Metrica: interrogazione
728 endecasillabi (recitativo) in Ornospade Venezia, Pasquali, 1744 
                   A morir?
                                      Sì.
                                              Questo campo,
                                Anzi vi fisso il guardo,
per avvezzarmi a non temer la morte,
                                              Al tuo Ornospade.
Duro esilio mel tolse; e un anno intero
                              Rimorso e pentimento
                                       Taci, o Vonone.
L’innocenza saper puoi d’Ornospade
ma non l’iniquità del suo tiranno.
A malvagio consiglio arte non manca
di far ch’esca da un re comando iniquo.
Artabano è un ingrato; e le infelici
della sciagura del mio illustre amante.
per me amor concepì. Chiuse il reo foco.
Cercò pretesti di cacciar del regno
di sua grandezza, per cacciarlo poi
ma a suo dispetto vel mantenne amore.
Or di tua fuga la ragion comprendo.
Ella sia che ne guidi ad Ornospade.
Come? In qual parte? All’altrui traccia appena
Il re mi fa inseguir. Mi cerca ei stesso.
Meglio è morir. Qui ’l posso e qui lo voglio.
Frena il duolo feroce e me, per molta
fede a te noto, sofferente ascolta. (Palmide nulla gli bada, stando in atto pensoso)
Grazie agli dii, già intrepida mi spingo
a incontrar ciò che temi. Ecco il mio fine. (Dà di mano alla spada, avendo veduto venir da lontano Anileo, seguito da’ suoi soldati)
                Lasciami.
                                    Oh dio!
                                                     Sol contra tanti,
O perfido Anileo, tu cadrai prima. (Si avventa per ferirlo ma il colpo le è trattenuto da Vonone che si mette di mezzo e le toglie di mano la spada)
Inumana pietà! Più rio di tutti
nimico. Essi uccideanmi e tu mi salvi.
Sappi usarne in tuo pro. (Ad Anileo)
                                               Bella, né affanno
né ti rechi timor che il tuo ardimento
t’abbia tratta in poter di chi ti onora.
                                              O di Ornospade
vile persecutor, degno di tutto
l’odio mio, non dirò, ma del mio sprezzo,
poi rubello al tuo re, posta ha il destino
l’ultima meta al suo furor, col farmi
Né peggio ei mi può far; né tu potrai
peggior di quel che sei renderti mai.
Han grazia sul tuo labbro anche gl’insulti.
e s’apra a noi nella città difesa
Sì, che già cadon l’ombre e il dì si copre. (Geronzio con alquanti soldati va verso la porta della città, la quale si apre)
Non l’irritar. (A Palmide)
                           Non teme chi dispera. (A Vonone)
Ivi l’asilo, ivi l’omaggio avrai. (A Palmide)
vuoi risparmiarmi? Non seguir miei passi;
e fa’ che quel reo aspetto io più non miri.
                                            Oggi hai respinti
assalitori e assalti e nel lor campo
                                          L’ami tu forse?
Anileo non si perde in vani affetti.
Ella al re piace. Io col serbarla a lui
non può guari durar Carre; ed è forza
che ceda alfine, indebolita e vinta
                                          Or che far pensi?
fra poco il re. Tu per rimota e breve
che mi torni il suo amor, mi lasci il dato
governo; e pongo l’armi; e la difesa
città gli rendo; e Palmide gli serbo.
mi sforzi a disperar, tremi il suo amore.
                                               Se dato
mi è ottener per tal via grazia e perdono,
non temerò che l’esule Ornospade
più si richiami e con maggior fortuna
al reale favor mi chiuda il passo,
guardando addietro me, tapino e lasso.
Malvagia ambizion, che non esigi
da chi di te si forma idolo e nume?
a perderti, e nol sai. La tua alterezza
lega fe’ con invidia e con inganno,
sol d’Ornospade in danno. Ei pur ti volle
Tu perché, in proccurargli esilio e pena,
Qual fu la colpa sua? Donde il tuo sdegno?
Donde? Dopo i suoi beni e tuoi doveri,
dal veder te men grande e lui più degno.
voi meco a ragionar, tristi pensieri.
darò il primiero? Al perfido Anileo?
Non si curi. Al mio re? Benché spietati,
Al duro esilio? Con virtù lo soffro.
Alla diletta Palmide? Mi serbi
All’onor mio? Meco lo porto e chiaro,
qual sol per nube, ne traspare il raggio,
senza temer di rea calunnia oltraggio.
Cieli, Ornospade! E chi ti guida a noi?
                           E di che reo?
                                                     Saperlo
                                           Indizio o grido
non giunse a noi di tua sventura.
                                                             A tutti
stia ignoto pur, che men ne resta offesa
Tu il campion, tu l’eroe del parto impero?
Nell’auge de’ miei fasti esule io sono.
e la Iberia e la Colchide alle leggi
quando il prezzo goder de’ miei sudori
penso nel regio affetto e nelle nozze
mi giunge, oh dei! d’uscir del regno; e morte
mi si minaccia, o indugi o vi ritorni.
Di vassallo. Ubbidii, soffersi, tacqui.
Sperai dal tempo, scopritor del vero,
ma indarno. Un anno è corso; e alcun non spunta
propizio lume che dilegui l’ ombre
                                        Dove frattanto
tuoi dì vivesti? Ozio è di tedio al prode.
trarli del mio signor. Sai che Artabano
fu chiamato a regnar sovra de’ Parti,
dopo la morte del crudel Fraate.
Cessi il grave timor. Tal io buon’opra
Non fu in suddito mai tal zelo e fede.
Ferma pace a segnar tra i due regnanti
che per altro sentiero a lui sen vada,
che meritar, più che incontrar pavento.
Or perché qui venir, dove fra poco
Per versare in suo pro l’ultimo sangue.
Intesi il dubbio assedio e la proterva
di Anileo resistenza. Oh, possa almeno
trar nell’eccidio mio l’alma rubella,
da cui solo vien forse ogni mio danno.
Perfido egli è ma prode. Onde è racchiuso,
esce né vi rientra che satollo
di molta strage; e di recenti morti
Or che vittoria il fa sicuro, assalto
Mi è nota la città. So dov’ella abbia
Se vincitor non tornerò, sui loro
scudi riporteranmi, ricoperto
di non tutto mio sangue, i tuoi soldati.
quei che reggono l’armi, in ardua impresa,
o cederne l’onor. Ma l’amistade
e la pietà, che ho de’ tuoi casi, ad ogni
riguardo in me sovrasta. Olà, le schiere
che al conflitto non fur, chiuse nel vallo,
e seguano Ornospade ov’ei le guidi,
sicure di trionfo. E tu, grand’alma,
va’, pugna e vinci; e il nostro re qui giunga;
dell’error suo pena e rimorso il punga.
in amico trovar può tanta fede,
non è mai sì meschin quanto ei si crede.
ma più il riposo del mio amor. Di questa
Nisea, la regal figlia; e ne ho in sicuro
pegno la fé sovrana e più l’affetto
di lei che il mio gradisce; o almen lo spero.
qual, Mitridate, è il vago oggetto?
                                                              Il posso
dir senza nota di soverchio ardire?
                                Se tale io fossi,
ondeggerien su le nimiche torri
                                               I fati avversi
Ma pria che il dì risorga, avvinto e presa
vedrai Carre e Anileo, mercé all’invitto
                                      Tratto dal zelo...
                                                                     Ah, fugga
Ciò ch’ei fece per lui, ciò ch’egli tenta
al regio il renderà, senza sua colpa,
                            Ah, tu non sai... Previeni
con Geronzio lasciai di gravi affari
che nova trama non si ordisca... Ah, salva
Sprone aggiungi al desio; né il tuo bel labbro
ove abbia molto a meritar mia fede.
fiamma che spenta io già credea, tu riedi
con alto incendio a divampar. Mio core,
Ornospade non sa né, se il sapesse,
Palmide ti prevenne; ed io per legge
d’un padre re son destinata ad altri.
Palmide piace al re. Chi sa? Ornospade
vorrà che amante. Un re rival fa solo
la sua miseria. Ei lo rispetti; e forse
io ne sarò il compenso. A Mitridate
sa trovar vie per risarcirne il danno;
un credulo amator pascer d’inganno.
No, Palmide, non son quel vil, quell’empio,
nomi ch’ira e dolor t’arma sul labbro,
                              (Che sofferenza e pena!)
al vasto impero suo suddite genti.
e tu il prezzo sarai di quella pace
che dall’armi dispero e dalla forza.
                                                 Oh, se non fosse
che un cieco amor t’ha posto agli occhi un velo,
                                             Perverso!
Stanco sei ch’io ti soffra; e quale ad altri
piace udir suon di lode, a te diletta
fa la gloria di Palmide; e la colpa
vien dall’iniquità d’un tuo consiglio.
Anileo, che non corri ove il dovere
occupate han le mura; e Carre è  presa.
Ma tu non n’esultar. Se Anileo cade,
non sarà solo e piangerà Ornospade.
che giova a me? Passo di ceppi in ceppi
e miseria cangiar, non finir posso.
se il tuo liberator fosse il tuo amante.
Cielo stranier lunge il rattiene...
                                                           E pure
suo è l’onor dell’assalto e delle torri
me lo affermò. Vincer così...
                                                    Già il credo,
è solo da Ornospade e da lui solo
Preservatemi, o dei, sì cara vita.
date loco al gioir, tristi pensieri...
Ornospade a te viene; e del tuo amore
tale è il fasto e il piacer che baldanzoso
speranze di vendetta in sé rivolge.
nel poter vendicarsi egual costume.
Il malvagio imperversa. Il generoso
ond’egli ti colmò, la vita ancora.
pria che viver per lui. Fatto suo dono,
                                        Deh, che far pensi?
Segui colui. Tu il mio comando adempi. (Ad uno de’ soldati)
Non mi tocchi l’uom vil. Scostati. Io vengo.
Sovvengati, Anileo, che in Ornospade
d’ogni mio oltraggio il punitore avrai.
io porterò il terrore; e tu il vedrai.
di Palmide nel sen la spada immersa,
in dolor d’Ornospade. Ei venga e trovi
pure a quel varco, onde a salvarti, o iniquo,
Su, gitta il ferro e renditi; o trafitto,
ch’io di sangue sì reo sdegno macchiarmi. (Comparisce sul poggiuolo Palmide, afferrata per un braccio dal soldato di Anileo, il quale con l’altra mano tiene alzato uno stile, in atto d’immergerlo nel seno di Palmide)
volgansi in Anileo. Di che pentirsi
colà, o superbo, alza un sol guardo e mira
da qual ombra sarà nel cupo Averno
                                              Sì, eleggi
tra il furor e l’amor qual più ti aggrada.
Che ti arresta? Da’ il cenno e fa’ ch’io cada.
Ah, più tosto, o crudel, dentro il mio petto
Gitterommi al tuo piè, se vuoi ch’io preghi;
il re ti placherò, s’ei ti minaccia;
armerò in tua difesa anche me stesso.
                            È in mia possa; e nel mio crudo
destin, da te e dal re quella mi è scudo.
Signor, spoglia ogni tema. Il re ti accorda (Ad Anileo)
grazia e perdono. Io lo precorro. Ei viene.
Crudel divieto! Ah, mi fa orror del pari
                                       Che non ti celi?
sul capo mio barbari aspetti, o cieli!
temi il tuo re? Del mio divieto in onta
tornar nelle mie terre? E con sì franco
perché poco punii la tua perfidia.
Ma tu disubbidisti e n’avrai pena.
Di mia sorte, o signor, qual vuoi, disponi.
di perfidia mi sgridi. In tormi vita
lasciami almen l’onor di quella fede
che vantarti potrei con più baldanza,
in rimprovero tuo la mia innocenza.
Rispetto la tua gloria e in que’ malvagi,
tutta rigetto la miseria mia.
Tedio di vita qui mi spinse e venni
una morte a cercar ch’util ti sia.
                             No, Mitridate, errasti
tu ancor, fidando l’armi nostre ad uno
                       Ciò ch’egli fe’...
                                                     Non scema
L’ubbidir, di chi serve, è il primo impegno;
ha merto che lo esima a regio sdegno.
(Un re rival può mai placarsi?)
                                                          Io temo...
Eccoti, o grande Arsacide, Anileo,
misero più che reo, chieder perdono.
E chiederlo d’un fallo, a cui l’astrinse
altrui malvagitade. Al primo avviso
e in tua pietà fidai. Se l’atto umile
sforzi ho difesa di feroce amante,
sol per renderla a te, parli al tuo core; (S’inginocchia)
e m’impetri perdon, se non favore.
Ben pensasti, Anileo, cercando al fallo
pietà, più che discolpa. Non si vince (Gli fa cenno di levarsi)
ira di re col sostenere orgoglio.
se non cancella, alleggerisce in parte
le andate colpe; e Palmide a me resa
non trar fuor della reggia. Io meglio intanto
                             Sia mite o fiero,
nella mia sorte adorerò il tuo impero. (Gli bacia la mano e si parte)
Col rubello Anileo tanta pietade?
                                       Palmide prega
non mi rende ragion? Perché fuggirmi
d’un esule su l’orme? Atto era questo
al tuo grado decente? Ed al tuo onore?
Palmide, errasti e non ti scusi amore.
Né amor mi scuserà. Re, tu lo sai,
                                    (Come!)
                                                      Quai rischi
ti fingi? E che diresti a re tiranno?
Se così di tiranno abborri il nome,
rendi a te, rendi a me, rendi al tuo regno.
(Vuole e non vuol; sta irresoluto e pensa).
A lui grazia userò, purché ubbidisca.
                       Re magnanimo...
                                                        E clemente...
Faccia il dovere e lo dirò innocente.
(Cangia color, qual chi è di mal presago).
(Chi mi parla è il mio re. Cor, tel rammenta).
ti cal del mio riposo e del mio affetto,
dimmi, ti senti un cor forte in mia aita?
è tuo. Lascia a me onor. Nulla a me serbo.
Ebbi pena e rossor del duro esiglio
più per dolor che tu paressi ingiusto
che per timor d’esser creduto io reo.
                                     Né in me la temo;
Fu il mio re sempre grande e sempre giusto.
rotto ha il bel corso di mia vita e trarmi,
               Tu sospirasti e già m’intendi.
                            Oh dio!
                                             So del tuo amore
e so del suo la vicendevol fede.
che non soffersi? E per disciorli ancora,
la sua fuga, il tuo esilio. Alza, deh, gli occhi,
fissagli nel tuo re. Vuoi la sua morte?
Vuoi la sua infamia? Esser convienmi a forza
Tu, che contra rubei, contra nimici
servi al tuo re contra te stesso. Cedi
il tuo piacere al mio. Fa’ tua regina
Offrile col mio cor la mia grandezza;
una parte per te. Metto in tua mano
il mio ben, la mia gloria e la mia vita.
Ubbidirò? Che dissi! Oh ubbidienza
funesta! Oh rea promessa! Io potrò dunque,
per servire al mio re, tradir chi adoro?
Fatale estremità, dove ugualmente
trovo obbrobrio ove vo, pena onde parto.
A chi serbo la fede? A chi la tolgo?
Perdonami, o mia cara. È forza alfine
che in contrasto sì fier ceda al più giusto
al re sveni il mio amore e a te me stesso.
Quanto v’invidio, alme in amor tranquille!
                              Protegge i vostri
quella mano real che i miei contrasta.
                                      Perché?
                                                       Sicuro
                                        Dubbio hai del mio?
Non vorrei che Nisea col cor del padre
                                           Sì sì, vorresti
che presso a te mi si spiegasse in volto
e i frequenti sospiri e i fissi sguardi
e quei languidi «oimè», soliti indici
del fervido desio, vorresti. È vero?
Ad eccelsa donzella, a regal figlia,
                                             Segui.
                                                           Io l’intendo.
Scelto dal re in tuo sposo, un qualche esige
innocente favor che il rassicuri.
che per illustre oggetto, in beltà pari
l’anima innamorata arde e si sface;
Ma non dicesti «Mitridate» ancora.
Mitridate, or lo dissi; e chi ti vieta
a tuo talento interpretarne i sensi?
Ciò che tace il suo labbro, il tuo cor pensi.
Può d’un fido amator Nisea pregiarsi.
Fede di amante è mobil cosa e lieve.
Forse in regno d’amor non v’è costanza?
invincibil non è, messa a gran prova.
In Ornospade io l’assicuro invitta.
Il più credulo è sempre il più ingannato.
Soverchia diffidenza è spesso iniqua.
Faccian gli dii che il cor ti dica il vero.
                                          Il forte amante
perché a Palmide vien mesto e pensoso?
io non credea che ti trovasse il tanto
desiato momento, in cui n’è dato
                                            Il sospirai,
ei per me sia funesto, ah, tu nol sai.
Ma qui ceder convienmi, ove ugualmente
mi perde il tuo consenso e il tuo rifiuto .
Che richiedermi puoi, ch’io ti ricusi
(Amor, di me si tratta e di te stesso).
Più non si taccia. A me fo ardire e il prendo
dal mio dover che d’ubbidir con pena
                                Io nulla intendo. Parla.
così vuole il mio zel (non il mio core),
più non si ascolti. Io il porterò alla tomba,
                                        Perfido amante!
Perfido e qual più vuoi, chiamami. È forza
ch’io gli occhi atterri, ove il mio re gl’innalza.
Tra il sovrano e il vassallo esser non puote
faccio un’infedeltà. Non è mia pena
Il doverlo a te dir solo mi affligge,
che da questa potea barbara legge
e lasciarmi morir con più di pace.
cessa di tormentarmi; e da me impara
come s’abbia ad amar. Quanto si debba
a un regnante, il so anch’io. Ma il suo diadema
non ha luce per me. Già lo rifiuto,
non mossa dall’amor, che più non merti,
che vuol farsi al mio cor. Se fasto avesse
mai potuto sedur gli affetti miei,
il tuo iniquo consiglio, or regnerei.
(Per sorprenderlo è questo il miglior tempo).
                                         Ah, che a misura
compiangermi non puoi, vergine eccelsa.
senza colpa tradisco; e perdo, oh dio!
può ripararsi, è picciol danno. Io t’offro
in un’alma real, che per te langue,
Perduta lei, mio solo voto e spene,
sacrifizio crudel quanti con gioia
fare il vorrian! Tu perché averne affanno?
Lascia Palmide al trono e sei fedele.
Ama regia donzella e sei felice.
                                              Il tuo sospendi
cieco dolor. Risparmiami. Già tanto
vergognarsi o tacer. Mira e conosci
la figlia d’Artabano e la promessa
sposa di Mitridate; e questi nomi
son per me troppo sacri, ond’io gli offenda.
Temi d’offender loro e me non temi?
Nulla resta a temer, se non la vita,
per chi vuol morte. A te che onoro, in odio
esser duolmi e in amor. Questo al tuo fido
sposo riserba; e mio, se il vuoi, sia l’altro
e se colpa ti sembra il dover mio,
puniscilo, o Nisea. Ti affretto anch’io.
Ecco il padre. È un gran ben, quando ad offesa
                                          Attendi. Figlia, (Prima ad Anileo, poi a Nisea)
                            Ciò che ti spiaccia.
                                                                Intendo.
Parlò Ornospade in mio favor?
                                                         L’iniquo!
                        Mel comandasti. Oh, quanto
Che fe’? Che disse? Che impetrò? Rispondi.
                       Tradito!
                                         (Oh me felice!)
e per sé favellò. Disse il suo ardore;
                                 Di qualche scusa
degno è il suo fallo. Una beltà, che s’ami,
Dovea non darla o mantener la fede.
Mi ha deluso l’iniquo. Era egli amante?
Negar dovea, dovea scusarsi e meno
dal rifiuto temer che dall’inganno.
Nol fece, sì gli piacque alzar su l’onte
d’un rival coronato il suo trionfo.
Fosse questo, o mio sire, il suo gran fallo
                        Sul labbro mio parrà l’accusa
                            Anzi vorrei più vite
perder che a te mentir. Sanno gli dei
che del mio re solo mi spinge affetto
cosa a dir che taciuta è in sua rovina.
Parla. Già freddo in sen serpe il sospetto.
D’Ornospade, o signor, fu nel suo esiglio
                                    Io nol sapea.
                                                             D’affetto
colà si strinse a cesare ed a’ figli
                                                Tiberio e Roma
armano a lor favor; né sfuggir posso
La fomenta Ornospade e il suo ritorno
il romano orator. Fia presto in Carre.
                                Ne ho fidi avvisi. Augusto
quasi ne fossi usurpator tiranno,
a’ figli di Fraate; e se resisti,
quant’è verrà a’ tuoi danni; e in Ornospade
La rea trama prevengasi. Il perverso
diasi a forte prigion. Tuo ne sia il peso.
Ben l’affidi. Già parto e il cenno adempio. (Si parte)
orgoglioso rivale e suddito empio.
Qui si ammetta Nisea. Parli a Ornospade.
Mel chiese e vi assentii. Giovami il farlo.
e a Palmide saria d’ira e d’affanno.
del nimico mi è a cor. Se a lui poss’io
                           Dal testimon del guardo
saran convinti. I primi dubbi ho sparsi
che colà vedi, sotterranea via,
Ornospade e Nisea. Fece l’ingegno
il suo poter. Faccia sue parti il caso.
Propizio è il caso a ben ordite trame.
(Malvagità quanto ha d’ingegno!) Ah, duce,
se innocente lo sai, se i tuoi rammenti
favor non lievi, ond’ei ti alzò a gran sorte,
che mi dà il mio dover. Chi tal mi fece
strugger può l’opra sua, pentirsi e trarmi...
No no, Geronzio, ei pria ne resti oppresso.
Io ciò che deggio a lui, rendo a me stesso.
Pusillanimo zelo, io non ti ascolto.
                               Già dato è il cenno.
                                        Qui novo sforzo
Difficile è il celar l’amore e il foco.
o dissimuli molto o poco intenda.
Qual ti guida a un meschin forza o volere?
più rea di quel che pensi; e al mal che feci,
dar compenso vorrei; ma tu me reggi,
dubbia di evento e di consiglio ignara.
A te non imputar ciò che mi viene
                                       Ah, tu non sai.
Al re, cui ben servisti, io t’accusai.
sdegno tanto poté di offeso amore,
che n’ebbi orror. Questo in me crebbe al primo
Trassemi qui pietà. Pietà trarrammi
a’ piè del genitor. Dirò il mio fallo.
Discolperò col mio rossor te stesso. (Ornospade sta in atto pensoso)
Placherò il padre o morirotti appresso.
Tolga il cielo, o Nisea, che sì mi punga
senso di offesa o tema di periglio
che vendicarmi o preservarmi io voglia
a costo del tuo onore. Al regal padre,
qual pretesto addur vuoi? Farai ch’ei sappia
l’amor? Lo sprezzo? La vendetta? E pensi
di salvarmi così? Peggio mi esponi.
Discolpa di chi serve è una calunnia,
s’è in aggravio a chi regna.
                                                  E che altro posso?
vergogna e pena, amante ed innocente
ritornare al tuo sposo e in abbandono
Che giovano qui pianti? Addio, Ornospade.
                             Quanto pietà mi detti.
Amor non oso dir, per non turbarti.
ch’io tacessi a Nisea, se mai... Che veggio!...
                                           Quanto è confuso!
A qual primo di noi? Pensa, o meschino,
qual di noi più tradisti. A lui ti volgi
Perfido. Ingannator. Deh, Mitridate,
comincia. Io nol saprei, sì l’ira affoga
l’un nell’altro i rimproveri.
                                                  Che feci?
sfogo a me lascia. La più offesa io sono,
Se il cederti a un regnante...
                                                     Era cotesta
per te la minor colpa. A ciò costretto
e pietà te ne avea. Ma chi ti astrinse
                                                   Io?
                                                            Tu lo neghi
il troppo omai lungo silenzio e alquanto
dal grave affanno respirar mi lascia.
Con quel dell’amistà da lui, non meno (A Mitridate)
Parlo per te; parlo per me; comuni
sono a me le tue offese, a te le mie;
ei ne spinse nel cor la piaga acerba
ne mostrò un dolor lieve? Una discolpa
                           Ma se respir non lasci...
                                      Me in sì angoscioso
oh, ti avessi anche sempre in mio riposo!
Qual cangiamento! E di che mai mi accusa
Palmide? A che mi fugge? Oh dei! Tu taci;
tu, cui tanto degg’io, tu fido amico...
Purtroppo il fui. Te dall’esiglio accolsi.
Per te pregai; per te mi esposi; e quasi
dal re mi provocai sdegni e gastighi.
il più misero amante? Ed insidiarmi
quella del cor metà che tua non era?
Ingiusta gelosia la tua mi toglie
stima e l’amor di Palmide; ma il giuro,
Ma Nisea nol dirà; né questi sassi
ebber ombra bastante a ben celarti.
                                                    Non posso.
                                   Non lo diresti,
se intender tu potessi il mio tacere.
                                        O dalla spene
Ma Nisea qui a te venne amante o amica?
Ornospade non può. Nisea tel dica.
A lei dunque si vada e il ver si scopra.
No. In trovarmi innocente avresti pena.
Vuoi che reo ti crediam Palmide ed io?
Vuol così, finch’io viva, il destin mio.
Ma qual novo furor qui ti condanna?
Un comando ch’è giusto in re ingannato.
Donde l’inganno suo? Dillo, ond’io possa,
benché sì offeso, opra prestarti amica.
Ornospade nol può. Nisea tel dica.
Vi son altre per me calunnie e pene?
e se possibil fia, fuggiam noi stessi.
laccio, ferro o dolor purghi la terra.
                        L’iniquo!
                                            Odimi.
                                                            È vano.
                                        A chi ’l difende.
Sul labbro di Nisea più lo condanna.
Sol mi sta avanti gli occhi il suo delitto.
                                         Chi l’ama il salvi.
Al re, più di Nisea, Palmide è cara.
Io non lo pregherò per un ingrato.
Se il perdon ne otterrà, l’abbia in mercede.
                                      E s’ei ti amasse?
Credi, gli sta nel cor solo il tuo volto.
                                         Più non vi ascolto. (Si parte furiosa)
furia letal che gelosia si appella.
Deh, tu la segui e studia di placarla.
Più facil crederò far che arda il ghiaccio
che ridurre a ragion donna gelosa.
A Mitridate parlerò tutt’altra
che a Palmide. Egli vien. Quando una bella
pongasi in più contegno, usi più asprezza;
dandogli per ragion: «Così mi piacque».
                                                 Eh, non è tempo
                                              In sua difesa
mi diè sproni altre volte un tuo comando.
Io lo credei pietade; ed era amore.
Credilo qual più vuoi. Non disinganno
ti adopra; ei ti è leale, ancorché rea
(Dura legge d’amor!) Da colpa ignota
                                    Seco è il re in ira,
Da Palmide altro intesi. Il re è deluso.
Sai da chi? Da Nisea, lo crederesti?
Vedi s’ami Ornospade io che il tradisco.
Deh, perché mai? Chi a ciò ti mosse?
                                                                     Oh, questo
non ti lice indagar. Cupido amante,
vuol poco meritar. Così mi piacque.
Tanto ti basti; e disinganna il padre.
                              E di Nisea?
                                                      Pretesti
trova all’error, discolpa alla menzogna.
Difficile non è che abbondi ingegno
a chi sta al regio fianco. Assai già dissi.
Servi a me. Placa il re. Salva l’amico;
e di più non cercar. Che se vedessi
spirto in te diffidente e cor geloso,
d’altra più sofferente amante e sposo».
dir non posso così. Ma che? Conviene
se un gran bene o un gran mal più perderei.
Giunto in Carre è Metello. Ad incontrarlo
                          Parto; ma nulla intanto,
che ne avresti dolor, l’eccelsa mente
di Ornospade risolva. Egli è innocente. (Si parte)
Guardati, o sire, d’indugiar. Previeni
le ree speranze e le dimande audaci.
I primi di Metello ardenti voti
né condannar tu lo potresti allora,
senza più provocar cesare e Roma.
il prottetor de’ figli di Fraate,
il seduttor di Palmide e di augusto
mora. Sarai felice e sarai giusto.
Oh fedele Anileo! Vinte hai l’estreme
ripugnanze del cor. Qualche rimorso
de’ trofei di quel misero. Han distrutto
le recenti sue colpe il merto antico.
Ei mi sostenne la corona in fronte;
e sua gloria maggior pensa che or sia
ritormela di capo e al piè gittarla
Ritorni a dubitar? Di me diffidi?
Ornospade si tragga; e là trafitto
sia da partico stral quel cor perverso.
tolgasi ogni orma; e di più luce adorno
sembri, al cader di lui, splender il giorno.
Tanto farò. Ma sinché il ferro intriso
non ti reco del sangue iniquo e fello,
celati a Mitridate e più a Metello.
Ire di re, vi applaudo. È dato il cenno.
Roma ne tremi e sbigottir le sue
faccia un sol colpo; e l’amor mio n’esulti. (In atto di partire)
Ove, o signor? Col non veder Metello,
Per poco attenda; e poi mi vegga e parli
                               Le trame scellerate
ma, grazie al ciel, già dissipate e rotte.
E se fosse opra sua la stabil pace
Roma vuol guerra e l’abbia. A provar quanto
venga il cesare suo. Vengano i figli
Non troveran sì mal difeso il trono
ma senza lui, lor primo appoggio e speme,
                                  Ah, qual t’ingombra errore!...
Non erro, no; so la dimora in Roma
dell’esule e le insidie. A questo ei venne.
sotto acciar di carnefice il mio capo.
Servì all’esule, è ver, Roma d’asilo;
ma non mai più d’allor ti fu fedele.
                                             Nol fece, o sire;
                                 Questo anche neghi?
Forse Nisea non fu presente? O forse
                              Le sue ragioni ell’ebbe.
labirinto m’hai posto! O tu m’inganni
                                        Assicurarti
puoi, se ascolti Metello e se Nisea.
fatal condizion! ch’error fuggendo,
a discerner non giunge il ver dal falso
e crede poi, quasi abbia agli occhi un velo,
la fede inganno e la perfidia zelo.
                            E lo compiangi? Oh vile
che sei! S’ei non si perde, io son perduto.
Palmide è qui. (Palmide guarda intorno agitata)
                              Furor la guida.
                                                           Accheta
che il traditor fia esanime, avrò pace.
Beltà cresce in quell’ira e tal mi piace.
de’ tuoi torti e de’ miei, prode Anileo,
piaceti meritar grazia e favore,
concedi al mio dolore una vendetta
il meglio perderia del suo trionfo
e la tua con men fasto ancor n’andrebbe.
Tutto, o Palmide, avrai, se cosa chiedi
che né scemar né differir la pena...
ond’io stessa a portar piaga omicida
seggio d’alma sì barbara e sì infida.
                                       Non, se dell’Asia il trono,
non, se te stessa ancor mi avessi offerta,
più lieto ne sarei. Soffra Ornospade
d’orror. Ma vedi poi che non sia vinto
l’odio novello dall’antico affetto.
No. Troppo è forte in me l’odio e il dispetto.
                                           (Son fuor di me).
Morrò, senz’altra colpa che d’averti
ti abusa d’un poter che non avresti,
se non fosse opra mia. Di mia costanza
forse sbigottirà la tua fierezza;
dalla man d’Anileo prender più orrore
per farmi più dolente oppur men forte.
avrai, fatto bersaglio ad altro braccio
dee, ma tarde, costar la mia innocenza! (Vien dalle guardie legato ad una colonna)
(E Palmide infierir potrà in quel petto?)
più che d’arco e di stral, di furie armata,
La vittima già vedi e l’ara e il nume.
Compiasi il voto; e tu, gran dea, l’accetta.
Palmide... Che rimiro! Ah, tu sarai...
Sì sì, quella sarò che nel più iniquo
il ferro punitor vibri e nasconda.
Nemesi il trasse alla sua pena e al colpo
ministra ella me elegge, ond’ei più il senta.
                                         Tu tremi! A che in quegli occhi
Oh Palmide crudel, Palmide ingrata!
Vien pur. Qui, qui ferisci, ove ti addita
Qui trafiggi quel cor che ti amò tanto
e tanto t’ama ancor. Se non ti basta,
trafitto che l’avrai, dal sen lo strappa
e d’ogni lato il guarda; e se lo senti
fervido ancor, di’ che lo scalda e avviva
al re che mi condanna; e l’arra ei sia
de’ tuoi sponsali. Un dì verrà che qualche
sospir darete alla memoria mia.
Eh, più non ascoltar, che la pietade
                 Pietade in me! Soldati, indietro.
lo quinci osserverò se la tua destra
Nemesi, atroce, formidabil dea,
tu la man reggi, tu accompagna il ferro
Ei sia fulmine e fiamma. Del lor tosco
lo spargano l’Eumenidi. In quel petto
porti tutto l’inferno, ov’io lo drizzo,
vendicator d’ogni mio danno e torto.
                                       Oimè, son morto! (Palmide si rivolta improvvisamente con empito verso Anileo e, scoccando lo strale lo colpisce e l’uccide. Egli facendo due o tre passi barcolando, va a cadere dentro alla scena. Nello stesso tempo cade il primo apparato della scena e dà luogo alla veduta di altra scena magnifica e luminosa)
                              Lo credo appena.
                                                               O caro
l’angoscia, in cui ti tenni, e che vicina
quasi è stata a tradirmi. Io, che altrimenti
volli almen vendicarti e morir teco.
render i dolci amplessi. Or che mi credi
fedel, venga pur morte. Al tuo Ornospade...
Venga vita e perdono... (Mitridate e Nisea corrono a slegarlo)
                                             E libertade.
spezzo queste ritorte e le calpesto!
                       Vedi il tuo re che a braccia aperte
di virtù e d’innocenza, anima invitta.
Palmide, che ti cedo, e quanto offrirti
né al ben che ricevei. Tu con la pace
ch’io già ancor ti dovea. Chiara è tua fede,
Chi mi prevenne e lo punì, si applauda
e n’abbia premio ed Ornospade ei sia.
Ma l’opre andate, o nobil coppia, obblia.
Che dir posso, o signor? Palmide e vita
è assai; ma nel tuo affetto ho un maggior bene.
dalla man del mio re, più il pregio e l’amo.
(Chi pensate avria mai tante vicende?)
Mitridate, Nisea, che dirò a voi?
Di tua sorte miglior lieti siam noi.
Se nel suo amor solo ir fastoso e lieto,
Mitridate, il vedessi, il tuo potrebbe
sospirarne d’invidia. Eh, tu il consola,
dal mio pronto ubbidir, tutto amoroso.
quei che dona virtù, te fan beato,
non gli ampi regni, ereditati o vinti.
Sovra mondo maggior stendean lo scettro
Non copia d’oro e non le tante in guerra
Ricco più n’era Mida e più grande ombra
di Cambise spandean l’aste e i vessilli.
vien dal tuo cor, ne’ lieti eventi umile,
che nel render ragion l’opre riguarda,
non le persone, e in giudicar si regge
non la frode ha poter, non l’innocenza
timore; e se livor pur osa o tenta,
vergogna il segue e pena lo sgomenta.

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