch’esser dovrebbe il mio conforto estremo,
e alor che più mi piace, io più la temo.
Molto ancor manca a stabilirmi. Il merto
                                       E che far deggio?
Odi e fia l’amor mio premio de l’opra.
Ma quindi uscir poi se le vieti. Occulto
tu attendi il cenno e in mio poter l’arresta.
Lieve non è ciò che assicura un trono.
a te giovi ch’io l’ami; e a me pur giovi
sia prezzo un regno. Io te lo cedo; e l’uso
e la gloria e l’amor. Serbalo e regna.
l’ingegno ammiro del tuo amor. Mi cedi
ciò ch’è già mio, ciò che più aver disperi.
Questa è troppa bontà, voler che un trono,
ch’ora è conquista mia, sembri tuo dono.
tanto non ti fia a petto. Io di sua sorte
Quel che più a me conviene e tal m’inchina.
                               Dilla ingiustizia.
                                                               I torti
più non deggio soffrir. Statira, adempi
                            Impon chi regna. Io servo.
Vedrem se alfin si pieghi un cor protervo.
temer d’inganno io più dovea. Ma senti;
la scelta mia ch’è tua fortuna ancora.
Amor sia la mercé di chi ti adora. (Parte)
salvi il mio ben dal crudo Oronte... Ei viene.
                                               Il so, lo accusa
                                               Giusto è ch’ei mora.
di Arsace il piè, che ne armò il braccio e l’ire,
No, non morrà. Tutto il poter di Oronte
                                     E per Arsace
                                        Spesso anche il vinto
ha con che spaventar l’altrui vittoria.
                                                    A me Statira.
                                       E ’l tuo furor delira.
che far potrai, se su’ tuoi lumi istessi
Che far potrò? Con quest’acciar punirti (Dà di mano ad un ferro e minaccia su la vita di Statira)
Ferma o di Arsace anch’io lo vibro in seno. (Fa lo stesso Oronte su quella di Arsace)
                        Che pensi?
                                               Empio.
                                                               Spietata.
S’ami estinto un nemico, in me lo impiaga. (Ad Oronte)
Se una rival vuoi morta, in me l’uccidi. (A Barsina)
L’ira mi sprona e la pietà mi arresta.
Ahi! Che farò? Tu mi consiglia, o caro.
Ahi! Che dirò? Reggimi il core, o sposa.
Se mi manchi di fé, pena ho più cruda.
Fato ho più rio, se d’altri sei consorte.
t’amo estinto veder, pria che infedele.
Che più soffrir? Qui almeno un ferro...
                                                                       Invano...
Aimè, dir non poss’io: «Mora il mio bene».
Tanto di speme han dunque i vinti? Or abbia,
abbia il fallo e l’ardire il suo gastigo.
Cada qui tosto Arsace. A voi, guerrieri.
E Statira pur cada. A voi, miei fidi. (Arsace qui si avventa improvviso ad Idaspe, che gli è vicino, e toltagli di fianco la spada assalisce Oronte, in cui difesa accorrono le sue guardie)
                                                      Iniquo,
                                    Non temo.
                                                          Anima ardita.
Aimè! Ti cedo Arsace e dagli aita. (A Barsina)
                               Misero son, non vinto.
farti cader, per man di Oronte, estinto.
chi del mio braccio osa rapirlo a l’ira.
E vedrem chi le forze abbia più pronte,
Ma, Statira, perché? Perché in que’ lumi
così bel pianto? Insuperbirsi io veggio
forse è l’ultimo onor che te presente
                                                    No, cor mio.
con la mia libertà l’ardir de’ Persi.
Dario è per noi. Per noi saranno i numi
                                    Il tuo coraggio,
diletto Arsace, a me rasciuga il ciglio.
Idaspe, affretta. Andiam. Tu vieni, o cara.
Ogn’indugio è un rossor de la mia fede.
Vuoi così? Teco è l’alma e teco è ’l piede.
cadrà tutto l’ardir dal cor de’ Persi.
gli auspici del suo regno avrà Barsina.
                                        (Indegno).
                                                              A questi applausi,
muovon l’impeto audace e con quest’armi...
                                         Amo ma quanto
lice a l’onor. E con quest’armi, o sire,
no, non si offende e non s’insulta Oronte.
non è un’offesa? Di’, non è un insulto?
Troppo è noto a la Persia il cor di Arsace
stringa ancora per me di Astrea la spada.
                                       Deh! Non ti tolga
Crudel! Pria che il mio ben, perdasi il regno.
                                                              Ah! Ferma.
                                           Egli è innocente.
                             Io ne so ’l reo. Riserba
                                   A me l’esponi.
                                                               Idreno,
Io quegli sono. Invano ad altri il chiedi.
                                          È salvo Arsace.
(Gelosia, sei pur cruda in cor che tace!)
hanno i lor fasti; e una virtù straniera
e lo trovo e lo abbraccio, a la mia gloria
A te, Idreno, cui deggio atto sì giusto,
qui col perdon rendo il comando. Bella, (A Barsina)
china la fronte al tuo destin. Gli affetti
sien tuoi vassalli e la ragion tuo regno.
oltra l’Eufrate; ed a l’amor di Arsace
Al tuo merto ed al ciel convien ch’io ceda.
                                           E qui ad Oronte
                             E lo conferma Arsace...

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