Metrica: interrogazione
689 endecasillabi (recitativo) in Imeneo Venezia, Pasquali, 1744 
Sì. Tradimmi il dolor. Vano è il negarlo.
Tu in me ravvisi un misero pastore,
bersaglio di fortuna e più d’amore.
Dorisbe ancor. Posso giovarti e il bramo.
E se il brami, lo spero. Omai sicuro
tutto il mio core al tuo bel cor s’affidi.
(Più vezzose pupille ancor non vidi).
Delo ho per patria. Arcesilao mi è padre,
cui danno scarsa greggia e picciol campo
Pago di ciò che basta, assai più abbonda
di chi ancor nel soverchio anela e s’ange.
Tal linguaggio i pastori usano in Delo?
Rose e mele hai sui labbro; e così appena
Fa industre man su rozze glebe ancora
le spiche germogliar. Del saggio padre
cura fu l’educarmi. Oh! Miglior uso
fatto ne avessi. Ei mi dicea sovente:
«Fuggi beltade, o figlio, e fuggi amore».
Ma chi da amor puote fuggir, che alato
vola, saetta e giunge uomini e dei?
Ma quando e dove egli ti prese al varco?
Nel gran tempio di Delo; e i lunghi giorni,
che dal Tauro al Leon Febo ne adduce,
son della mia perduta libertade.
E se in Delo ti strinse il gentil laccio,
Vaghi fa questi colli il sol che m’arde.
(Ingannarmi vorrei). Che sì, che Alisa...
Tu già arrossisci? Ella fu allor che a Delo
andò col padre e sciolse al nume il voto.
E allor, fosse mio dono o sua rapina,
                                           Deh! Se puoi farlo,
ripiglialo, Imeneo. Sai qual sia Alisa?
Figlia, lo so, di Eumolpo, onde con saggio,
più che sovrano impero, è retta Eleusi.
E tu, basso pastor, tant’alto aspiri?
Meta de’ miei desiri è solo amarla.
Senza speranza non si nutre amore.
E pur, ninfa gentile, amo e non spero.
E se speme non hai, qui a che seguirla?
A pascer gli occhi dell’amato oggetto.
Ma le pene sai tu ch’arman le leggi
ne’ giorni sacri all’eleusinia dea?
So l’ineffabil rito e che n’è escluso
Guai per te, se nel tempio ardir ti spinge.
sembrai vergine casta e a’ piè mi vidi
languir delusi amanti e mi fei gioco
de’ lor sospiri e dell’invidia altrui,
Temi la dea. Temi la sorte. Alisa
cerca nel prato, nella selva e dove
vederla a te non sia colpa e periglio.
Ah! Qualor la crudel m’incontra e vede,
le sfavilla sul volto e più che lampo
rapida a me s’invola. Io là sicuro
potrò bearmi nell’amabil vista...
Il tuo misero amor ti accieca e perde.
Segue ognuno il suo fato; e questo è il mio.
Usami tu pietà, silenzio e fede.
Sii tu Aglauro o Imeneo, mi punge in guisa
senso de’ mali tuoi che in tuo conforto
duolmi d’esser Dorisbe e non Alisa,
Quanto è vago Imeneo! Quanto è soave!
cui d’udir sortirà da quel bel labbro
i dolci accenti, i languidi sospiri!
Se Erasto si dorrà ch’io più non l’ami,
dirò che non è all’uso amor fedele.
mi accuserà... Di che? Se non conosce
Sì. Tacerò. Dispererò gli affetti
d’Imeneo per Alisa e accortamente
Tentiam. Chi sa? Non son fortuna e amore
Grazie agli dii, sola ti trovo e lungi
Con lei dal colle ragionar ti vidi.
Nobile Alisa, e che ti fece Aglauro,
                                   Se a lei mi ascondo,
                                        Ti fece offesa?
altri nol sa, né meno Aglauro istessa.
(Comincio a sospettar). Tu in odio adunque
Non l’odio già, che l’odio è un vile affetto;
ma ben la fuggo e fuggirolla ognora.
Tu così parli degli amanti ancora.
Uscì pure un sospir dal labbro austero,
chiuso sempre a pietà, chiuso ad amore.
Oh! Fosse ver. Dirlo pur deggio. Anch’io
Non pensano così que’ fidi e tanti
stimolo per amar vedersi amata
ma un oggetto incontrar che piaccia agli occhi
e nel cor poi s’imprima e di sé lasci
un’ardenza, un disio che amor diventi
Chi ’l crederia; mastra è d’amor colei
ch’alma parea così selvaggia e alpestre.
Tanto non istupir. Non arte ed uso
nella scuola d’amor. Due leggiadrette
pupille mi erudiro al primo sguardo.
Nel brio, negli atti, nel sembiante ha tutta
l’immagine gentil di quell’oggetto
ch’essendo quanto bel, tanto anche vile,
amar non meno che fuggir mi è forza.
Lodo il consiglio tuo. Ma che non cerchi
è un insanabil mal. Vorrei né posso.
ti converrà quando, per legge astretta
Oh! Questo non fia mai. Quindi mi volli
iniziar di Cerere ne’ sacri
arcani, l’anno oggi ne compie, ed ecco
in piena libertà me di me stessa.
A te fosti crudel (ma per mia pena).
Ora è di gire al tempio, ove ne attende
Là ti precedo ad onorarti anch’io.
Poi ti dirò per qual beltà m’accesi.
                                        Sì, s’ella fosse
alle leggi paterne ancor soggetta.
                                           Il sacro rito.
che sul volgo han poter, non sui regnanti,
simili a rete di sagace aragno,
non ad aquile altere ordita e tesa.
semplice abitator, poco comprendo
fin dove arrivi autorità di scettro.
sosterrà qui ripulse? Offrirà Odrisio
nozze e diadema alla superba Alisa
                                           Alisa è saggia;
e uno sposo real rado è che spiaccia.
Orsù, tentisi ancor quel cor di sasso.
Non lice a te porvi straniero il piede.
Loco non v’ha che a regio piè sia chiuso.
Vieteranlo i custodi; e non che gli altri,
l’ardir profano irriterebbe Alisa.
A senno tuo. Va’. Il suo voler disponi;
dille il pieghevol padre; e dille ancora
ch’ella è la dea, cui sol quest’alma adora.
Sire, è d’uopo affrettarsi. Anche il tuo regno
Da che lasciasti della Tracia i liti,
vago di riveder l’attica terra,
dal tuo valor, scacciatone Magnete,
suo primo prence, ha prese l’armi; e morti
O perfidi! O rubelli! Questa mano,
già sì soave nella mia vittoria,
proverete qual sia sdegnata e offesa.
Oggi, Rodaspe, partirem; ma soli
non partirem. Vo’ che ne segua Alisa,
                                     Ove si tratta
di regno, obblia beltà per te fatale.
Pronti i legni al partir tieni e i soldati;
né discoprirti inopportuno. All’uopo
farò giugnerti il cenno. A me conviene
riveder la crudel. L’ultima volta
questa siasi che a lei parli l’amante;
poi, se mi sprezza, parlerà il regnante.
non ha che il suo voler, taccia e ubbidisca.
non ammette consigli. Ecco in sé volge
Odrisio atroci idee. Sgridarle è vano,
secondarle perverso. E pur mi è forza
lasciarmi trar dall’impeto del vento
e là volger la prora, ove alfin vassi
fatalmente a perir tra arene e sassi.
Figlia, non il natal, non l’alta sorte,
non la beltà, doni del ciel, non tuoi,
ma l’esser monda d’ogni basso affetto
con cui s’onora l’eleusinia dea,
nell’onde chiare dell’Ilisso immersa,
i sacri inaccessibili ritiri
ammetteranno al sacrificio ignoto.
(Il core amante io già le appesi in voto).
Ecco, o vergini ninfe, ecco, o pastori,
Cerere son dovuti, a me non renda
perché in uso è di ossequio al ministero,
cui sono eletta. Piaccia a lei, cui servo,
darmi forza a serbar contra le tante
reti, che tende insidioso amore,
in pregio di onestà, libero il core.
Saggia ragioni. Or tu, Dorisbe, al crine
di verde mirto e d’auree spiche intesta.
Con qual piacer teco gli ufici adempio
Di nuovi fregi or sua beltà risplende. (Ad Imeneo)
(E maggior fiamma nel mio cor si accende).
sulla destra di lei bacio imprimete
Aglauro. (Bacia la mano di Alisa)
                   (O dio! Col piè mi trema il core).
Qual vampa di rossor ti ascende in viso?
Qual timor ti rattien? Sei ben modesta.
in questo bacio umil ricevi il pieno
                            Come v’impresse il labbro!
(Confusa è Alisa ed arrossisce e tace).
e la diva e i suoi doni e le sue tede.
Natali, dignità, grandezze, onori,
che mi cale di voi? Meglio sarebbe
scarso cibo nudrisse e serva fossi
di povero in custodia e non mio armento
O del mio pastorello occhi vezzosi,
o almen senza rossor potessi amarvi.
né men sarò d’altrui, che in altra parte,
né star vorria né spererebbe il core.
Son cosa buona e dolorosa i figli.
Per prova il so. Quanto sostenni e piansi
del caro figlio, oimè! perduto o morto.
Sentor mi giunse di poterlo in queste
contrade rinvenir. Faccianlo i numi;
amor, di gioventù sprone ed inciampo,
certo ti ha tratto a periglioso varco.
Ben tel diss’io; ma non giovò, che è troppo
nel fior degli anni e dal gentil sembiante,
spargere amori e non sentirsi amante.
Poco non fu l’indurla ad ascoltarti.
Chi fugge d’ascoltar vinto è, se ascolta.
Cor, che in sua guardia stia, mal si sorprende.
Taci. Ella viene. Io nol credea; ma temo.
Se non temessi, non saresti amante.
(Reggimi, amor, le voci). Illustre Alisa...
Erasto, non partir. Quantunque, o prence,
vano sia che tu parli e ch’io ti ascolti,
pure il saper che partir dei da questa
a te, che sei stranier, terra or vietata,
sofferente ad udirti, essere in colpa
posso de’ tuoi mal risoluti indugi,
vo’ compiacerti. Eccomi attenta. Parla.
Ma fora meglio assai che risparmiassi
a me un gran tedio, a te un’inutil pena.
(Buon che Dorisbe mia non è sì fiera).
Come, o bella, parlar, se già spaventi
fin sul primo sospiro i chiusi affetti?
Vengo a dirti che t’amo; e col mio core
vengo a gittarti una corona al piede.
Dono è questo sì vil che con disprezzo
mirar tu il debba? Un principe a te parla
più genti, o per retaggio o per valore.
Se neghi amarlo, non lo amar. Pazienza.
Ma almen di’ che il gradisci e disacerba
l’aspro tuo non voler con un: «Non posso».
(A sì grande amator basta assai poco).
E qual pro dal mio dirlo? A mal, che serpe,
ferro si chiede e foco. Il lusingarti
un tradirti saria. Pur se un «non posso»
ti basta, io tel raffermo; e dirò ancora
di rifiutar col donatore il dono.
Ma chi a ciò ti costrigne?
                                               Un voler fermo.
Alisa, se è voler, da te dipende.
Ciò che vogliam non sempre è in poter nostro.
Il consenso ho del padre e il tuo sol manca.
Questo impetrar non puoi né quel ti giova.
Te la corona renderia beata.
Né porpore né gemme egro fan sano.
(Beltà ostinata si consiglia invano).
Con sì rari del cielo e sì pregiati
doni vivrai solinga in queste selve?
Selve più d’ogni reggia a me gradite.
Perdendo il meglio dell’età fiorita?
La perde più chi in vaneggiar la perde.
O presto o tardi giugneratti amore
e forse, a scorno tuo, per vil pastore.
                 Già assai dicesti. Io troppa diedi
baldanza in ascoltarti a tanto orgoglio.
Non ti basta il «non posso»? Abbi il «non voglio».
E tanto osò colei? Tanto io soffersi? (Tra sé)
E sarò sceso alla viltà de’ preghi,
per riportarne tal ripulsa e scorno! (Sta pensoso)
Che far vuoi? Delle belle oggi è il costume,
superbia, ingratitudine, disprezzo.
dominator, me regnator possente,
me rifiuta una femmina? Me insulta?
Così femmina fa; segue il suo peggio.
Né mi vendicherò? Né con Eleusi
tutta distruggerò l’attica terra?
                                Eh! Modera il gran core.
Con beltà risentirsi è debolezza. (Odrisio si avvede di Erasto)
(Ah! Quasi l’ira mi tradia). Ne’ casi
Ma son gl’impeti lor vampa che nata
                               Erasto, addio. Per sempre
queste lascio al mio core infauste rive.
All’ingrata dirai che sospirando
le lascio... Ah! No... Dirai che sprezzo a sprezzo
spargo la sua memoria e l’amor mio.
Quanto per farsi amar giovi grandezza,
siane Odrisio oggi in prova. O me felice
Ella a me viene appunto e sua indivisa
compagna è seco la vezzosa Aglauro.
O nuova dolorosa! Ah! Se di Alisa
                          Che non ti senta Erasto.
Col tormi ognor la mia Dorisbe.
                                                           È vero.
né al fianco suo più mi sovvien di Erasto.
Questa è troppa amistà, se ti è più cara
                                             Io trovo in lei
l’oggetto, più che in te, de’ piacer miei.
Con sì serio sembiante a me ragioni
                                      Non vedi, Erasto,
                                        Scherzo? Da vero (Ad Imeneo, poi ad Erasto)
mai non dissi così. Voi sole, sole, (Ad Imeneo)
e cento amanti e cento Erasti e mille.
Altro è ciò che amistà. Tu più non m’ami?
Che? Del mio amor ti lusingasti? O folle!
E quando mi dicevi: «O caro Erasto»?...
Caro dico anche a un fior, caro a un agnello.
E quando mi giuravi affetto e fede?...
Giuramenti in amor son come voci
Il sasso le ripete e non le intende.
Ma qual fallo v’ha in me del non più amarmi?
sola esser deggio. Se sleal mi credi,
di novo in tuo favor. Va’, dura amante;
e quando io torni a te, fa’ che ritrovi,
per rossor del mio core, il tuo costante.
                                      Per gl’infelici,
                                      Io l’ho per altri,
qual vorrei che per me l’avesse Alisa.
Da lei non lo sperar. Ti abborre e fugge.
O dio! Che mai d’atroce in me ravvisa?
Perché quello che sei scorge in Aglauro.
Guai se sapesse mai quello che sei.
E il disse a te? Miseri affetti miei!
E più miseri ancor, se a te giungesse
ciò che pensa di te, ciò che ragiona.
cangiando, uscir di ambascia e di rancore.
Un comodo rimedio è un altro amore.
e questo è già di Alisa; e mi è più dolce
amar chi ti riami e chi ti renda
E pur, vago Imeneo, ninfa è in Eleusi,
cui fors’altra non v’ha che pareggiarsi
possa o di pingui armenti o d’ampie messi.
tutto è per te. Se gioventù, le ride
primavera nel volto; e se beltade,
E questa, o dio! per te languisce e more.
Soliti scherzi tuoi. Qual puote amarmi,
Quella, quella son io. Nel ravvisarti,
poscia divenne amore; e il cangiamento
sì subito si fe’ che non mi avvidi
se amor fosse o pietà quel del cor mio,
Tirannide d’amor, quanto sei grande!
facendone seguir chi da noi fugge,
vietandone d’amar chi a noi si dona.
Non era io dunque assai per me dolente,
il tuo amore ad affliggermi? La sola
speranza di quest’alma era Dorisbe.
Dorisbe ora è mio affanno e mio periglio.
No no, caro Imeneo. Non ti dia tema.
Pria morirò che m’esca il chiuso arcano.
Ti lascio a te. Tu pensa a me. Da Alisa,
da Alisa a te fatal guardati intanto;
tenta in favor di chi per te fa tanto.
Che più resta a sperar, misero core?
il timor di morir perdasi ancora.
il mio ardir, la mia colpa e poi si mora.
                                      (Oimè! Che incontro!)
                                                                                 (Oh! Il passo
                                    (Che farò?)
                                                            (Che penso?)
(Senza un atto scortese io gir non posso).
(Non si perda l’onor di un bel morire).
                                        (Ah! Non mancarmi, ardire).
dal tuo aspetto che onoro e lungi e presso,
Non son di Eleusi sì selvagge e schife
le ninfe, qual tu pensi; ed io mi pregio,
vie più che di beltà, di gentilezza.
Gentilezza, che regna in nobil core,
non va disgiunta da pietà; e se questa
tu mi ricusi, io la dispero altronde.
(Che vorrà mai?) Duolmi che, fatta appena
ospite nostra, in ria fortuna incontri.
Qui non nacque il mio mal; ma quindi venne.
E da Alisa dipende il darti aita?
Sta in tua man la mia morte e la mia vita.
Fa’ che i tuoi casi intenda. (Ho in ascoltarla
non puoi, lo so, voci di amor.
                                                      Di amante,
mi fan voci di ninfa innamorata?
Qui ne assordano i colli, i boschi, i prati;
e april qui pria vedrei senz’erbe e fiori
(Non par sì ria qual la dicea Dorisbe).
Solo per troppo ardir sono infelice,
alzai le brame a sì sublime oggetto
che, come ogni altro di beltade avanza,
così di grado sovra il mio si estolle,
più che cipresso sovra umil virgulto.
                     Tutto pareggia amore
                                       (Oh! Fosse vero).
                                                                         E vuole
Ma vuol ragione ancor che nell’affetto
Del rispettoso amor facciati fede
ch’io soffersi e languii, tacendo e amando.
dir, cadendo a’ suoi piedi: «O prima, o sola
non ti offenda però l’offerta umile
scolpire in esso la tua bella immago,
fede, valore, gentilezza; e tutte
grandi son, perché tue. Degno io te l’offro
servo lo accetta; e se per servo ancora
tu lo rigetti, ei si condanni e mora».
Così parla il tuo cor; ma parla in guisa
come l’idol tuo fossi e sono Alisa.
E se quel fossi tu, che mi diresti?
E al mio cor così Alisa? O care voci!
Alisa no, ch’ella odierebbe un core
che le potesse ragionar di amore.
or che tanta pietà m’hai desta in seno,
che tu mi sveli di chi t’arde il nome.
(Aita, amor, che questo è il duro varco,
l’ubbidirti in discolpa. Ecco prostrato (S’inginocchia)
                 Qual si punisca un scellerato. (Eumolpo rimane indietro)
                           Sì, se il comanda un padre. (Avanzandosi)
son queste mani di que’ vili nodi.
Verrò dove mi voglia il rio destino.
la meritata pena; e voi d’intorno
(Non anche intendo). Di qual fallo è rea
               Di noi, del tempio e della dea
e di te ancor, cui, se non fingi, ei scherne,
Che fai? Non odi? Non rispondi? Parla.
(Ah! Che purtroppo il riconosco. O dei!)
La cagion de’ miei mali è troppo illustre,
perché s’abbia a tacer. Più non mi celo.
figlio di Arcesilao, di Alisa amante;
eccovi la mia sorte e la mia colpa,
se pur è colpa. Io non mentii qui spoglie,
dea ma costretto da maggior possanza.
mi consigliò. Voi mi sforzaste a questo,
amabili pupille, e seguii ’l fato;
e seduttor non sono o scellerato.
mio genero e tuo sposo. Al nobil nodo,
su, apprestinsi le pompe; e in aureo nappo
il pregiato liquor; ma questo sia
venen che lo consumi e lo divori
sacrileghi attentati e audaci amori.
Giusta vendetta. (Or piangane Dorisbe). (Si parte)
vesti colui si spogli e poi si guidi
Rigido Eumolpo, ove m’invii non duolmi;
duolmi donde mi togli. In questo addio
sento, adorata Alisa, il morir mio.
E vero egli è che si ascondesse, o padre,
                      E che Imeneo fiamme abbia deste
                                Colpevoli e perverse.
Né della dea la riverenza.
                                                E ch’egli
E morir lo farà l’amor d’Alisa?
E i riti offesi e i violati altari.
Né meno il ciel, perché anche il cielo è offeso.
Siasi. La tua equità ben ti consiglia.
Senza vita Imeneo, tu senza figlia. (In atto di partirsene frettolosa)
Indegna figlia! S’altro in lui delitto
questo sol basterebbe a condannarlo.
E se tu perir vuoi, perdati pure
il tuo basso disio, pria che ti salvi
la mia vil compiacenza. Oh! Chi mai detto?
Chi creduto l’avria? Che tu di amori
la dea prendendo, non che il padre, a gioco,
ti abbassassi così? Ma questo è vero;
altro è il dir delle figlie, altro il pensiero.
Perfido, e questo è amore? E questa è fede?
Chi non odia un rivale è un fiacco amante.
Meglio occultarlo ad un rival dovevi.
osandomi oltraggiar, poco mi amasti.
Vendicarmi cercai, non oltraggiarti.
Un rival fortunato è sempre a tempo
è un facile trofeo far degl’infidi.
Orsù, se più su Erasto ho impero e forza,
vo’ che Imeneo si salvi e tel comando.
di lasciarlo d’amar, posso ubbidirti.
Ciò che prometter posso a Erasto amante
dell’odio mio né più mi venga innante.
Ho pietà d’Imeneo, l’ho di me stessa.
Se lo preservo, ecco per me un gran bene;
grato dover, me appien felice! Alisa
D’Erasto poi nulla si badi a’ pianti.
Son piacer nostro anche i traditi amanti.
                            Mia Alisa.
                                                 Al fido amante,
vedimi, io sopravvivo. O vil che sono!
a uccidermi, per me non v’è più morte.
Pianto che val? Diasi rimedio al male.
Amor le trovi; e se non son, le faccia.
Eh! Già veggo il velen... Veggo i bei lumi...
Ti affretti ad esser misera. Non anche
tratto è all’ara Imeneo. V’è cui sta a core
la sua salvezza e ne ha possanza e spene.
                                                 E che daresti
                              Che darei? La mia.
                                   Tu il cor mi strappi.
Non vi è indugio a frappor. Se il cedi, è vivo;
                                        Iniqua Alisa!
                                      La fé ricevo.
Qual partì frettolosa! Ah! Che fec’io?
Le sue spine ha ogni terra. A tutti in fronte
né so il perché. Forse potrò, in disparte,
Altri di voi qui scorti il reo prigione;
ei faccia a quel meschin ber la sua morte. (Le guardie di Eumolpo per due diverse strade sen vanno)
Mi appresserei; ma in pensier gravi immerso,
stranier. Grave ha l’aspetto. Udiam). D’Eleusi
a cangiar terra m’hanno i fati avversi.
A lido sfortunato or t’han condotto.
E pur gran bene ritrovar qui spero.
                   Unico mio perduto figlio.
                                         Se non certezza,
ne ho indizio; e un grande amor nulla trascura.
contrade... (Volgesi a guardare altrove)
                       Eumolpo tu?
                                                 Quegli. Ma attendi
                                 Uomini siamo
tutti ad errar soggetti. E morir deve?
Più lo compiangerai, se la sua miri
tenera età, guancia fiorita.
                                                  (Ah! S’egli
                        Come a te piace. (O dio!...
che crudeltà sarebbe i tuoi disastri
ora aggravar, che t’incammini a morte;
se cosa hai che ti caglia, a me l’affida,
che in me ne avrai l’esecutor fedele.
(Quel che là stassi a nudo capo e chino
a tua bontà gli dei. Quel di che deggio
(Vorrei vederlo in viso e assicurarmi).
Non è già che di morte o di rimorso
tace nell’alma di delitto ignara.
Nulla udir posso, sì sommesso ei parla.
Ciò di che duolmi è di dover con l’odio
morir d’Alisa e tuo. Deh! Tu che sei
ministro degli dei, col loro esempio
da’ perdono a chi ’l chiede; e tu mi placa
la figlia ancor né mi si neghi pace,
dacché sarò nud’ombra e fredda salma.
ti giuro; e questa destra abbine in pegno.
Lieto il ricevo e la man bacio (Le bacia la mano )
                                                       (Parmi
che abbia detto Imeneo... Io potrò meglio
di colà ravvisarlo. O santi numi!) (Va all’altro canto della scena)
D’altro ti prego ancor, che al vecchio padre
non giunga il duro di mia morte avviso;
non sa tacer, qui disperato il tragge,
Questo ancora farò. Vanne. Sa il cielo
con qual pena lo adempia; e sa se vita
                                    Io senza Alisa
                                (Che veggio?... Oimè!)
Addio, padre. Addio, Alisa. (Come da sé. In partendo s’incontra col padre che abbracciandolo gli sviene in braccio)
                                                    Ah!... Figlio... mio.
Padre... Ei vien meno. Ei more. A sostenerlo
Posiamlo qui. Tuo padre è questi?
                                                               In breve
prima che me il velen, lui non uccide.
l’uso ripiglieranno. A me la cura
Sì, che, presente il padre, a figlio reo
si divieta morir. Parti, Imeneo.
gli si spruzzi la fronte. Umani affetti,
quanto tiranneggiate i nostri petti.
                                                 Ove?
                                                              In Eleusi
son discesi i pirati e le vie chiuse
delle atterrite vergini ivi accolte
che d’inermi custodi. Io gli scopersi
e fei chiuder il tempio; e a te veloce...
Seguimi, Erasto. Per qual fallo, o dei,
Ahi! Figlio... Ahi! Tal ti trovo? Ahi! Tal ti abbraccio?
Dove l’avete tratto, iniqui? A morte?
E senza me? Fermate. Non sapete
o sulla informe tenebrosa salma
                                 O noi meschine!
Formidabil «non voglio»? Or ne fa’ prova.
a tuo piacer. Da’ profanati altari
Gli altari suoi come ha difesi il nume!
Come voi tutte! Oh, semplice che sei!
Tu temi Odrisio. Ei temerà gli dei.
d’oro, i gemmati fregi eccoti, o sire.
Valoroso e fedel. Ma qual ti segue,
giocondo in vista e il crin di rose adorno,
                              Un pastorel, già a morte
                                                   Ed ora
tu mi ricevi e di goder mi lasci
                               Tacete. E fra le tue
                                   Se la conosco?
Per lei morte veniami e per lei tosco.
                                             E ben lo merta.
Ei fu che ne additò dove riposti
fosser del tempio i più pregiati arredi...
E questi nappi di liquor ricolmi,
soavi più del nettare di Giove.
Liquor sacro alla dea. Non vi si accosti
m’invoglia più. Vo’ che il beviam, compagni,
lietamente per via. Più non si tardi.
Andiam. (Chi serve a un empio, empio è con lui).
tanto che il padre mio vivo mi abbracci.
In Imeneo chi avria creduto mai?... (Ad Alisa)
Tanto l’abborrirò quanto l’amai. (A Dorisbe)
                                   A pena. A morte.
Dei, secondate il mio pietoso inganno.
Tentisi, amici, un disperato sforzo.
che potran pochi inermi? Osserva, Erasto.
                              Sparso sta in esse il suco
ch’io la man vi stendea, sento armi e grida.
Mi fermo. Entrano i Traci. Ascondo il tosco
sotto le vesti. Destramente il verso
negli aurei vasi. Indi il presento agli empi.
Mi si fa plauso. Or tracannar li vedi
di tosto racquistar prigioni e spoglie.
Poi sia di me ciò che han disposto i fati.
O fati avversi! O d’opra ben tentata
velen non fu ma suco a indur possente
tale però che chi ne gusta, oppresso
tosto n’è sì che, se fresch’onda in viso
non gli si spruzza, ridestar non puossi
Uom nel sonno sopito è quasi estinto.
Per torne ogni sospetto andrò sull’orme
lor da lontan; né tua pietà fia vana. (Si parte)
In sì vil pastorel sì nobil core?
Chi a sì grand’opre il può destar? Chi? Amore.
è una prole rapita, altra un’estinta.
Omai fine al dolor. Gioia succeda...
Qual più gioia per me! Già morto è il figlio.
E già solcano il mare i rei ladroni.
E se Imeneo qui li traesse avvinti?
E si dà all’alme ritornar da Stige?
O figlia! (Ad Alisa abbracciandola)
                   O figlio! (Ad Imeneo abbracciandolo)
                                     (A sé mi vuol Dorisbe). (Si parte)
Salva a me riedi e appena il credo agli occhi.
E meno il crederai, quando fra’ lacci
e le libere ninfe e i sacri arredi.
Di quel prode garzon tanto poteo
deh! tu la pena mia rendimi ancora.
Già vissi assai, se non inutil vissi
a questa terra, a te, ad Alisa, a tutti.
segrete vie la provvidenza eterna
regge le cose umane. Ella te al giusto
supplizio tolse e lo cangiò in tua gloria
Vivi pure, Imeneo; pieni di lode
chiudi tardo i tuoi giorni e vivi al padre.
Poss’io, privo di Alisa, amar la vita?
Per lei spoglie mentii, per lei la patria
se all’eccelsa mercé l’opra non sale
e se i voti fa rei la vil mia sorte,
a che vita offerirmi? O Alisa o morte.
                   Perdona. A me lasciasti, o padre,
l’arbitrio sul mio cor. Tempo è di farne
buon uso; e tu m’ascolta. Il primo sguardo (Ad Imeneo)
che in te fissai, già peregrina in Delo,
di te mi prese e m’arse. In mio soccorso
chiamai ragion. Ma che? Più crebbe e strinse
se di chi voglio, dissi, esser non posso,
nemmen d’altri sarò. Questo gradisci,
caro Imeneo, questo dell’alma amante
darti poss’io, già è tuo. Quel che ricuso,
dal mio dover, non dal mio amor ti è tolto.
Fiero dover! Tiranno amor! Per voi
non son né figlia rea né amante ingrata;
a me sol sono iniqua, a me spietata.
O degna figlia! Tua virtù mi assolve
da un grave affanno. Al chiaro sangue, ond’esci,
meschiar quello d’uom vil? Degno ei ne fora...
E degno ei n’è. Tu nol conosci ancora.
Figlio appunto di re, perché mio figlio.
Son re e pastor la stessa cosa in Delo?
Quel che in Delo è pastor, fu re in Tessaglia.
Scettro in Tessaglia Arcesilao quand’ebbe?
Buon ma misero re. L’armi de’ Traci
ingiustamente lo cacciar dal trono.
Odi novelle d’ingegnoso amore.
Qual prova ne addurrai? Basta il tuo dirlo?
Eh! Son io, qual tu, padre. Altri lo creda
e me deluso Arcesilao non veda.
Qui dirai tue ragioni. (Ad Odrisio)
                                          In quell’Odrisio,
cui prestasti favor, ravvisa, Eumolpo,
Che miro? O dei propizi! A me quegli occhi
superbi, Odrisio. A me, Rodaspe, i tuoi.
                                   (Qual voce! Qual sembianza!)
Tu a me già sì fedel?...
                                           Sì, ch’egli è desso.
sempre t’ebbi nel core; e se mi scorgi
d’Odrisio al fianco, il son costretto. E ch’altro
far da noi si potea? Forza ne oppresse.
Ma i tuoi tessali alfine han scosso il giogo;
omaggio a te cominci un nuovo impero,
Lieto lo accolgo... Or che dirai?... (Ad Eumolpo)
                                                             Che a torto
già sospettai, che in te Magnete onoro
e che nel figlio tuo lo sposo abbraccio
di Alisa. Era ne’ fati il lor bel nodo.
Sol chi quant’amo sa, sa quanto godo.
Imeneo dunque è prence? (Addio, speranze).
Perché non parli? E fissa gli occhi a terra,
                                          Oh! Se mi amassi...
                                   T’intendo. Odami Eumolpo
ed Erasto e Imeneo. Non ha più Alisa
ragion sul core del suo amato amante.
                Perché?
                                 Me lo ha ceduto. È vero? (Ad Alisa)
del viver tuo ch’io preservai da morte...
dell’amor mio con un crudel comando.
sien misere per me? No, in Imeneo
non l’amante real; né questo al mio
stato umil si conviene. Io te lo rendo;
e alla bella pietà tutta mi dono
del fido Erasto e sua mercede io sono.
                O amica!
                                   O generosa!
                                                           O solo
                            Odrisio, il duolo e l’onta,
ne vendica abbastanza. Al re tuo padre
Seguanti i tuoi. Solo amistà qui giura
a noi tutti e a Magnete; e alfin conosci
che dell’opre malvage è il solo frutto
vergogna, danno, pentimento e lutto.
Ciò ch’io di me prometter possa in questo
m’ha la perfidia di crudel destino,
quanto potrò per ben valermi un giorno
della mia libertà; ma Eleusi fia
un fatal nome alla memoria mia.
Tra’ pastori e ne’ boschi, ove del pari
amor d’opre sì strane andar può altero.
Ma nelle reggie, ove tra quel che impera
Che dissi? Errai. Tu, augusta inclita Elisa,
sull’orme eccelse del tuo augusto sposo,
sai queste unir disuguaglianze estreme.
V’è un amore per te, con cui riguardi
magnanima e gentile i tuoi vassalli;
e un amor v’è per loro, in cui gareggia
sempre attento a’ tuoi voti ossequio e zelo.
Perché ami, amabil sei. La tua grandezza
non ti otterrebbe amor, se nol rendessi.
tutto si può, fuor che un forzato amore.
Questo è un affetto libero dell’alma
la via trovasti di obbligarti i cori
più che di libertà, che da te amati
sarian, te non riamando, ingiusti e ingrati.

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