In sue trincee ben chiuso il nostro campo
non sien romani o sien rimasti i vili.
qual dovea, qual l’attesi.
Qualunque siasi, a te si ascriva il pregio
al suo duce, al mio sposo. Io potea sola
ma disio di abbracciarti, anima mia.
Chi è reo paventi e fugga.
tacqui e soffrii. Ma del supplicio a vista
di una scure il reo cada, io sarò il primo
ma tel diedi romano, eroe tel diedi.
Reo nel marito il fasto. A me sol tocca
Reo di ardir, reo di amore, a’ tuoi begli occhi
dee per voler de’ fati. Il grande impero
a te oltraggio sarian, queste ad entrambi.
pesa il merto e l’error. Qualunque siasi,
Buon pel reo che non tocca
più del giudice offeso il reo feroce.
quando il popol roman dee giudicarmi?
Non si risparmi il reo, solo si ascolti.
e in figura di reo perde il nemico.
Indegno è di pietade il reo superbo.
De l’opre, o buone o ree, la lode o ’l biasmo
e chi può perdonar potea punire.
che in sembianza di reo ti venga innanzi
che d’altro non è reo che del suo sdegno.
non reo, non vincitor ma cittadino. (Servilio con gli altri discende nella parte inferiore)
sta nel volto l’eroe, l’uomo nel core.
dovea prostrato. Orché il decoro è salvo
Io usar non la potea senza viltade.
laureo serto le tempia, onde di qualche
e meno reo che vincitor tal passi
O ferreo core! (Marco Fabio e Quinto Fabio scendono dalle logge seguiti dai soldati)
Roma un reo ti togliea. Mia man tel rende. (Marco Fabio preso per una mano Quinto Fabio lo presenta al dittatore)
del tumulto del campo il reo son io.
Prostrati, e tu buon padre e tu reo figlio. (Servilio, il popolo e i due Fabi s’inginocchiano a piè di Lucio Papirio)
al popolo romano il reo si dona.
Vedi, o Rutilia, se plebeo qual sono,