Di contento crescan l’onde;
e le sponde all’Ebro infiori
con le rose un dolce amor.
E l’umor ch’egli diffonde
di mill’alme e mille cori
tutto senta il sen l’ardor.
ne lo sdegno e nel martoro
tutta immersa io troverò.
Ma in offrirle a suo ristoro
l’ira e ’l duol n’espugnerò.
ciò che a te di lei narrò;
con lo stral che il tuo ferì,
il suo petto ancor piagò.
cieca brama a che ti affretta
o di accrescer la tua piaga
o di estinguere il tuo ardor.
Se del bello ella è sì vaga,
più non dir che la innamori
un gran nome ed un gran cor.
Sorte ria, che vuoi di più?
ne l’amor, ne la vendetta
Vuoi ch’io parta? Partirò. (A Farnace)
Vuoi ch’io resti? Resterò. (A Decio)
Ma vendetta io vuo’ da te. (Or a l’uno, or a l’altro)
Vuoi tu amore? (A Farnace) Vuoi tu affetto? (A Decio)
So che ardir tu chiudi in petto. (A Farnace)
So che in sen tu vanti fé. (A Decio)
Ciel cortese, il gran potere
de’ suoi doni in lei mostrò. (Guardandolo attentamente)
Tutto il grande in lei si vede;
e quel volto a noi fa fede
Di’ che m’ami e son contenta;
nulla manca al mio goder.
Dillo, sì; ma nol ridire,
che potrei di vita uscire
s’è seggetta a un vero amor.
Forza altrui non la spaventa;
né l’alletta altrui favor.
Luci belle, io v’amo, sì;
amo ancora al par di voi.
che hanno in seno i grandi eroi.
Son offesa; e sol mi resta
de lo sdegno e del dolore
è un ingiuria e par favore,
Del tuo cor, del tuo sembiante
sono amante ed ho costanza;
Dir chi l’abbia a me rapita,
non conviene e non si può.
da sé stesso anch’ei talora
s’imprigiona e non lo crede.
Ma se poscia ei tenta il volo
verso il ciel che l’innamora,
de’ suoi lacci alor s’avvede.
Sempre lieti e sempre amici
prova gl’altri un giusto re.
Più crudele è chi mi sprezza
e più fier chi mi oltraggiò.
Pianga pure in doppia vena
l’alma altera e pianga insieme
la mia sorte e ’l mio dolor.
Ella è rea di doppia pena,
perché in me svenò la speme
Più tranquille le pupille
qui rimanti a vagheggiar.
Ch’io ripien de le mie pene
non partir, mio ben, da me.
dal piacer de tuo perdono.
Da la fé di un cor vassallo (A Decio)
il tuo impari a ben amar.
E non torni un nuovo fallo
Non temete, occhi vezzosi,
ch’io vi torni ad irritar.
Fu in mirarvi sì sdegnosi
troppo acerbo il mio penar.
sento onor che già si oppone.
sui trofei della ragione.
Campion forte, invitto amante,
Se mi vince il tuo valore,
nel tuo amor sarò felice;
È un favor, che rende audace,
quell’amor ch’ ella concede;
quella speme ch’ella dà. (Vanno a sedere nell’anfiteatro che tutto si riempie di spettatori)
che verrà, mio ben, da te.
Se tu brami la mia morte,
nuovo error sarebbe in me.
dove ha cuna e tomba il sole,
o leggiadra e bella prole
de’ famosi, eccelsi eroi.
e conceda il sen fecondo,
nel piacer che spera il mondo
a te fasti e gloria a noi.