Metrica: interrogazione
168 ottonari in Venceslao Napoli, Muzio, 1714 
   Abbiam vinto, amico regno,
n’è tuo frutto e gloria e pace.
   Il fellon superbo e fiero
cadde estinto e in suol straniero
insepolto il busto giace.
   Ama, sì, ma sempre chiara
sia la fiamma del tuo cor.
   Non è preggio in nobil petto
il nudrire un vile affetto,
il serbare impuro ardor.
   Pria che padre, assiso in soglio,
a punir de’ rei l’orgoglio,
questo braccio fulminò.
   Or vedrai, qual genitore,
al tuo sdegno, al tuo furore
   Come va dal bosco al prato
susurrando il rusignuolo,
vola l’alma al suo tesor.
   E pur dirgli m’è negato:
«Frena, o caro, il tuo bel duolo,
sei la pace del mio cor».
                          Mio bene, e che?
                                Se ciò brami,
sei tu ingiusta ed io infelice.
Sì che voglio ancor sperar.
   Io non sento per te ardore.
Tutto ardor son io per te.
Il tuo sdegno ho da placar.
   Con le donne che son fiere
e guerriere san di scherma,
Gildo, ferma!, non conviene,
   È bisogno ben piantarsi,
disinvolto e con bel brio,
né mostrar d’aver desio
perché il tempo alfin sen viene
   Non è d’uopo d’affannarsi
se il contrario ti repugna,
che destrezza e non fortezza
   Io son teco disgustata.
                         Mi sei grata.
E ti scordi l’accordato?
M’ero già dimenticato. (La saluta)
Di Gerilda il bel visino...
Di Gerilda il guardo acuto...
Di Gerilda il duol profondo...
   È più bella la tua Elisa.
Non parlarne, che sia uccisa.
                             Di lanterna.
                             Di lucerna.
                              Di caverna.
di Gerilda assai più tondo.
Ha di me più gran beltà.
   Per saper s’io sono amante
basta sol per breve instante
   Coi lor guardi afflitti e mesti
   D’ire armato il braccio forte
d’ogn’intorno straggi e morte
   Duolmi sol che il fier rivale
sotto a questo acciar reale
   Cara parte di quest’alma,
torna, torna a consolarmi.
                             All’armi, all’armi. (Cava la spada)
   Traditore, più che amore
brami piaghe e vuoi svenarmi?
   Son regina e son tradita,
il mio onore e la mia vita
   Nel tuo figlio è la mia sorte
o il crudel mi dia la morte
   Spesso vola un basso affetto
a oscurar d’un regge il petto;
però Astrea, ch’è assisa in trono,
   E quel sangue ancor fumante,
ch’è a la destra d’un regnante,
                            Men vado via;
                                    Con te?
Perché mai? Dimmi, perché?
   Perché al lume de’ tuoi lumi
voglio accender le candele.
          Crudele! Ed io ti giuro
che il padron starà allo scuro,
   Stia allo scuro il tuo padrone,
né in me fuoco v’è per te.
   Questa è troppa ostinazione.
Va’, t’aspetta il tuo padrone.
Hai li spirti troppo fieri.
Va’ a trovar i candelieri.
Troppo sprezzi chi è fedele.
Va’ ed accendi le candele.
Nol farai giammai con me. (Partono da diverse parti)
   Dolci brame di vendetta
già la vittima cadé. (Casimiro volendo porre lo stile sul tavolino, vede il padre nello stesso momento in cui il padre alzando gl’occhi vede il figlio)
   Col piacer di vendicarmi,
   (ma saprò, già vendicata,
poi seguirti, ombra adorata,
   Da te parto e parto afflitto,
   ma poi tacqui il dolce nome
che più aggrava il mio delitto
e più accresce il tuo dolor. (Parte seguitato da Gildo)
   E pur sento il dio d’amore
che il mio cor va lusingando
   Date morte... Ah no, fermate
                 Vengo; ma concedi...
                                Ch’a’ tuoi piedi
                          No, ti perdono,
                              Ed io t’abbraccio.
                         Ed io t’allaccio,
con più forte e saldo amor.
   E se teco io non vivrò,
                         Che ritrose...
   La giustizia con l’amore,
   Come padre e re dal trono
saprò al figlio dar perdono,
   Vivi e regna fortunato,
   Te si unisca a far beato

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